lunedì, ottobre 09, 2017

LEONARDO DI COSTANZO E IL CINEMA CHE PRENDE PER MANO: INTERVISTA AL REGISTA DE L'INTRUSA


Ho letto che hai smesso di insegnare perché non riuscivi a farlo nella maniera giusta. Questo vuol dire che nel cinema hai trovato i mezzi per esprimerti come volevi? E ancora, cosa ti ha spinto a iniziare il tuo percorso cinematografico in Francia e non in Italia?
Avevo studiato per fare l’insegnante di francese, poi, come spesso succede in questo lavoro venni mandato in una scuola di periferia dove mi resi conto di non avere nessuno strumento per confrontarmi con dei ragazzi complicati e anche difficili, Dalla sofferenza per questa mia mancanza è nata la decisione di andare in Francia. Lì sarebbe stato più facile trovare una scuola di cinema documentario. In Italia c’era solo il centro sperimentale mentre io avevo voglia di imparare a utilizzare la macchina da presa per fare l’antropologo e negli Ateliers Varan, fondata dagli allievi di Jean Rouch, trovai l’idea di cinema che cercavo.

Quanto questa scelta è stata determinante per il tuo modo di fare cinema
Rouch ha interrogato il modo di raccontare il mondo con dei film che raramente si somigliano uno con l’altro e che coinvolgono continuamente il mezzo per capire come raccontare al meglio ciò che si sta assorbendo. La riflessione sullo strumento cinematografico ha spostato la mia attenzione dall’antropologia intesa in senso classico e accademico a quella visuale e cinematografica.


Però so che poi hai ripreso a insegnare….
Si, per molti anni ho insegnato cinema e anche adesso continuo a farlo. E’ una cosa che mi appassiona motto e che spero di fare meglio di come realizzo i miei film (ride). Mentre sono in aula apprendo sempre qualcosa di nuovo e credo che la passione che accompagna le mie lezioni riesca a conteggiare gli studenti. Un atteggiamento che in parte ho ereditato dall’esperienza dei Varan la cui vocazione era  ed è quella di andare nei paesi in via di sviluppo dove il cinema non c’è, o è carente. Mi ricordo che facevamo molte riunioni preparatorie in cui cercavamo di capire come andare a spiegare il cinema ai cambogiani, ai colombiani e ai georgiani.

Una volta sul posto che tipo di approccio avevate con i vostri interlocutori
Non si trattava di andare li per spiegare loro un certo numero di regole ma di confrontarsi con la tradizione locale del racconto. In Cambogia, per esempio, ci si doveva confrontare con l’influenza del teatro parlato e danzante. Al contrario, nei paesi dell’est c’era una conoscenza della storia del cinema molto ampia e quindi una  tradizione molto radicata. Tutto questo mi ha allenato a restare in ascolto per aiutare le persone a fare il loro cinema e non il nostro.

Venendo al tuo film, sono affascinato dalla scarto tra la naturalezza del tuo cinema e il lavoro teorico che c’è prima che la macchina da presa inizi a girare.
La maggior parte dei film che faccio sono realizzati a Napoli, e dovendo girare in una città che si lascia molto filmare, e alla quale piace farsi guardare anche nei suoi aspetti meno belli, mi sono sempre posto il problema di come non compiacerla e di quale fosse la maniera che mi permetteva di non farmi usare da lei. Fin dall’inizio il mio intento era quello di mettere la capacità di essere attori, tipica dei napoletani, al servizio di qualcosa di molto solido. Volevo sfruttare la loro capacità di muoversi nello spazio e la loro gestualità, evitando di farmi incantare dall’affabulazione della città e di quella dei suoi abitanti. Mi ricordo sempre questa inquadratura di Rossellini che filmava Napoli attraverso il vetro di una macchina al cui interno c’era Ingrid Bergman. Attraverso il vetro dell’auto si vedeva il formicolio delle persone, l’attività dei mercati, la gente. Il bisogno di questo schermo per me è stato sempre un punto di riferimento. E’ un immagine che mi porto dentro e che da sempre guida il mio atteggiamento.

Parlando degli strumenti del tuo mestiere, volevo chiederti in che maniera è riuscito a darteli il produttore dei tuoi due lungometraggi di finzione Carlo Cresto-Dina, perché se il tuo cinema ha bisogno di tempo e il tempo è denaro la cosa non è poi così scontata….
Si certo, un po’ si, anche se alla fine questa parte preparatoria costa meno di cinque settimane di riprese e di tre o sei mesi di lavoro con gli attori. Tieni conto che la mia è una troupe molto leggera, costituita da non più di tre persone. Certo, bisogna pagare le gente – e io ci tengo a farlo – non soltanto quando sono sul set ma anche nelle giornate in cui ci sono le prove. Detto questo, credo che alla fine a Carlo convenga cosi perché quando ogni dettaglio è gia stato previsto la lavorazione scorre via più velocemente. E’ chiaro che la tipologia di questa preparazione era un problema che mi ero posto anche con L’intervallo. Uno dei punti da tenere presente era quello di non impedire al caso e all’improvvisazione di entrare in gioco e di influenzare la resa filmica. Anche questo è un lavoro che facciamo prima, in maniera tale che al momento delle riprese sia  molto chiaro ciò che ognuno di noi deve fare, e quello che invece può essere lasciato al caso e all’imprevisto. Se uno lavora con gli attori prima dell’allestimento del set si riesce a farlo. In particolare è indispensabile dire loro quali sono le cose che vanno assolutamente fatte, e definire quelle che invece possono essere lasciate alla spontaneità e all’improvvisazione.

Mi potresti fare un esempio di quello che mi hai appena detto
Ne L’intrusa, per esempio, c’è la scena in cui Rita, la figlia di Maria, (la moglie del camorrista ospite nel centro) viene introdotta nel ciclo officina, con l’operatore che la presenta agli altri bambini. Noi questa sequenza l’avevamo provata ma al bambino che gli dice “buongiorno, piacere, mi chiamo Ciro”, Rita non restituisce la stretta di mano. Siccome la bambina aveva capito che il suo personaggio si trovava a disagio ha deciso di non rispondere all’invito del ragazzino. E questo, non perché fosse scritto nella sceneggiatura o nella parte che abbiamo aggiunto dopo aver effettuato le prove, ma proprio come reazione logica e spontanea. Lei si è sentita di farlo ed è una cosa che ho salvaguardato poiché mi permette di inglobare nel film quella parte di imprevisto che è proprio della realtà.

Mi viene da pensare che questo modo di fare cinema non preveda molte riprese.
Dipende, non c’è una regola, in alcuni casi ne facciamo molte. Ne L’intrusa abbiamo operato in modo diverso rispetto a L’intervallo. In questo film la maggior parte degli ambienti erano in esterno e poi era prevista la presenza di molti bambini. Con Helene Louvert, il direttore della fotografia, abbiamo ragionato in maniera approfondita sul punto macchina, sul tipo di obiettivo, sulle distanze. Rispetto al film precedente, L’intrusa è stato girato più con il metodo del documentario. Con Luca Bigazzi ne L’intervallo non abbiamo preparato quasi niente. Lui diceva: “oggi filmiamo li perché in questo momento c’è la luce giusta”. Luca è molto veloce per cui abbiamo filmato molto di più che con Helene. Il fatto di avere in scena solo due personaggi ci dava la possibilità di fare più prove, di gestire meglio la situazione.

Sia ne L’intervallo che ne L’intrusa la concentrazione dello spazio risulta decisiva sia nel dare vita a ciò che che entra nell’inquadratura, sia a evocare quello che ne rimane fuori. Come ti accorgi di avere trovato lo spazio che avevi in mente.
In realtà abbiamo impiegato molto tempo prima di trovare lo spazio giusto. Ne L’intervallo abbiamo scritto la sceneggiatura nello stesso momento in cui incontravamo i personaggi; entravamo nel loro mondo e contemporaneamente andavamo a vedere i luoghi abbandonati. Io posso avere in mente la storia e la posso anche scrivere ma finchè non trovo il luogo adatto la sceneggiatura non si definisce. Ora è difficile razionalizzare questo metodo ma quando ciò accade hai la sensazione che l’altrove, il cosiddetto fuori campo, venga raccontato. Ne L’intrusa questo rimando all’altrove è molto più complesso perché la percezione del reale è davvero forte. A differenza che ne L’intervallo la realtà è molto visibile, quindi è stato più complicato ma anche più raffinato imporre lo spazio della finzione, e cioè delimitare l’area che definisce le quinte, e, di conseguenza, il fuori campo.

Spesso alla fine delle sequenze vediamo il primo piano dei palazzi che circondano il centro di accoglienza per i figli delle famiglie disagiate dove lavora Giovanna. Mi viene da pensare che la mancanza d’orizzonte che caratterizza quelle immagini si possa paragonare all’impossibilità della protagonista di risolvere il problema causato dalla presenza di Maria, l’intrusa del titolo.
Noi intendevamo piuttosto ricreare una sorta di isola per poi far sentire la comunità che le stava intorno; ci interessava rappresentare uno spazio limitato che però è parte di un tutto, disgiunto ma comunicante con ciò che esiste al di fuori di esso. Poi, certo, delle immagini ognuno se ne appropria. Un mio collega giapponese diceva che noi i film non li finiamo perché di fatto sono gli spettatori a farlo. Come critici abbiamo sempre la tentazione di stabilire dei parametri che sono più giusti di altri invece la bellezza di un film è quella di suscitare diverse possibilità.

Parlando ancora dei rapporti interni al tuo dispositivo cinematografico, e nella considerazione che guardando il film sembra che tutto avvenga senza un canovaccio precostituito, volevo chiederti: qual’è il peso della scrittura nella messinscena della storia
Allora, partiamo dagli interpreti. Ti confesso che dopo aver lavorato con non attori ho la curiosità di lavorare con quelli professionisti proprio per la curiosità di capire che cosa succede sul set. Per adesso, insieme alle persone che operano con me abbiamo messo in piedi un metodo facilmente adattabile alle diverse situazioni, basato  appunto sull’opportunità di prendere delle persone – a parte Giovanna – che appartengano allo stesso ambiente dei personaggi. Si tratta di uomini e donne che, in parte, o attraverso il contatto con terze persone, hanno vissute le esperienze che racconto nei miei film. In questo maniera, pur mettendo nei personaggi il proprio vissuto gli attori lo fanno senza il rischio e la paura di spogliarsi davanti alla telecamera, sicuri di essere protetti dallo schermo della finzione. Diversamente, si ha sempre la sensazione che invece della vita vada in scena il suo repertorio, la qualcosa finisce per rendere tutto assai prevedibile. Se decidi di lavorare con dei professionisti sai che ti devi chiudere per sei mesi in una stanza e lavorare sull’annullamento del bagaglio tecnico che si portano dietro. E’ un lavoro complicato, in cui è  richiesta molta disponibilità da parte loro.

Hai accennato a Giovanna interpretata da Raffaella Giordano, la quale, pur non essendo un’attrice di professione, è un essere umano bellissimo e nel suo ruolo davvero straordinaria.
Si, anche io la vedo cosi. Con Raffaella Giordano che è ballerina e scenografa abbiamo lavorato molto sulla distanza caratteriale tra lei e Giovanna. La difficoltà che si legge sul suo volto deriva anche dal fatto che lei è un’artista abituata a usare il corpo e non le parole. Il mio obiettivo era quello di trasferire questo disagio al suo.personaggio.

Lo sguardo di Raffaella non ha bisogno di parole perché da solo comunica sensazioni molto forti, per non dire della carica d’umanità che le deriva dall’impotenza rispetto alle questioni che gli si pongono davanti.
Capisco cosa vuoi dire. Tieni conto che lei normalmente quando è sulla scena è abituata a muoversi, invece nel film l’ho obbligata a rimanere ferma e a esprimersi con dei movimenti minimi. Tale costrizione ha prodotto una reazione che ha conferito al suo sguardo ciò che cercavo. Questa è la ragione per cui ho scelto lei e non una attrice abituata a comunicare attraverso le parole. Ho sempre pensato a Giovanna come a una persona un po’ rigida e distante, lontana, e l’interpretazione di Raffaella mi ha dato ciò che cercavo.

Tra l’altro lei diventa l’ago della bilancia tra le posizioni che i colleghi e le mamme dei bambini assumono rispetto alla presenza di Maria. A questo proposito, sono rimasto colpito dalla scelta di chiudere il film sul sorriso di Giovanna, perché in qualche modo lo stato d’animo della protagonista smentisce gli esiti della vicenda. Questo tra l’altro consente di apprezzare una qualità di cinema essenziale in cui anche il minimo scarto finisce per fare rumore.
Se non avessimo fatto così, all’entrata in sala degli spettatori avremmo dovuto dare anche del miele (ride). Comunque si poteva fare anche così, bastava toglierle quel sorriso. Però sia questo che il fatto che, ad un certo punto, lei esca e si metta a ballare mi serviva per raccontare  la vita di questi volontari, poiché il loro quotidiano è fatto di mille piccole sconfitte e di nuovi inizi. Anche di fronte alle forti avversità riescono comunque a reagire. Rimanere solo sulla sconfitta mi sembrava in qualche modo più facile.

Da dove nasce la storia del film
Da quando giravo documentari avrei voluto fare un film sul mondo del volontariato, persone che a me piacciono molto e che conoscono in quanto amici storici o conoscenti. Sono attratto dalle esperienze umane che fanno e dal confronto che hanno con gli altri. E’ gente che vive sul confine, inventandosi giorno per giorno delle strategie per relazionarsi con il prossimo. Questa ricerca di strategie, i comportamenti adottati e il continuo interrogarsi sul modo più giusto di relazionarsi è una cosa che mi ha sempre affascinato e che però non potevo descrivere con il documentario. perché avrei dovuto forzare la loro naturale ritrosia, approfittando del nostro legame d’amicizia. Eticamente mi trovano in una posizione un po’ scomoda per cui ho deciso di scrivere una storia e confrontandomi al contempo con il vissuto di queste persone. Alla fine abbiamo incontrato questa vicenda che mi sembrava contenere alcuni elementi della tragedia. Nella prima stesura si trattava di un film molto parlato, con i personaggi che, alla maniera del teatro classico, esponevano le loro ragioni. Questo c’è servito per delineare bene i personaggi, per capire chi fossero. Poi, con gradualità, abbiamo tolto tutto e come dici tu siamo arrivati a quest’essenzialità in cui ogni parola può avere un effetto devastante. Non è stato semplice.

L’intrusa, ovviamente, non è un film sulla mafia, piuttosto un’opera che si pone e ci pone delle domande sulla morale comune, arrivando a mettere in discussione i concetti di giustizia, legalità, di bene e male. La sua universalità  è però anche il frutto della corrispondenza che c’è tra i nostri comportamenti e quelli dei personaggi.
Ciò che dici mi solleva perché era ciò che volevo raggiungere. I personaggi sono degli sperimentatori, stanno sulla linea del fronte interrogandosi sulle energie da mettere in campo. I loro dubbi e le loro debolezze diventano i nostri. La camorra è presente non in quanto tale ma come simbolo del male, tanto che, se avessi raccontato  la storia in un altro paese avrei utilizzato altro, e comunque l’atteggiamento che hanno gli operatori del centro nei confronti di questi cattivi non è dettato dalla paura. Per Giovanna e i suoi colleghi i camorristi sono le prime vittime del sistema e la titubanza che dimostrano deriva dall’interrogarsi sulla maniera più adatta a intercettarli. Perché, come dice Giovanna, si tratta di spezzare le catene che eviteranno ai figli di seguire le orme dei padri. Accontentarsi di quello che è già stato fatto, e quindi rinunciare al tentativo di convincere costoro a rinunciare ai propri propositi gli farebbe perdere il significato del loro lavoro.

Le caratteristiche di cui parliamo fanno del tuo film un’opera politica e spirituale, capace di arrivare alle gente, proprio perché Maria potrebbe essere una persona che conosciamo, magari una dei tanti immigrati che arrivano nel nostro paese. In più la scarnificazione che operi sulle immagini lo rendono non solo anti retorico ma ne fanno un racconto destinato a rimanerti dentro anche a distanza di tempo dalla sua visione.
Ne sono molto felice perché non tutti sono riusciti a entrare nel film. Alla pari di te un sacco di gente mi ha dato l’idea di averlo compreso. Altri invece si sono fermati al fatto di cronaca e hanno visto L’intrusa come una storiella che alla fine non gli ha dato ciò che s’aspettavano. Mi sono interrogato molto sulle ragioni che hanno prodotto questo giudizio mettendo anche in discussione il mio lavoro.

In generale mi sembra che in questo come in altri casi a darsi per scontata è la carica d’umanità presente nella storia. Una cosa che nel cinema contemporaneo è sempre più rara. 
Credo che, un po’ come faccio io, anche lo spettatore debba crearsi il suo film. Perché questo sia possibile bisogna che chi guarda, una volta spente le luci, abbia voglia di spostarsi metaforicamente dalla posizione che ha preso per andare a vedere dove lo sta portando il regista. Non tutti sono disposti a farlo. Forse in questo caso si aspettavano qualcosa di simile a “L’intervallo”, una vicenda altrettanto fantasiosa e onirica. D’altronde i film hanno delle porte e non tutti entrano da quella da dove sono entrato io. Nessuno ne ha parlato male però c’è stata un parte di delusi che mi spinto a interrogare il film per vedere quale potesse esserne il difetto.
Con un film d’autore, in cui è evidente lo sguardo del regista, quando entro in sala mi illudo di conoscere chi l’ha girato, perché attraverso ciò che mi mostra capisco qual’è il suo rapporto con il mondo. Ai miei studenti dico sempre che la cosa più importante è fare il film che vogliono loro. La storia è importante e pure gli attori lo sono ma il pubblico va al cinema per vedere quello che pensa il regista. Insisto sul fatto che è l’autore a prendere per mano lo spettatore accompagnandolo dentro il film. D’altronde andiamo al cinema per vedere i film di Chaplin non le sue storie.

Negli ultimi anni il cinema commerciale per risultare più verosimile ricorre spesso alle estetiche del documentario. Penso che questo sia un fenomeno con il quale ti confronti quando fai un film. In questo senso volevo sapere come avete lavorato con la direttrice della fotografia Helene Louvert.
Con Helene è stato per certi versi ancora più facile. Come ti dicevo io mi sono formato in Francia con il cinema documentario. quindi con Helen è stato come ritrovare una compagna di studi, molto più che con Bigazzi, il quale viene da un’altra tradizione. Con Helene abbiamo lavorato due settimane, analizzando scena per scena. Per ogni sequenza abbiamo stabilito un preciso e unico punto di vista mentre con Bigazzi ne avevamo più di uno.
A proposito della scelta del punto macchina unico, mi puoi dire qual’è il suo significato e come funziona.
Significa interrogare ogni volta il senso di quella scena, il significato della posizione di chi guarda. Si tratta di stabilire il punto in cui dobbiamo stare per percepire meglio gli avvenimenti. e qual’è il nostro giudizio sui personaggi. Non è una questione di scegliere il punto più bello, né decidere la posizione che ci consente di comporre la migliore delle immagini. Come dice la tradizione francese il punto macchina diventa una posizione morale. A secondo di come mi metto oriento lo sguardo del pubblico, oppure gli faccio sapere cosa penso rispetto a ciò che stiamo vedendo. In questo mi sono trovato molto con Helene perché condividevamo lo stesso background.

Rispetto alla nostra contemporaneità volevo chiederti se in qualche modo il tuo cinema ha tra i suoi obiettivi quello di incidere sulla realtà.
Un po’ abbiamo sempre la presunzione che il cinema serva a qualcosa. Sappiamo che forse non è cosi ma facciamo sempre finta che l’opera che siamo costruendo sia ogni volta necessaria. D’altronde, visti gli sforzi che si fanno per realizzare un film non potrebbe essere altrimenti.

Che cinema ti piace

Sono onnivoro, però come dicevamo prima andare al cinema è come andare a trovare un amico. Così succede che quando vado a vedere i film iraniani mi sembra di incontrare persone che conosco e con cui mi trovo bene.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

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