domenica, dicembre 31, 2017

LA FOTO DELLA SETTIMANA

La La Land di Damien Chazelle (USA, 2017)

JUMANJI: BENVENUTI NELLA GIUNGLA


Jumanji: Benvenuti nella giungla
di Jake Kasdan
con The Rock, Jack Black, Karen Gillan, Kevin Hart
USA, 2018
genere, avventura, azione, fantasy
durata, 119'



Nel considerare gli elementi che rendono “Jumanji - Benvenuti nella giungla” un prodotto di pura fantasia non traggano in inganno le particolarità della trama, cioè il meccanismo del gioco che da il titolo al film. Come già sa chi ha visto il lungometraggio di Joe Johnston, di cui quello diretto da Jake Kasdan è il sequel, Jumani è il gioco che proietta i partecipanti in una giungla popolata da misteriose e letali creature. Nella necessità di aggiornare la confezione del prodotto, Kasdan sostituisce il gioco da tavolo con l’omonimo video game che all’inizio della storia risucchia i nostri in una foresta delle meraviglie dove i ragazzi, oltre alla fauna locale, devono vedersela con gli sgherri del cattivo che vorrebbe impedirgli di venire in possesso del gioiello necessario a farli tornare a casa. Ma la vera novità di “Jumanji - Benvenuti nella giungla” è quella che riguarda i personaggi. Capita, infatti, che gli stessi, nel passaggio dalla realtà quotidiana a quella virtuale, siano chiamati all’avventura utilizzando gli avatar fornitigli dal gioco, quindi con corpi diversi da quelli abituali. Se, come accade, il divertimento deriva dalla difficoltà dei personaggi di adeguarsi a una trasformazione che regala loro un fisico e dei carismi opposti a quelli di sempre - al punto che i due nerd del gruppo si ritrovano ad avere la silhouette e le possibilità di Rambo (interpretato da “The Rock”) e Lara Croft - a fare la differenza in termini di immaginazione è, paradossalmente, la rappresentazione della condizione giovanile. Coevo di una serie come “Tredici”, in grado negli Stati Uniti di scatenare polemiche e dibattiti per il realismo con il quale viene analizzato il dramma del bullismo e, più in generale, le disfunzioni proprie della fase adolescenziale, “Jumanji” procede, rispetto a quella, in direzione opposta. Kasdan, infatti, non esenta i suoi liceali da ansie e dolori ma ne utilizza il malessere in maniera ludica e divertita, non mettendo mai in discussione la certezza che a tutto si possa porre rimedio. Chi non lo avesse fatto, provi a guardare la fiction in questione e poi consideri se, paradossalmente, non sia proprio questa visione del mondo a dare al film il contributo maggiore in termini di trasfigurazione della nostra contemporaneità.
Carlo Cerofolini

sabato, dicembre 30, 2017

A GRAY STATE


A Gray State
di Erik Nelson
USA,'2017
genere, documentario
durata, 93'




Minnesota filmmaker David Crowley had a vision for America
He called it "Gray State"
(dal trailer di "A Gray State" di Erik Nelson)



Per capire meglio cosa significhi fare un film come "A Gray State" è indispensabile una premessa che ci porta a parlare di Werner Herzog e del suo "Grizzly Man", documentario incentrato sulla parabola esistenziale di Timothy Treadwell, capace di rischiare la propria incolumità pur di condividere spazi e abitudini del pericoloso animale. Se la smodata passione di Treadwell forniva al cinema di Herzog lo spunto per riappropriarsi dell'ambiente d'elezione, e quindi di tornare a quello stato di natura caotico e selvaggio che ne aveva ispirato i capolavori, il punto centrale di "Grizzly Man" è - come spesso succede nel cinema del cineasta teutonico - il tentativo di rappresentare il momento in cui la ragione cede il passo all'irrazionale, esplorando il confine invisibile che separa la normalità dalla follia. 

Una lezione di cinema di cui senza dubbio Erik Nelson (produttore di "Grizzly Man" e di "Cave of the Forgotten Dreams") ha tenuto conto quando si è trattato di scegliere il soggetto del suo documentario, basato sulla vicenda altrettanto drammatica di David Crowley, veterano di guerra e regista in itinere, trovato morto nella sua casa insieme a moglie e figlia nel gennaio 2015. Facendosi messaggero della protesta del cosiddetto Tea Party, il movimento politico che, nelle teorie cospirative espresse nella sceneggiatura di "A Gray State" - il film che il protagonista cercava di realizzare - vedeva confermato uno degli argomenti di punta della suo messaggio propagandistico, Crowley era diventato una figura di riferimento della destra più conservatrice, ala politica che oggi accusa il governo americano di averlo ucciso per liberarsi di un temibile avversario. 

Come nel film del regista tedesco, anche quello di Nelson parte utilizzando una sorta di falso scopo. Nelle battute iniziali infatti Crowley ci appare perfettamente risolto all'interno di un contesto che lo coinvolge in maniera viscerale ma pragmatica, con la ricerca dei finanziamenti che procede di pari passo con le fasi di pre-produzione del lungometraggio. Le immagini lo mostrano indaffarato nella promozione del suo lavoro in un clima generale di fervore ed entusiasmo, favorito dalla fattiva collaborazione di amici e famigliari. Tutto sembra tornare nel resoconto messo insieme da Nelson utilizzando per la maggior parte frammenti girati dallo stesso Crowley, il quale, a testimonianza dell'invasività dello strumento mediatico nell'esistenza dell'uomo contemporaneo ("Grizzly Man" vi alludeva sommessamente, ma in maniera netta), teneva una specie di diario filmato comprensivo di registrazioni vocali in cui rifletteva sulla propria esistenza e faceva il punto dell'attività lavorativa. Anche la morte, improvvisa e inaspettata, sembra comunque assecondare la trasparenza del film, ponendosi in relazione con la testimonianza del seguito riscosso da Crowley e dalle sue dottrine, diventate troppo ingombranti per non trasformarlo nel bersaglio di eventuali ritorsioni da parte dei suoi avversari. Invece, come in un tutti i gialli che si rispettino, Nelson a un certo punto mischia le carte, portando lo spettatore (come faceva Herzog con Treadwell) ad addentrarsi nella personalità dell'ex militare allo scopo di far venire a galla i lati più oscuri del suo carattere. 

Ciò che ne consegue è una perdita di senso che scombina le gerarchie della narrazione, facendo prevalere il privato sul pubblico, in un confronto continuo tra lo spettatore e il protagonista, ahimè fagocitato dai demoni dell'ispirazione artistica. Ai temi che appartengono al contingente della vicenda, come quello degli effetti post traumatici dovuti all'impiego nelle zone di guerra (a che titolo se ne parla lo lasciamo scoprire allo spettatore) e, ancora, delle derive assunte da certa politica statunitense, specialmente nell'entroterra del paese, Nelson non si lascia sfuggire l'opportunità di mostrare quello derivato dai fantasmi dall'ossessione artistica, riuscendo meglio di altri a mostrare in diretta e con pochi filtri cosa accade quando è quest'ultima a prendere il sopravvento sul resto della realtà. Ma c'è di più perché, alla maniera di "Citizen Four", il regista mette a punto un dispositivo capace di trascendere la forma documentaria con una struttura drammaturgica narrativa che - oscillando tra scoperte e successive sottrazioni - fa di "A Gray State" un mistery come il cinema di finzione non riesce più a inventare. 

Distribuito dalla Netflix il film di Nelson conferma l'importanza di saper scegliere una buona storia e di riuscire a trasporla senza perdere di vista il fattore umano. Senza dubbio tra i migliori prodotti diffusi dalla piattaforma americana.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

mercoledì, dicembre 27, 2017

COME UN GATTO IN TANGENZIALE

Come un gatto in tangenziale
di Riccardo Milani
con Paola Cortellesi, Antonio Albanese, Claudio Amendola
Italia, 2017 
genere, commedia
durata, 98’


Giovanni (Antonio Albanese) è un intellettuale che viene remunerato per ciò che pensa (Think Tank); Monica (Paola Cortellesi) è una borgatara che vive nella borgata romana di Bastogi.
Lui vive in un lussuoso appartamento nel centro di Roma, lei in una squallida casa all’interno di un casermone.
I due si incontrano a causa dei loro figli tredicenni che si innamorano e iniziano forzatamente a frequentarsi. Finale aperto e a sorpresa soprattutto per Monica e Giovanni, anche se forse la loro storia durerà come "un gatto in tangenziale”.
Nuovo film di Riccardo Milani che ci riprova con la coppia Albanese-Cortellesi dopo il lungometraggio di successo dello scorso anno “Mamma o papà”?
Il tema parla del conflitto sociale tra il ricco e il povero, l’intellettuale radical-chic di sinistra e la cameriera borgatara. Il razzismo ed il pregiudizio è qui reciproco e violento e rivela la profonda incomunicabilità originaria e naturale tra due mondi che come due rette parallele non si incontreranno mai… oppure si incontreranno all’infinito.
E Monica e Giovanni – le due rette parallele - finiscono per incontrarsi proprio all’infinito a causa dei loro ragazzi che hanno deciso di fidanzarsi.
Il ragazzo vive nella borgata romana di Bastogi tra indiani, gente del Bangla Desh, spacciatori, tossici e comuni delinquenti. La ragazza parla francese e indossa abiti e borse firmate e vive con il padre in un lussuosissimo appartamento nel cuore della capitale.
Ma i loro genitori – pur diversi in tutto – concordano sul fatto che questa storia non può continuare e iniziano a frequentarsi per evitare il peggio, aspettando che il destino o il tempo separino i loro ragazzi.
Lontana dalle melodie d’amore shakespeariano di Romeo e Giulietta, la storia - pur se sembra rimandare alla più famosa storia d’amore  di tutti i secoli – non potrebbe esserne più distante.
Rappresenta un mero pretesto per svolgere il tema delle classi a confronto, del dualismo centro-periferia attraverso però una esagerata caricatura degli stessi protagonisti.
Riccardo Milani probabilmente utilizza questo eccesso nei suoi personaggi per suscitare maggiore ilarità nel pubblico e rendere più intensa la commedia, ma il risultato è negativo, perché strappa sì qualche sorriso ma toglie credibilità ai personaggi stessi. Paola Cortellesi viene eccessivamente dipinta come una “coatta romana”, coloratissima, piena di tatuaggi, orecchini -lampadario, con la pelle perennemente abbronzata, unghie laccatissime e scarpe aperte sul davanti. Sembra sempre stia masticando gomme e si muove come chi è sempre sul punto di colpirti con una mazza da baseball.
Antonio Albanese è il suo esatto contrario: grigio, minimalista, sembra sempre indossare la cravatta anche al mare, cortese e ben educato. Almeno nelle apparenze visto che predica l’integrazione ed il supporto finanziario alle periferie romane, ma quando si tratta della sua vita e di quella di sua figlia si chiude a riccio nella sua prigione dorata e diventa il peggiore razzista di classe.
L’integrazione va bene ..ma solo se non tocca la vota di chi generosamente la auspica, va bene ma solo a parole. Il film è pieno zeppo di luoghi comuni: la spiaggia borgatara di Coccia di Morto, vicino Passo Scuro dove tutti fanno casino e sono chiassosamente colorati non può stare al passo con quella di Capalbio dove tutti parlano sussurrando e dove si sta scalzi per sei mesi l’anno per stare a contatto con la terra.

Il multiplex diventa un luogo pieno di persone rumorose che masticano, ruminano popcorn e ingurgitano Coca-Cola guardando film senza alcuno spessore, mentre il cinema d’essai è la sala per gli intellettuali che guardano film armeni sottotitolati in francese e rispettano in silenzio il lungometraggio anche se non ha contenuti e messaggi particolari, restando diligentemente seduti alla loro poltrona anche oltre i titoli di coda..
Anche il marito criminale di Monica (Claudio Amendola) è una caricatura: parrucchiere di professione, macellaio rissaiolo per passione e indole, anche lui coattissimo, coloratissimo, pieno di tatuaggi.. in una parola eccessivo.
Paola Cortellesi è sempre bravissima e ci ha ormai abituati a vederla in questi ruoli di donna forte di umili origini, ma l’effetto che ne scaturisce nel suo insieme è quello di dipingerci realtà stereotipate ed esagerate, schiave di clichè che oggi non ritroviamo più così nettamente come il regista ci vuole mostrare. Lo stesso finale è una forzatura dell’andamento della sceneggiatura, laddove affrettatamente ci vorrebbe aprire alla speranza dell’integrazione, perlomeno dei cuori dei due protagonisti che, d’un tratto e del tutto inopinatamente, sembrano sentire la mancanza l’uno dell’altra e seduti su una panchina in centro riescono perlomeno a gustarsi una pizza al cartone…. Forse per il solo tempo di “un gatto in tangenziale”.
Michela Montanari

BRIGHT

Bright
di David Ayer
con Wll Smith, Joel Edgerton, Noomi Rapace
USA, 2017
avventura, azione, thriller, fantasy
durata, 117'

Per il contesto in cui vengono dette, le parole pronunciate dal personaggio di Jake Gyllenhaal in "End of the Watch - Tolleranza zero" appaiono addirittura profetiche rispetto a ciò che sarebbe diventato il cinema di David Ayer. Il film del 2012 rappresentava l'ultimo atto di un percorso destinato a spiccare il volo a partire dal lungometraggio successivo, in cui la libertà creativa dei primi lavori deve vedersela con le conseguenze derivate dalla possibilità di accedere a mezzi produttivi di maggior peso commerciale. Ciò detto, se paragonassimo film come "Harsh Times" e appunto di "End of Watch" ai vari "Fury" e "Suicide Squad" ci si accorgerebbe che poco è cambiato dal punto di vista della trama e dei personaggi. La strada - intesa nel suo insieme di luoghi e persone - continua a essere allo stesso tempo lo spazio fisico per eccellenza, quello dove si genera e in cui si conclude ogni azione, e il viatico spirituale, mediante il quale la natura umana è chiamata a lottare per mondarsi dai propri peccati. Per rendersene conto basterebbe ricordare l'odissea di "End of the Watch", interamente ambientata nella Los Angeles dei sobborghi e dei vicoli più violenti e malfamati (gli stessi descritti da Ayer nella sceneggiatura di "Training Day") e confrontarla con i viaggi al termine della notte descritti nel film bellico interpretato da Brad Pitt e in quello supereroistico targato DC Comics.



Non esente da colpe ma condividendo, se non del tutto, almeno in parte, la natura delittuosa dei suoi avversari, l'antieroe di Ayers è destinato al venir meno di ogni certezza tranne quella dei pericoli sparsi lungo l'itinerario che lo separa dal raggiungimento della zona di sicurezza che gli consente di salvaguardare la propria incolumità. "Bright" non fa eccezione e anzi, in questo, sembra quasi la fotocopia del film precedente, riservando ai protagonisti il medesimo trattamento quando li immagina soli per le vie di una città che non vede l'ora di poterne pubblicare il necrologio. Analogie che non si fermano qui, se è vero che alla pari di "Suicide Squad" anche "Bright" sceglie di rivestire la contemporaneità con le caratteristiche tipiche del genere fantasy e supereroistico nella visione distopica di una Los Angeles in cui gli esseri umani convivono con orchi, fate ed elfi e in cui i grattacieli evocano nelle forme le torri e i castelli de "Il signore degli anelli". E, ancora, nel rispetto delle unità di tempo e di luogo (l'arco notturno e la collocazione metropolitana) come pure nella struttura narrativa organizzata intorno al percorso a ostacoli che vede l'agente Daryl Ward (Will Smith) e il collega Nick Jakoby (il primo orco a essere arruolato nella polizia) impegnati a portare in salvo la bacchetta magica di cui i cattivi si vogliono impossessare per governare gli Stati Uniti e il resto delle Nazioni.

A mutare nella poetica di Ayers è semmai la prospettiva, passata da un contesto polarizzato sulla corruzione esistente all'interno della polizia americana alle quinte di uno scontro in cui i personaggi diventano emissari o vittime di forze superiori e per lo più sconosciute, come il Signore del male che, in "Bright", la perfida Noomi Rapace conta di risvegliare grazie agli arcani prodigi della formidabile bacchetta. Ma ciò che più conta in tale contesto è la constatazione di come a fare le spese del nuovo corso cinematografico sia il mancato equilibrio tra le opposte tensioni che da sempre attraversano il cinema del regista. In "Bright", infatti, la necessità di intrattenere e di fare spettacolo - presente fin dai tempi dell'esordio - ha la meglio sulla propensione al realismo - brutale ma sincero - che rappresenta uno dei segni distintivi delle sue regie, spesso contaminate da uno sguardo che si rifà a esperienze vissute in prima persona. La sceneggiatura di Max Landis (figlio del grande John) non aiuta (non è un caso che i film meno riusciti di Ayer siano quelli in cui il regista non firma il copione), lavorando in superficie sia quando si tratta di affrontare la questione razziale, riassunta più che altro nelle diversità fisiognomiche che caratterizzano le parti in causa, sia nel ricalcare certo cinema di John Carpentener (1997, Fuga da New York) il cui universo, riflesso nell'eccentricità un po' freak dei suoi abitanti e nell'andirivieni notturno messo in atto dai protagonisti, è sprovvisto della coerenza necessaria a farlo percepire come un mondo a sé stante. Se poi ci mettiamo che la recitazione di Smith rimane a metà strada tra dramma e commedia si capisce come "Bright" sia destinato a figurare in maniera interlocutoria nella carriera di coloro che ne hanno preso parte.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, dicembre 25, 2017

LA FOTO DELLA SETTIMANA

La vita è meravigliosa di Frank Capra (USA, 1946)

DICKENS - L'UOMO CHE INVENTO' IL NATALE

Dickens: l’uomo che inventò il Natale 
di Bharat Nalluri
con Dan Stevens, Christopher Plummer, Jonathan Pryce
Irlanda, 2017
genere, biografia
durata, 104’


Alcuni mesi dopo una trionfale tournée americana, Charles Dickens rientra a Londra, dove lo attendono debiti e crisi creativa. Padre di una famiglia numerosa e figlio di un padre dissipatore, Charles è a caccia di denaro e di ispirazione. Illuminato all'improvviso dalle favole di una giovane domestica irlandese, decide di scrivere un racconto di Natale. I suoi editori,  però, delusi dalle vendite dei libri precedenti, rifiutano di investire su quel bizzarro abbozzo di spiriti e vecchi avari. Ostinato e appassionato, Charles trova un illustratore e un'alternativa. In compagnia dei suoi personaggi, lavorerà duramente per sei settimane venendo a capo della sua storia e chiudendo per sempre i conti col passato. 

Gli ingredienti obbligatori per identificare un buon film di Natale sono naturalmente la vigilia, la neve, un abete, una famiglia riunita intorno e un Babbo Natale che può essere declinato in angelo, elfo, diavoletto o fantasma. L’elemento indispensabile, difficile da afferrare, è soprattutto uno stato dello spirito, un mélange di benevolenza, sentimento e riconciliazione a cui non difetta mai un tocco di redenzione. All'origine del più classico dei cocktail c'è il racconto di Charles Dickens "Canto di Natale", pubblicato in Inghilterra nel dicembre del 1843. Dickens non era certo il primo scrittore a celebrare lo spirito del Natale ma fu quello che incontrò il successo più grande, sancendo lo slittamento della festa religiosa verso la convivialità familiare, la cena della veglia e lo scambio dei regali.

"Canto di Natale", che ha avuto numerosi adattamenti al cinema: l'ultimo, di Robert Zemeckis, racconta la storia di un vecchio uomo avaro e solitario che riceve la visita dei tre spiriti del Natale: lo spirito del passato, del presente e del futuro. A turno, gli dimostrano quello che ha perduto e quello che perderà perseverando nella ricerca della ricchezza e dell'arricchimento personale. Numerosi i film che rivendicano l'eredità dickensiana, da  La vita è meravigliosa a Il cielo può attendere, passando per Miracolo nella 34ª strada, tutto il mondo ha la sua chance e un angelo custode per riuscire e rimandare l'infelicità.

Tutto il mondo ha letto o visto almeno una volta quella storia di solidarietà, innocenza e bontà redentrice persuasa che la vita valga la pena di essere vissuta. Quella che racconta Bharat Nalluri è la storia vera dell'uomo che la inventò saldando i debiti e ricacciando indietro i fantasmi. Integrando la meraviglia all'ordinario, il meraviglioso al realismo sociale, l'immaginazione fervida al quotidiano laborioso di Charles Dickens: il regista gioca con le possibilità di questa magica intrusione. Il risultato non è tanto e non è solo il racconto biografico, ma anche e soprattutto la rappresentazione del processo creativo dello scrittore e del suo percorso iniziatico che, grazie agli spiriti che gli rendono visita, rivive i momenti salienti della sua vita. 


Pensato per grandi e piccini, “Dickens - L'uomo che inventò il Natale” è una favola natalizia che dosa stupore e candore senza rinunciare alla complessità. Dietro l'aria spensierata e gli occhi blu di Dan Stevens, il film rivela un'anima struggente e una buona tensione drammatica. Assediato dai suoi personaggi, che bussano educati alla porta del suo studio e lo seguono per strada in cerca di un finale, Charles Dickens cova un dolore. Il dolore fatale dell'abbandono e di un'infanzia sfruttata dentro una fabbrica di lucido da scarpe, l'angoscia sublimata nei suoi romanzi e nei suoi eroi dai colori forti, alle prese con la miseria sociale e morale. Personaggi che nutrono ancora oggi l'immaginario infantile e che non hanno ancora finito di interrogare quello adulto.


Bharat Nalluri lavora sulla ferita e sulla guarigione, sulla proiezione e sul transfert, sull'innocenza che il male non è riuscito a corrompere. La favola è là, discreta, cruda e piena di pathos; narra con l'elaborazione letteraria dell'artista, la rielaborazione emozionale dell'uomo, un uomo che affronta i propri mostri fino a farne il carburante della propria creatività. Nalluri indaga gli elementi dolorosi del percorso di Dickens, che davanti alla prospettiva della 'morte' si domanda come fare ad affrontare la vita. Un momento di presa di coscienza brutale che persuade a cambiare, aggiustare, crescere, prima che sia troppo tardi. Quella di Dickens è una storia piena di speranza come il Natale. 
Riccardo Supino

domenica, dicembre 24, 2017

JIM & ANDY: THE GREAT BEYOND

Jim & Andy: the Great Beyond
di Chris Smith
con Jim Carrey,
USA, 2017
genere, documentario
durata, 94


Scomparso dai radar hollywoodiani e travolto da una serie di vicissitudini personali che gli avevano fatto perdere ragazze e popolarità, Jim Carrey si è ripresentato al pubblico di Venezia con un documentario - Jim & Andy: the Great Beyond – the story of Jim Carrey & Andy Kaufman - che va oltre il soggetto del film, ovvero la lavorazione di “The Man on the Moon”, lungometraggio di Milos Forman, del quale il regista Chris Smith ci mostra il delirante backstage. Se, infatti , basterebbe il documento in questione per apprezzare il livello di immedesimazione raggiunto dall’attore, il quale, in una sorta di sdoppiamento psicotico diventa letteralmente il proprio alter ego , costringendo il resto della troupe, ma non solo, a considerarlo come tale (tragicomiche le parti in cui Forman e De Vito sono costrette a parlare a Kaufman e non a Carrey), “Jim & Andy: the Great Beyond – the Story of Jim Carrey & Andy Kaufman”, è, allo stesso tempo, la confessione di un uomo che ha fatto pace con i propri fantasmi e il manifesto di un’artista fuori dagli schemi. 


Senza accennare alla lunga depressione che lo ha colpito proprio all’indomani dell’uscita di “The Man on the Moon” Carrey lascia intendere il  lungo percorso che lo ha portato a distaccarsi dalle conseguenze di un successo incapace di renderlo felice, e nel contempo, si lancia in un’analisi del proprio mestiere nel quale anche le scelte in apparenza meno nobili, sono sempre state rappresentative dello stato d’animo contingente. Così, se la parte più stupefacente di “Jim & Andy: the Great Beyond” è certamente quella che permette attraverso l’identificazione di Carrey con il personaggio di Kaufman - di percepire lo straordinario talento dell’attore, per gli appassionati della prima ora, il film di Smith è la bigger than life di un’artista che ha scontato sulla propria persona gli effetti di una comicità che sembra venuta da un altro mondo. In questo senso Carrey è per davvero “The Man in the Moon”. Da non perdere. 
Carlo Cerofolini

venerdì, dicembre 22, 2017

FERDINAND

Ferndinand
di Carlos Saldanha
genere, animazione
USA, 2017
durata, 107'


Diventati popolari e largamente dibattuti sui giornali e nei talk-show, diversità e tolleranza sono temi che il cinema d’animazione ha raccontato anche quando -  soprattutto in America - parlare di diritti civili era tabù. Non deve stupire - e quello della mancanza di sorpresa sta diventando uno dei difetti di questo tipo di operazioni - perciò la scelta operata da Carlos Saldanha, già artefice della saga  de “L’era glaciale” e qui alle prese con un personaggio sviluppato da un vecchio cortometraggio delle Disney. Il protagonista è appunto Ferdinand, toro spagnolo deciso a ribellarsi al proprio destino che è appunto quello di combattere nelle arene con il torero di turno e, nella fattispecie, costretto a vedersela con chi invece lo vuole utilizzare come vittima sacrificale per l’addio alle scene del Matador più famoso del paese. 


Come vuole il copione di “Ferdinand”, la fuga del nostro si trasforma quasi subito in una funambolica quanto colorata avventura, al solito ravvivata da una coralità di personaggi secondari, la cui simpatia  e stravaganza concorrono anche questa volta ad animare un universo che fa il verso a quello (reale) dello spettatore. Identificarsi con uno di questi , soprattutto se si è piccini, è questione di un attimo, così come non si può non riconoscere a Saldanha il mestiere di chi sa come intrattenere la platea, facendola riflettere sull’importanza di tornare a una vita a misura d’uomo, alla stregua di quella bucolica alla quale Ferdinand spera di tornare al termine delle sue peripezie.   
Carlo Cerofolini

GABRIELE SALVATORES PRESENTA "IL RAGAZZO INVISIBILE - SECONDA GENERAZIONE"



L’affabilità e la gentilezza con cui Gabriele Salvatores parla de “Il ragazzo invisibile” - in uscita il 4 gennaio in circa 400 sale - non deve ingannare sulle ambizioni del regista e del suo nuovo film. Come dichiara Nicola Giuliano di Indigo Film che il lungometraggio l’ha prodotto insieme a Francesca Cima,  “L’ambizione era quella di realizzare un film fondativo per le nuove generazioni, capace di influenzare l’immaginario come lo stati per i miei coetanei i film di Bud Spencer e Terence Hill”. Abituato a confrontarsi con un cinema lontano dai suoi canoni “invece che continuare a ripetere all’infinito Mediterraneo”, a chi gli chiede come ci si senta ad affiancare Luc Besson nella sfida ai modelli statunitensi Salvatores ha le idee chiare: “con Nirvana avevo già cercato di affiancarmi a un certo tipo di cinema ed anche allora mi avevano detto che ero matto a tentare di farlo. Con “Il ragazzo invisibile” è successo la stessa cosa. La mancanza di un budget forte - dicevano - avrebbe impedito di realizzare un film capace di reggere il confronto con il corrispettivo americano invece penso che le idee e la competenza che ci abbiamo messo sia riuscita a restringere le distanze”. 


Sequel del primo episodio capace di totalizzare oltre 5 milioni di euro di incasso, “Il ragazzo invisibile - seconda generazione” non vuole essere un sequel tipo “Batman, nel quale abbiamo un personaggio che rimane sempre se stesso ma piuttosto un Boyhood dei super eroi dove il protagonista ogni volta deve affrontare i cambiamenti che gli derivano dalla sua crescita”. E ancora, a proposito della struttura narrativa il regista aggiunge “ Più che un romanzo di formazione in chiave fantasy dire che questo è una storia di distruzione perché Michele è chiamato a confrontarsi con il venir meno delle certezze acquisite durante la puntata precedente”. Se poi, parlando dei modelli che lo hanno ispirato, si citano gli X-Men Salvatores dice: ” in realtà non sono un fan dei prodotti Marvel e la serie dei mutanti non la conosco. Semmai posso dire che per me i capisaldi del genere sono lo Spiderman di Sam Raimi e, come per gli sceneggiatori, certi titoli degli anni 80 come i Gremlins in cui il divertimento non impediva agli autori di presentarci situazioni dolorose e terrificanti”. Se poi si vuole cercare a tutti i costi un aggancio con il cinema americano la parola passa a Victor Perez, già curatore degli effetti visuali del Batman di Nolan, il quale ci tiene a sottolineare come ogni progetto di questo tipo i soldi non siano mai abbastanza. In compenso dice Perez “le idee sono gratis e  con Gabriele abbiamo cercato di costruire non solo immagini belle ma anche significative, capaci di evocare sentimenti e stati d’animo, e dimostrando che anche in termini di effetti speciali certe cose si possono fare anche in Italia”. 


Visto che nel film i cattivi sono Russi diventa impossibile non chiedere se il film non voglia mandare qualche messaggio ai grandi protagonisti della politica contemporanea ma “In realtà”- dicono gli sceneggiatori “la Russia ci offriva quelle caratteristiche di esotismo che cercavamo per i nostri cattivi. E poi ci volevano avversari che fossero portatori di una potenza un po' sgarruppata come può esserlo quella dell’ex unione sovietica. Se fossero stati americani sarebbero stati troppo forti per i nostri protagonisti”. Sul fatto poi di non aver firmato la sceneggiatura Salvatores dichiara di non sentirsi affatto sminuito come autore: “Fare il regista è sufficiente a soddisfare il mio ego (ride) e poi ho sempre pensato che un film sia il risultato di un lavoro collettivo dove il regista si inserisce quando è necessario, com’ è successo anche qui nel momento in cui  girando abbiamo visto che cambiando qualcosa  la storia poteva funzionare meglio ”. A chi gli chiede notizie su un terzo capitolo il regista afferma di non averci ancora pensato e lascia intendere che molto dipenderà dagli esiti commerciali di questo film.
Carlo Cerofolini

mercoledì, dicembre 20, 2017

IL RACCONTO DI UN MONDO SENZA PIETA': INTERVISTA A FABIO MARTINA REGISTA DE L'ASSOLUTO PRESENTE



Il titolo del film nel circoscrivere l’esperienza umana al momento presente allude alla dimensione esistenziale dei protagonisti, al vuoto che impedisce loro di collocare ciò che fanno in una prospettiva che non sia quella contingente.
Il titolo è tratto da una frase che Umberto Galimberti aveva pronunciato nel corso di un’intervista che rientrava all’interno del materiale raccolto nel percorso di gestazione del film. Tra le altre cose Galimberti diceva che i giovani vivono in un assoluto presente, disinteressati sia del passato che del futuro. Riguardando il video tape di quell’incontro, ci siamo resi conto che queste tre parole coglievano in maniera esatta ciò di cui volevamo parlare nel nostro film e cioè la condizione esistenziale dei giovani d’oggi e anche di noi stessi.

L’affermazione di Galimberti è in qualche modo in contrasto con molte discipline new age che invece esortano a concentrarsi solo sul presente per liberarsi dall’ansia e migliorare le proprie performance.
Infatti è un gioco a più livelli che abbiamo scelto proprio perché il concetto si presta a una duplice interpretazione, negativa o positiva a seconda dei punti di vista. In quest’ultimo caso la frase ha un’accezione costruttiva che è appunto quella di cogliere l’attimo e di viverlo intensamente. A noi invece interessava il primo aspetto, quello negativo, poiché volevamo raccontare una condizione esistenziale a cui stiamo assistendo e che va avanti da circa una ventina d’anni in Italia e non solo. Una dimensione in cui noi tutti siamo inseriti e nella quale  a mancare non è solo una proiezione verso il futuro ma anche la memoria di ciò che siamo stati. Detto questo, aggiungo che in qualche modo il film ha assecondato l’ambiguità evocata dal titolo.


Se ci pensi la narrazione del cinema contemporaneo, con personaggi raccontati solo al presente e per questo privi di una profondità anche biografica, rimanda continuamente alla condizione vissuta dai tuoi protagonisti.
Sono d’accordo. Se vogliamo fare dei nomi penso a Gus Van Sant e al Michael Haneke de Il nastro bianco in cui viene raccontato il momento precedente allo scoppio della prima guerra mondiale e, in particolare, il clima di cattiveria in cui la mancanza di valori religiosi e persino d’amicizia tra bambini porta all’esplosione del conflitto bellico. Ecco: io mi colloco un po’ in questo tipo di cinema europeo perché anche Van Sant pur essendo americano si ispira a Bela Tarr e ad altri cineasti del vecchio continente.

Tu però riesci a fare del tuo titolo un manifesto di ciò che è il tuo film a partire dalla descrizione dei personaggi, raccontati esclusivamente attraverso il loro situazione contingente.

E’ stata una scelta. Volutamente non li abbiamo dotati di una biografia ma ci siamo limitati a guardarli come se fossero parte di un esperimento entomologico dove osserviamo questi piccoli insetti aspettando che succeda qualcosa che sia in grado di farci capire se sono dei mostri oppure no. La risposta è che, ovviamente, non lo sono,  perché ciò che pensano e fanno è il prodotto di ciò che siamo noi. Il film nasceva dall’intento di raccontare il vuoto delle coscienze prodotto da anni di dilagante capitalismo. Un concetto che riprende Pasolini nella visione di un capitalismo che uccide qualsiasi valore umano.

Nella sequenza che introduce i titoli di testa racconti la violenza con una cura estetica che la rende quasi astratta. Era questo un modo di anticipare l’orizzonte amorale dei personaggi
Mi fa piacere che tu me lo abbia detto perché sei il primo ad averlo notato. Si, era esattamente così. Mi interessava fare in modo che quella violenza non fosse ostentata. Non volevo che fosse una brutalità fisica ma che fosse percepita in modo da permettere allo spettatore di entrare in questo mondo che, come tu dici, è amorale, ossia caratterizzato da un vuoto che non è materiale ma emotivo. Nella sequenza in questione il carrello e la camera a piombo mi sono serviti per  raggiungere l’astrazione capace di ricrearlo.

Anche il pavimento, con i disegni a mosaico, va in questa direzione.
Il pavimento non lo abbiamo scelto a caso perché la forma a mosaico che vi è disegnata serviva per evidenziare una frammentarietà ricercata anche nel montaggio del film.

A proposito di montaggio, nel tuo film la narrazione assume le forme di un flusso che si muove su diversi piani temporali. Era questo un modo per rappresentare il deragliamento psichico dei personaggi.
Si, la discontinuità mi serviva per spezzare la cronologia del tempo narrativo e immergere i personaggi in un tempo coscienziale. Il film è anche un tentativo di entrare dentro l’interiorità dei tre protagonisti per mostrare esattamente quello che sono, ciò che pensano. La sfida è arrivare a conoscere perché l’hanno fatto, cosa li ha spinti ad assalire il giovane, lasciandolo a terra morente. E’ questa la traccia e allo stesso il motivo trainante di tutto il film. La frammentarietà rispecchia anche un certo tipo di modernità propria del cinema contemporaneo ma ha anche una valenza narrativa, derivata dal fatto che se uno si macchia di determinati comportamenti percepisce il tempo in maniera differente dalle altre persone.

La precisione geometrica delle linee architettoniche e la predominanza di superfici riflettenti comunicano una bellezza fredda e asettica. Anche qui mi è sembrato che la messinscena voglia riflettere il vuoto esistenziale dei personaggi.
Si, abbiamo lavorato in questa direzione. Gli ambienti dovevano essere il più possibile spogli e privi di oggetti, per riprodurre visivamente il vuoto morale dei personaggi. Tra l’altro, non avendo un budget molto alto, questa procedura è risultata molto adatta alle nostre economie. Con il direttore della fotografia Giorgio Carella ci siamo concentrati molto sul bianco che rappresenta un po’ il colore de “L’assoluto presente”. Anche se l’inizio è caratterizzato da luci notturne e dai colori del neon, il bianco rimane dominante. Una tonalità che ritroviamo nella sequenza finale, con l’assoluto presente incarnato dal vero protagonista del film che, in quanto fotografo, è immerso nel bianco del suo studio. Associare questo colore al personaggio in questione mi ha permesso di aggiungere un surplus di senso all’azione più cattiva di tutte, quella in cui il ragazzo strappa il disegno del suo interlocutore. Non è un caso che sia lui a essere  protagonista della scena centrale del film e di quella conclusiva in cui il pianto finale ne testimonia la consapevolezza di aver commesso una mostruosità, di aver prodotto il niente attorno a sé.

L’inizio del film è molto alla Michael Mann, con lo skyline notturno della città e il suv che lo attraversa nel silenzio più assoluto.
Il film è collocato a Milano in un preciso momento della sua storia, quello in cui la metropoli si stava estendendo verso l’alto. Da qui, per esempio, la scena in cui si ritrovano a parlare al 39mo piano e anche il motivo per cui inquadro spesso i grattacieli. I milanesi si ricordano come nel 2008/2009 la città crescesse verso l’alto, con grattacieli che spuntavano da ogni dove mentre ci si chiedeva dove stesse andando la città e dove i suoi cittadini. Il film è la descrizione di un momento storico che abbiamo vissuto e insieme la fotografia degli anni berlusconiani in cui il presidente del Milan diceva pubblicamente in televisione che le donne dovevano sposare uomini ricchi. Anche se lo abbiamo vissuto, non l’ho mai visto raccontare con lucidità. Penso che questo film tenti di farlo in modo interessante e coraggioso.

Volendo semplificare, dico che il tuo film conferma una differenza che esiste tra il cinema milanese e quello romano. Il primo è ambientato all’interno della città e in quella city che ne costituisce il centro – penso per esempio a Il mio domani di Marina Spada – mentre il secondo è più limitrofo, spesso chiuso all’interno delle borgate. Sei d’accordo con questa definizione.
Si, sono d’accordo. La collocazione della storia nel centro della città va in direzione opposta a quella di tanto cinema realistico e a un tipo di cinema lontano dalla maggior parte del pubblico. Se uno ci pensa lo spettatore medio vive all’interno della città. Quando vado all’Anteo vedo molti film che parlano di realtà periferiche, distanti anche geograficamente dal baricentro metropolitano. Io, invece, desideravo raccontare qualcosa che facesse parte del mondo dello spettatore, con problemi che non sono propri della periferia ma relativi agli ambiti in cui viviamo noi. Se la città, nella sua trasformazione, si sta sfaldando dal punto di vista dei valori questo per me è significativo e lo rifletto nello stile. Se hai notato nel Suv ho inserito tre punti di vista, ognuno dei quali corrispondente a uno dei personaggi. In più scelgo di non farli mai vedere insieme all’interno dell’auto, creando una frammentazione capace di rimarcare la separazione esistente tra di loro, corrispondenti a tre inquadrature differenti. La durezza del film per lo spettatore deriva anche dalla vicinanza che esso ha rispetto a ciò che vede.

Molti film anche recenti hanno raccontato una certa gioventù maledetta. Penso a Gioco da ragazze di Matteo Rovere e all’esordio di Andrea De Sica. L’assoluto presente lo fa con dei toni allucinatori e sarcastici che mi hanno fatto venire in mente Arancia Meccanica di Stanley Kubrick.
Questo è sicuramente un film di riferimento. Non l’unico ma certamente un titolo che ho guardato molto. Per onore di cronaca ti devo dire che, oltre ad Haneke, mi sono ispirato al Rossellini di Germania anno zero. Se il finale del film di Rossellini si chiude con il bambino che si butta dal palazzo, qui la tragedia assume l’urlo di dolore di uno dei protagonisti, il quale, dopo aver soppresso le emozioni per tutto il film le lascia venir fuori in tutta la loro tragicità.

Nel pianto della scena finale non c’è consolazione e non si produce alcuna catarsi. Anche negli effetti che ne conseguono. A me la sequenza ha ricordato quella analoga di Vive l’Amour diretto da Tsai Ming-liang.
E’ proprio così, l’opera di Tsai Ming-liang mi è stata d’ispirazione e tu sei il primo che se n’è accorto. Quello è un film dove non c’è consolazione. Con la catarsi, infatti, lo spettatore esce dal cinema dopo aver scaricato il pathos emozionale prodotto dalla storia. Io non volevo che ciò avvenisse perché mi interessava che in mancanza di quella lo spettatore  riflettesse a proposito del tempo che stiamo vivendo. “L’assoluto presente” è volutamente tragico anzi, direi anche, positivo.
Volevo parlare della scelta degli attori: avevi tra le mani un grande interprete come Marco Foschi che pur non lavorando quanto meriterebbe è comunque una faccia conosciuta. In realtà per i ruoli principali hai scelto un cast di attori con facce particolari e fuori dal comune che sono destinate a restare impresse nella mente dello spettatore.

Ti eri accorto che Riccardino (uno dei protagonisti del film) in realtà è interpretato da una donna. Lo avevi capito

Assolutamente no. Avevo qualche sospetto perché durante la visione ero stato attratto dal personaggio ma non credevo che fosse un uomo. Mi viene da chiedere come hai fatto a trovare lei e gli altri, e in che modo avete lavorato sui personaggi.
Per fare questo film ho impiegato dieci anni, in quanto il fatto di produrlo in  proprio ha allungato i tempi necessari a reperire i soldi e scegliere gli attori. Per  trovare gli interpreti giusti ho fatto una ricerca di circa un anno nelle varie scuole di teatro e persino nella carceri, sostituendo il casting con laboratori di recitazione espressiva in cui con gli attori lavoravamo sull’emozione. E’ stato un processo molto lungo, che però mi ha permesso di capire dove stavo andando. In mezzo a quasi cento attori ne ho trovati quattro – perché c’è anche la protagonista femminile – due da Quelli di Grock, due del Piccolo Teatro che sono tra le più importanti scuole di teatro. Con loro ho lavorato intensamente per circa 8 mesi. Inizialmente non sapevano nulla della storia e quasi nulla dei personaggi, perché volevo che si concentrassero solo sulle emozioni. Poi, a due mesi dalle riprese, gli ho spiegato i ruoli e vi ho collocato le emozioni. Una settimana prima hanno letto le sceneggiature ma solo per la  parte che li riguardava: per non fagli sapere dove andasse la storia e cosa avrebbero fatto gli altri personaggi. Questo proprio per chiuderli all’interno del loro mondo e, di conseguenza, per far sì che i conflitti scaturiti dai loro rapporti fossero più autentici possibili. Soprattutto, ho girato in sequenza e non per locations, dando loro la possibilità di vivere la storia.

Nel cinema sappiamo che il tempo è denaro. In questo senso ti volevo chiedere: come hai fatto a conciliare l’esiguità del budget con una preparazione così lunga
Quello fatto per il mio film è un lavoro che non ha business e che non ha motivo di esistere in un sistema mainstream commerciale. L’assoluto presente è a tutti gli effetti espressione della volontà di raccontare qualcosa e di farlo con una disposizione volontaria  che è stata quella mia e di tutti quelli vi hanno collaborato, a cominciare dalla video maker che mi ha seguito durante i laboratori curandone le riprese e che poi è diventata un po’ il mio braccio destro, e continuando poi con gli altri che hanno ricevuto solo il rimborso spese. Tutti però hanno deciso che questo era un lavoro interessante non solo per i contenuti ma anche per la metodologia realizzativa. Mi ricordo che Marco Foschi è venuto nel mio ufficio dicendo che il lavoro che stavo facendo era straordinario e che non lo faceva più nessuno.

Nonostante questo il film è riuscito a trovare una distribuzione e quindi a trovare una sua visibilità.

Il miracolo è che il film esca e che a distribuirlo sia Lo Scrittoio, un gruppo di miei amici che dopo averlo visto hanno deciso meritasse di uscire. Penso che il cinema italiano debba permettere a film come il mio, che usa la via della sperimentazione e che racconta punti di vista diversi sulla realtà, di venire fuori. Se L’assoluto presente servisse da stimolo in questa senso ne sarei felice.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

martedì, dicembre 19, 2017

POVERI MA RICCHISSIMI

Poveri ma ricchissimi
di Fausto Brizzi
con Christian De Sica, 
Italia, 2017
genere, commedia
durata, 


Il problema della pessima letteratura di cui gode certo cinema italiano è il fatto che, a scriverla, siano per forza di cose i cosiddetti critici di professione, i quali, poco disposti a confrontarsi con le manifestazioni del sentimento popolare finiscono quasi sempre per deprecarne gli esiti. Dunque, un conto, è ridere e allietarsi con lo humor intelligente e intellettuale di un regista come Woody Allen, che ha reso la risata una materia da circoli accademici, un altro è invece lasciarsi coinvolgere dalle freddure di coloro che ogni anno erigono monumenti ai tic, alle manie e ai difetti peggiori del popolo italiano. A onor del vero, bisogna dire che di questa differenza se ne accorgono per primi registi e produttori, i quali, un po' per andare incontro allo spirito del tempo, non più votato all'edonismo spensierato degli anni 80/90, un po' perché, con il passare degli anni, la minestra diventa sempre più riscaldata e, quindi, meno commerciale, fatto sta che con qualche eccezione anche gli artefici dei famigerati cinepanettoni si sono dati da fare, diversificando il prodotto a colpi di restyling e frammentandone sempre di più l'offerta.

Il risultato di questa piccola rivoluzione si può valutare prendendo in considerazione il nuovo film di Fausto Brizzi, realizzato dallo stesso prima che le note disavventure gli togliessero la sacrosanta potestà del suo lavoro. Sequel del lungometraggio uscito lo scorso Natale, "Poveri ma ricchissimi" denuncia fin dal titolo una delle caratteristiche principali di questo tipo di prodotto che è appunto quello di una serialità a qualunque costo. Il che - vista la qualità delle serie tv - non sarebbe un male, se non fosse che la riproposizione di un contesto già conosciuto - quello della famiglia Tucci e del suo complicato rapporto con la ricchezza - non nasce dalla volontà di approfondire temi e personaggi ma, al contrario, di replicare il copione precedente con minime varianti e all'insegna della massima riconoscibilità.



Come tutto, in "Poveri ma ricchissimi", confluisca nel calderone delle cose trite e ritrite ce lo dice innanzitutto la trama. Brizzi infatti, con espediente tanto esile quanto funzionale alla maschera dei personaggi si inventa che la famiglia Tucci, capitana dal burinissimo Danilo (Christian De Sica platinato alla maniera di Donald Trump) sia chiamata a prendere in mano le sorti di Torresecca, il paesino laziale che dopo essersi reso indipendente dalla madre patria per ragioni fiscali ha bisogno di trovare chi sia disposto ad amministrarlo.

Che ne succedano di tutti i colori, e che il gioco da ragazzi sia destinato a rivelarsi più difficile del previsto era pressoché scontato ma il punto non è questo. "Poveri ma ricchissimi" infatti ricicla l'idea che era stata alla base di commedie come "L'ora legale" e di "Omicidio all'italiana", facendo di un microcosmo anonimo e provinciale il laboratorio scelto per replicare - opportunamente enfatizzate - le dinamiche esistenti su scala nazionale. A essere presi di mira sono dunque la politica e i suoi adepti, messi in scena dalle maschere caricaturali che di loro ne danno i vari De Sica (presidente del consiglio) e Brignano (adetto alla sicurezza), impegnati a mimare l'opportunismo e soprattutto l'incapacità messe in mostra nella vita reale dai nostri politicanti. 



Detto che anche "Poveri ma ricchissimi" non manca di sottolineare la tendenza italica al tradimento sessuale, questa volta virato al femminile grazie alla voluttuosità della first lady Lucia Ocone, rientra nell'elenco dei vari déjà vu anche quella predisposizione al viaggio che era stato l'espediente narrativo più utilizzato dagli episodi e che qui ritorna in quella vacanza da sé per la quale i protagonisti abbandonano (temporaneamente) la loro attività di ristoratori per rispondere agli incarichi costituzionali a cui vengono chiamati. Improntato a un buonismo senza confine, che giustifica le malefatte dei governanti con la difficoltà dei compiti istituzionali e depurato delle volgarità che un tempo facevano la felicità di grandi e piccini e che ora sembrano passate di moda, "Poveri ma ricchissimi" è un ibrido indeciso tra comicità e commedia, tra la volontà di far ridere e la necessità di rifarsi una reputazione. A pagarne lo scotto - e qui parla il critico a cui piace Allen - è il motivo del suo essere, e cioè, la capacità di tradurre la simpatia in risata.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)