domenica, luglio 17, 2016

Hirokazu Kore-eda, l’eternità dei ricordi e le forme sentimentali

Hirokazu Kore-eda, l’eternità dei ricordi e le forme sentimentali
     
Presso Spazio Oberdan Milano dal 16 luglio all’11 agosto 2016 Fondazione Cineteca Italiana presenta una rassegna dedicata a uno degli autori più importanti del cinema giapponese contemporaneo: il regista, sceneggiatore, montatore e produttore Hirokazu Kore-Eda. L’omaggio prevede otto film, ben sei dei quali mai distribuiti in Italia. Nelle righe che seguirano una breve introduzione sul lavoro e le opere del regista giapponese.


Più che una nuova voce, il regista Hirokazu Kore-eda è una certezza del nuovo cinema giapponese. Classe 1962, nasce come documentarista per poi farsi subito notare alla Mostra del Cinema di Venezia del 1995 con l’opera prima “Maborosi” (Maborosi no Hikari) che vince un premio Osella come miglior fotografia. Con “After Life” (Wandafuru raifu, 1998) si aggiudica il premio alla sceneggiatura al Torino Film Festival di quell’anno e inizia ad affermarsi come un autore che suscita interesse e attenzione nel mondo, restando però relegato sempre nell’ambito festivaliero. Perché sia riconosciuto anche dal grande pubblico (oltre che da una nutrita e crescente folla di estimatori e cinefili in tutto il mondo), si deve aspettare il successo al Festival di Cannes del 2013 dove “Father and Son” (Soshite Chichi Nitaru) si aggiudica il Premio della Giuria e viene distribuito nelle sale cinematografiche italiane. Con il successivo “Little Sister” (Umimachi Diary, 2015), Kore-eda si conferma come autore che ha presa anche su un pubblico generalista.

L’occasione è quindi ghiotta per poter recuperare gran parte della sua filmografia con la rassegna a lui dedicata dalla Fondazione Cineteca Italiana che programma otto dei sui undici film (di cui sei mai distribuiti nelle sale cinematografiche italiane) presso il cinema Oberdan di Milano dal 16 luglio all’11 agosto 2016.


Oltre ai già citati, si potranno vedere: “Nobody Knows” (Dare mo Shiranai, 2004) tratto da una storia vera che racconta di quattro fratellini di padri diversi abbandonati dalla madre e costretti a sopravvivere con le loro forze; “Still Walking” (Aruitemo Aruitemo, 2008) dove viene messa in scena la vicenda privata di una famiglia e il difficile rapporto di un giovane con i propri genitori, dopo anni di assenza e ritornato a casa in occasione del funerale del fratello maggiore; “Air Doll” (Kuki Ningyo, 2009) storia fantastica su una bambola di gomma che diventa umana e s’innamora di un uomo; “I Wish” (Kiseki, 2011) opera tutta incentrata su un gruppo di bambini e la loro quotidianità. Non presenti nella rassegna il suo terzo film “Distance” (Distance, 2001) sul suicidio collettivo perpetrato da una setta religiosa; “Hana” (Hana Yori Monaho, 2006) un gindai-geki, film in costume, dove un samurai compie la sua vendetta contro gli assassini del fratello; e l’ultimo film appena presentato al Festival di Cannes 2016 e ancora da distribuire (Umi Yory mo Mada Fukaku).


Kore-eda ha un occhio sensibile alle dinamiche familiari, soprattutto ai rapporti filiali, e molte volte dal punto di vista dei bambini, o comunque al tema dell’infanzia, dei traumi della crescita. Il rapporto con la vita e la morte, la perdita di un padre, un fratello, una madre, un familiare, sono al centro del suo interesse. Un cinema più che filosofico, a tratti sociale e a tratti poetico, dove la sostanza dei contenuti affrontati si sostanzia con la forma cinematografica. Prendiamo ad esempio l’opera prima “Maborosi”, dove la giovane protagonista viene prima rappresentata, in un prologo, quando bambina non avrà la forza di bloccare la vecchia nonna che fugge da casa scomparendo per sempre; poi in una prima parte, giovane neo mamma e sposa, che vive di poco nella periferia di Osaka in una felicità brutalmente interrotta dal suicidio inspiegabile del marito; e, infine, una seconda parte, la più lunga, mentre si trasferisce in un villaggio costiero con il figlio ormai cresciuto, per vivere con il secondo marito e la sua giovane figlia.  


Se da un lato Kore-eda utilizza un occhio quasi documentaristico e il tema della morte è presente (debitore alla sua produzione documentaria che tratta di malati di AIDS, di suicidi, di morti), dall’altro, la messa in scena, è profondamente poetica per la volontaria presenza dell’autore dietro la macchina da presa che lavora sulla sottrazione del profilmico e sull’essenzialità della messa in quadro: sia negli interni (pensiamo al monolocale a Osaka con il primo marito o alle stanze della casa del secondo marito direttamente sul mare) sia negli esterni (soprattutto nella seconda parte, con i bellissimi campi lunghi e lunghissimi della costa e del mare, sia in inverno che in estate) dove, in particolare, la protagonista appare sempre come l’unico elemento umano all’interno di una natura che si trasforma in un genius loci. La luce del resto, così come il paesaggio, formano un contraltare ai momenti emotivi differenti: la palette di grigi e neri invernali e di verdi e azzurri dell’estate rappresentano anche le punte di tristezza e di ritrovata felicità della protagonista, inerme di fronte al mistero del suicidio del primo marito, di cui non si riesce a dare pace perché non trova nessuna spiegazione e la riempiono di sensi di colpa, così come la scomparsa dell’amata nonna da quando era bambina.


Lo stile documentaristico, con la predilezione di messa scena in interni e la cinepresa all’altezza dello sguardo dei bambini, lo abbiamo ancora di più in “Nobody Knows”. I quattro ragazzini, due maschi e due femmine, abbandonati da una madre infantile ed egocentrica, in un appartamento in periferia di una grande città, dà la possibilità a Kore-eda d’indagare le silenziose emozioni in un’implosione di stile che viene rappresentata dalla messa in scena del piccolo monolocale, dove i quattro (soprav)vivono sotto la guida del fratello maggiore appena dodicenne. Una vita ai margini e marginale, di un’infanzia non solo perduta, ma invisibile agli adulti, che non si chiedono di ragazzini soli in mezzo alla strada, senza nessun sostegno di un adulto, obbligati a una reclusione coatta, non solo fisica, ma anche emotiva. Kore-eda riesce con levità a trasmettere la pesantezza della vita che schiaccia i bambini e che porta alla tragedia finale per una di esse (la sorellina più piccola) in una sequenza in montaggio alternato, dove proprio il fratello maggiore, per un momento, riuscirà a sollevarsi dal sottosuolo della sua esistenza. E la metafora della valigia sotterrata ai margini dell’aeroporto, con gli aerei che partono verso ignote destinazioni, non è niente altro che l’anelito alla fuga verso un’esistenza migliore, dove però l’unico possibile viaggio è quello verso l’Aldilà, una morte che diviene un passaggio verso un’altra possibilità.
Del resto, con “After Life”, questo mondo dopo la vita, Kore-eda lo mette in scena con uno stile da reportage documentaristico per poi mutarlo drasticamente verso il mostrare la creazione del “fare” cinema. Queste anime che arrivano in una “stazione” di passaggio, dove dei ligi e giovani funzionari (anch’essi morti) le accompagnano all’eternità, dandogli una settimana di tempo per scegliere un ricordo (uno solo) e portarselo con sé. Diventa quindi interessante vedere la difficoltà di sintetizzare un’intera vita (breve o lunga essa sia) in un unico momento significativo che la rappresenti tutta. Ma la svolta originale dell’opera di Kore-eda è proprio il lavoro di queste persone che ricostruiscono il ricordo facendo del “cinema”: devono creare le scene, gli effetti speciali, scegliere i luoghi adatti, le luci, per poi girare, come una vera e propria troupe cinematografica, il ricordo scelto dal morto. Nell’ultimo giorno i ricordi (dei cortometraggi) sono proiettati in una sala cinematografica e alla fine i morti scompaiono letteralmente. Il gioco è esplicitato fin dall’inizio e la bellezza di “After Life” è proprio nel racconto e nel suo sviluppo diegetico. Il cinema diventa una grande metafora della vita: una metonimia di un’intera esistenza; il cinema come contenitore di ricordi da trasmettere all’eternità per poi scomparire definitivamente con essa, dopo la fine della proiezione e l’accendersi delle luci in sala. Vedere un film è un po’ come vivere ancora una volta e morire di nuovo.

Con “Father and Son”, il regista giapponese compie un salto, una svolta di grande maturità, abbandonando i temi del lutto, della morte, della tragedia, ma concentrando il suo sguardo sui rapporti filiali. Il caso di due bambini scambiati in culla per un errore dell’ospedale, porta al confronto di due famiglie all’opposto, sia per condizioni sociali sia per rapporto con la vita: la prima è ricca, con un uomo dedito al lavoro in una grande azienda, abitano in un ordinato e moderno appartamento in un lussuoso palazzo in città, con il rapporto con il figlio tutto sorretto da una rigida formalità ed educazione, sempre spinto a dare il massimo in tutti i campi dello studio; la seconda è una caotica famiglia che vive in provincia e gestisce un piccolo negozio, con un padre chiassoso che trasforma il rapporto con i figli in un continuo gioco e divertimento lasciato alla massima libertà espressiva dei propri sentimenti. Già questo continuo confronto netto e contrastante tra le due famiglie che si devono conoscere e decidere lo scambio dei figli naturali dà la cifra della capacità d Kore-eda di creare del cinema dove l’uomo e la sua umanità (con tutte le sue debolezze e incertezze) sono messe al centro della visione. Il confronto qui è tra legami di sangue o legami emotivi e la risposta che dà l’autore è incontrovertibile nella bellissima sequenza finale: l’uomo ricco lascia il proprio figlio alla famiglia naturale; gli dice che si deve fare coraggio e che deve “andare in missione, una missione lunga e pericolosa”; quando alla fine si rende conto che lo scambio dei figli non funziona perché il legame emotivo delle famiglie “adottive” obtorto collo è troppo forte, decidono insieme all’altro padre di lasciare tutto com’era. In un lunga carrellata in un campo-controcampo continuo tra il padre e il figlio che finisce alla fine di un viale alberato, il padre dice al figlio prima di abbracciarlo: “La missione è finita, si torna a casa”, in un momento di altissima emozione rafforzata dall’eleganza formale della messa in quadro di tutta la sequenza.


Questo svolta verso un cinema maturo e più consapevole dei propri mezzi e dell’originalità del suo sguardo, Kore-eda lo conferma anche con “Little Sister”. La ricchezza della sceneggiatura va di pari passo con la messa in scena sempre più complessa e a una messa in quadro che si riempie e lavora adesso sull’accumulo. La storia di tre sorelle adulte che vivono nella casa materna, tre caratteri diversi e complementari, tre età differenti e approcci all’amore e alla vita contrastanti, diverte e commuove allo stesso tempo. E l’occasione di andare al funerale del padre che le aveva abbandonate per risposarsi con un’altra donna, le porta a scoprire una sorellastra più piccola, che rimasta orfana, la accolgono nella loro singolare famiglia tutta al femminile. “Little Sister” diventa un’altra espressione per indagare una diversa forma di famiglia, fatta di solidarietà, di gioiose differenze e contrasti, ma soprattutto di affetti e sostegno reciproco, senza mai scivolare in facili sentimentalismi ma andando invece nella profondità del sentimento come le profondità di campo degli interni di Kore-eda. E la morte in questo caso è presente a latere (la sorella più grande lavora come infermiera in un reparto di malati terminali e assisterà fino alla morte la proprietaria di un piccolo ristorante): inizia con il funerale del padre e finisce con il funerale di una loro amica, in mezzo c’è il pieno di vita e vitalità di queste giovani donne e ragazze piene di speranze e aspettative.
In attesa, e nella speranza, di vedere presto l’ultima opera del regista giapponese, non perdete l’occasione di passare un’estate diversa, scoprendo del grande cinema con film che colpiscono nell’intimo qualsiasi spettatore.

Antonio Pettierre

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