giovedì, giugno 30, 2016

NOVITA' HOMEVIDEO: ROOM

UNIVERSAL PICTURES HOME ENTERTAINMENT ITALIA PRESENTA:
Room
di Lenny Abrahamson
Brie Larson, Jacob Tremblay, Sean Bridgers

UK, Canada, 2015
genere, drammatico
durata, 113'

INFORMAZIONI TECNICHE:
Dischi: 1
Video:  2.40:1; Blu Ray 1080p High-Definition Letterbox 2.40:1
Durata:   113 minuti ca.
Contenuti Speciali: Il making of del film, Ricreare la Stanza 3x3


Se del cinema di Lenny Abrahamson si volesse trovare il motivo conduttore, bisognerebbe cercarlo nelle risonanze emotive che le sue storie mettono in circolo. A partire da "Garage", il lungometraggio che lo rivelò al pubblico italiano,  tutti i suoi film sono infatti la somma dei sentimenti che i personaggi mettono in campo. Succede così anche con "Room", appena passato all'edizione numero dieci festival di Roma, come testimoniano al termine della proiezione i molti occhi ludici che accompagnano il deflusso degli spettatori. D'altronde non potrebbe essere altrimenti quando a pungolare l turbamento ci si mettono la sensibilità di un regista che nel recente passato è stato capace di esaltare  il divo Fassbender facendolo recitate con il volto coperto da una maschera di cartone (succedeva in "Frank", girato nel 2014) e soprattutto l'empatia di una sodalizio attoriale, in grado di ricreare senza alcuna forzatura e in due momenti successivi, dapprima le condizioni d'isolamento e di costante privazione conseguenti al sequestro patito da una madre e dal suo figlioletto, costretti a vivere per più di cinque anni nello spazio angusto  della stanza in cui il loro rapitore li ha segregati. E, dopo la rocambolesca fuga che gli ha permesso di sottrarsi alle grinfie del proprio aguzzino, di rappresentare le difficoltà del processo psicologico che un po' alla volta permetterà a  Jack e sua madre una parvenza di felicità.  A dispetto di una simile vicenda, a suscitare il pathos dello spettatore infatti non sono tanto le caratteristiche di una storia che dal punto di vista visivo si allinea alla tendenza di certo cinema contemporaneo di ricreare quell'onnipotenza dello sguardo ereditata dai reality , che anche qui mette lo spettatore nella posizione di dominare le vite dei personaggi, sottomessi per forza di cose all'imperscrutabile curiosità di un osservatore esterno.
Perché in "Room" a fare la differenza è la determinazione con cui la mdp si mantiene in equilibrio tra la necessità di raccontare una storia  e la volontà di diventare un  tutt'uno con gli stessi personaggi, aiutandoli nel tentativo di portare in superficie il  rimosso di un'esperienza difficile da dimenticare.


Così facendo a riempire lo schermo più che il succedersi degli avvenimenti - di fatto condensati nel prima e dopo che separa la prigionia dalla ritrovata libertà - sono le liturgie dei gesti minuti che accompagnano l'immutabilita' di quelle giornate, il linguaggio del corpo che registra gli improvvisi cambi d'umore o un lembo di luce che si infrange sulle parenti della casa prigione. Alludendo alla reclusione fisica e soprattutto mentale delle due protagoniste, emotivamente bloccate all'interno di quel mondo fittizio che in assenza di quello reale è servito a farle sopravvivere, "Room" trova concretezza nella presenza forte ed equilibrata  di due interpreti che  rispondono ai nomi  di Jacob Tremblant, davvero commovente nella parte del piccolo Jack  e della madre Brie Larson, finalmente impegnata in un ruolo da protagonista  che le mancava  dall'edizione 2013 del festival di Locarno, dove l'avevamo ammirata nella parte di un'assistente per ragazzi problematici nell'ottimo "Short Term 12". 



Due performance che definire da Oscar parrebbe esagerato anche in virtù di uno sforzo  produttivo che punta più sugli effetti indotti dai passaparola che a quelli suscitati  da investimenti promozionali segnati dalle limitazioni tipiche di un film indipendente e low budget; se non fosse che "Room" per il crescendo dell'evoluzione drammaturgica, destinata a trovare compimento in un epilogo  conciliante e consolatorio e l'universalità del sentire, che  tutto sommato ribadisce i valori tipici dell'istituzione famigliare sembrerebbe perfetto per incontrare la volontà dell'Academy di premiare un cinema si coraggioso ma comunque condivisibile a qualsiasi latitudine. Chissà che il miracolo non possa accadere, magari preceduto dal premio del pubblico assegnatogli dal Festival di Roma. Insieme al film di Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot) quello di Abrahamson è in pool position per la vittoria finale.
(pubblicata su ondacinema.it) 

mercoledì, giugno 29, 2016

I MIEI GIORNI PIU' BELLI


I miei giorni più belli
di Arnaud Desplechin
con Mathieu Amalric, Quentin Dolmaire, Lou Roy-Lecollinet
Francia, 2015
genere, drammatico
durata,120'



La forza di un festival si vede soprattutto dalla qualità delle sezioni collaterali, quelle in cui gli organizzatori si lasciano andare a scelte meno istituzionali e più libere da logiche geopolitiche. Ecco allora che il giudizio buono ma non esaltante espresso dagli addetti ai lavori a proposito dell'edizione del festival di Cannes appena conclusa e basato, quasi esclusivamente sulla valutazione dei film del concorso ufficiale, è destinato a cambiare, qualora si dovesse tenere conto di opere e autori importanti, retrocessi con criterio imperscrutabile in posizioni di rincalzo. Un  destino toccato in sorte ad affezionati frequentatori della kermesse francese come Apichapong Weerasethakul e Brillante Mendoza, un tempo osannati e imprescindibili e ora nascosti all'attenzione del grande pubblico. E condivisa dal beniamino della critica locale Arnaud Desplechin, regista francese, per la prima volta escluso dalla gara ufficiale e inserito nella Quinzane des Realisateurs con "Trois souvenirs de ma jeunesse", il film che ha il merito, tra le altre cose, di riportare in vita il personaggio di Paul Dedalus, già protagonista di "Comment Je Me Suis Disputé...(Ma Vie Sexuelle)", terzo lungometraggio del regista francese girato nel 1996.


Avendo il passo di un romanzo esistenziale, la storia del film è divisa in tre capitoli più un epilogo che, attraverso i ricordi giovanili del protagonista, nel frattempo rientrato in Francia dopo un lungo lavoro sul campo in qualità di antropologo, ricostruisce i momenti salienti di una biografia caratterizzata dagli studi universitari e dall'impegno politico - con il viaggio in Russia che diventa il modo per affermare attivamente la propria militanza - ma soprattutto dall'amore per la bella Esther, destinato a segnare nel bene e nel male l'esistenza dell'uomo che verrà.



Riassunto in questo modo "Trois souvenirs de ma jeunesse" farebbe pensare a un Desplechin più raccolto e dalle ambizioni meno esplicite, tenuto conto che, con la sola eccezione del "feticcio" Mathieu Amalric, scelto per interpretare la versione adulta di Paul Dedalus, la presenza di un cast di volti esordienti e sconosciuti, costituisce un'eccezione nella filmografia di un autore abituato a lavorare con il gotha attoriale del suo paese; e perché, fin dal principio, la componente autobiografia del regista, già trapelata con diversa valenza nei lavori precedenti, in questo caso diventa il motivo principale della storia, raccontata a ritroso attraverso le parole del narratore onnisciente che si inserisce sulle immagini del film per commentare le "avventure" del "giovane Werther" francese.




Al contrario, le avventure sentimentali del protagonista e del gruppo d'adolescenti nella Robauix degli anni ottanta - dove Dedalus e Despleshin sono nati e da cui si sono fuggiti-  diventano lo strumento per conoscere e circoscrivere le fonti di un'ispirazione che, nel caso del regista, procede in perfetta mimesi con una finzione filmica, utilizzata sia come espediente di intrattenimento - modellato su una struttura narrativa da racconto di formazione - sia, nei suoi passaggi più letterari, - imbevuti di una prosa romantica e poetica -, come legittimazione di un arte che è innanzitutto il mezzo per mettere in scena la protesta nei confronti delle promesse mancate: imputate innanzitutto alla famiglia (tradita dalla morte della madre e dominata da un padre lontano e violento) incapace di fare da riparo ai rovesci della vita e poi all'amore, con la figura dell'amata Esther, modello di femminilità che non sarebbe dispiaciuta al cuore di regista come Francois Truffaut, a rappresentare quella "grande bellezza" da cui discendendo la maggior parte dei rimpianti.



Piuttosto a confondere il giudizio su "Trois souvenirs de ma jeunesse" potrebbero essere le caratteristiche di una forma che appare più compatta e meno disposta a dare spazio alla nevrosi, pur presente nell'inquietudine di Esther e Paul ma "contenuta" all'interno di un dispositivo che replica in modo evidente gli stilemi di quella Nouvelle Vague, della quale il cinema di Desplechin è certamente debitore. E ancora la mancata distribuzione italiana delle prime opere del regista, che impedisce di riconoscere, tra le pieghe degli avvenimenti raccontati, le rimembranze di situazioni che ricordano opere di culto come "La Sentinelle" e appunto "Comment Je Me Suis Desputé...(Ma Vie Sexuelle)", richiamati per esempio nell'atmosfera cospirativa della scena in cui Dedalus, al suo ritorno in patria, viene fermato e interrogato dalla polizia che lo sospetta di essere una spia del governo Russo, e, più in generale, dalla dimensione di spaesamento, che qui come allora sembra in parte discendere dal tramonto delle utopie politiche, qui come allora, rappresentate dagli inserti che documentano la caduta del muro di Berlino, spartiacque di una generazione a cui il regista appartiene e che si è assunta il compito di testimoniare la crisi che ne è seguita. Meritevole di ben altra attenzione rispetto a quella ricevuta dal festival, "Trois souvenirs de ma jeunesse" è, per chi scrive, uno dei film migliori del regista francese; a testimonianza di un talento che è ancora lungi dall'aver esaurito le sue risorse.

(pubblicata su ondacinema.it)

martedì, giugno 28, 2016

SEGRETI DI FAMIGLIA

Segreti di famiglia
di, Joachim Trier
con. Isabelle Huppert, Jesse Eisenberg, Gabriel Byrne
Norvegia, Francia, Danimarca, Usa 2015 -
genere, drammatico
durata, 105'



Fotografia e morte, un legame stretto a doppio nodo nella filmografia contemporanea, continuamente in bilico tra la necessità di raccontare attraverso le istantanee e la paura di varcare i limiti del narrabile. Tale connubio meritoriamente ha fornito materiale vario per generi differenti, giungendo sino ad una curiosa digressione orrori fica sul tema: Shutter, pellicola thailandese dei primi anni duemila, eviscera l’eccesso di morbosità contenuto in alcuni scatti giovanili di un gruppo di post-adolescenti, perseguitati nel presente dallo spirito vendicativo della ragazza vessata e ritratta nelle foto. La persecuzione si insinua nella mente, distrugge psicologicamente ogni base morale, vanifica la propria intenzionalità di arresto ad un passo dall’eccesso. La storia di Isabelle Reed, reporter spesso in zone di guerra e tenace sostenitrice di un modo di fare fotografia lontano dal comune sentire, sembra rincorrere tali psicologismi, con la donna costantemente intenzionata ad indugiare nel contatto più stretto possibile con la morte , cogliendone sfumature privilegiate che altri lascerebbero cadere nel dimenticatoio cerebrale, evitandone l’impressione su pellicola. Un’istantanea fotografica è in grado di restituire il dolore di un padre per la perdita del proprio figlio, sul campo nemico? Gli attestati di stima ricevuti dalla reporter sembrano propendere per una risposta affermativa, considerati anche le mostre postume organizzate dai suoi ammiratori e gli articoli di giornale che vengono redatti sulla sua tragica fine. Il suo lavorare fianco a fianco con la dolce signora non può non avere ripercussioni e ne sono consci i vari membri della famiglia costretti, nell’imminenza di una ripubblicazione a mezzo stampa di dettagli sulla sua fine, a rivelare al figlio più piccolo la verità sulla dipartita della madre. 


Joachim Trier sfrutta la tensione altissima che viene a crearsi nel nucleo famigliare al momento dell’annuncio, fatto in confidenza dall’articolista al marito della donna, dell’incombenza giornalistica che porterà nuovamente alla luce l’angosciosa storia della reporter, pronta a destabilizzare i precari equilibri famigliari da poco stabilitisi. Il rapporto tra il padre e lo schivo e introverso Conrad sembra difficile da rinsaldare; il ragazzo affronta la perdita materna in maniera inedita, catalizzando involontariamente su di se l’attenzione del padre, impedendogli tuttavia di sondare a sufficienza la propria psiche per trovare una fenditura tramite cui penetrare e ricucire lo strappo avvenuto dopo la scomparsa della figura matriarcale. Il ritorno del figlio maggiore, ruolo sentito da un Jesse Eisenberg mai così incisivo, in uno dei momenti di maggior felicità dello stesso – il periodo seguente la nascita del primogenito, sarà il giusto metodo di fuga dalla drammatica criticità famigliare in cui versano i Reed. Trier si scosta narrativamente viaggiando su binari differenti ma paralleli tra loro, mostrando le storie dei tre personaggi principali dai loro punti di vista e lasciandoli incontrare senza particolari sorprese o sconvolgimenti, rattoppando una trama familiare forata in più punti con pezze troppo vistose, pacchiane nella loro banalità, glissando sulla loro natura e cercando di nasconderle dietro un’abilità registica non indifferente, una fine scaltrezza che impedisce allo spettatore di soffermarsi troppo a lungo su di esse. Louder than bombs è un titolo ricercato nel suo raffinato stile, forse leggermente stemperato in fase di scrittura, un avviso sul grande schermo di come le immagini possano essere più chiassose ed efficaci di tanti ordigni.
Alessandro Sisti

lunedì, giugno 27, 2016

PASSO FALSO

Passo falso
di Yannick Saillet 
con Pascal Elbè, Laurent Lucas, Arnaud Henriette
Francia, 2016 
genere, thriller 
durata: 78'



Che il genere di appartenenza di questa vicenda ad altissima tensione sia la survivalist-story è chiaro e, da cinefilo che a diciassette anni ha venduto la macchina dei genitori per finanziare il suo primo cortometraggio, Yannick Saillet bene, al punto che, prima di mettersi all’opera, scartando l’ossessiva ricerca dell’inquadratura perfetta tipica di un regista di videoclip, aveva già stabilito di dividere il suo breve racconto in venti sequenze di pari durata, profondamente diverse l’una dall’altra: alcune più mosse, altre più pacate, nell'insieme regolate da una calcolata alternanza fra dialoghi e silenzi, primi piani e campi lunghi, rinnovata speranza e nera disperazione.
Per giudicare "Passo falso" bisogna partire dalla padronanza del linguaggio cinematografico di un filmaker che sul set è sempre a proprio agio e dalla mancanza, forse, di quella gioiosa spontaneità che rende un unicum ogni opera prima, nei pregi e nei difetti. E tuttavia, il desiderio di Saillet di distinguersi dai vari "Buried", "127 ore" o "In linea con l’assassino", se da un lato indebolisce il potenziale drammatico del film, che non sempre suscita la riflessione sugli orrori di un conflitto inutile, dall’altro priva, con una scelta felice, il disgraziato protagonista di quell’eroismo e di quella celebrazione dell'ingegno che hanno fatto dei personaggi principali delle pellicole citata un pugno di tough guys.



Interpretato con misura da Pascal Elbé, il soldato francese Denis ha poco di valoroso. E' un uomo che ha tradito un compagno d’armi, che non sa come disinnescare l’ordigno e che decide quasi immediatamente di affidarsi al volere del destino, confidando nell’intervento di un deus ex machina che, se arrivasse, riporterebbe "Passo falso" nel dominio dell’entertainment, privandolo di quel vago sapore di b-movie che contiene, se non altro per l’ingegnosità con cui viene sfruttato il budget ridotto.
Nella vita di Denis si alternano fugaci apparizioni: un cecchino, un bambino e un gruppo di donne coperte da burka celesti che, come Madonne rinascimentali, rendono per un istante liquido, suggestivo e femminile il paesaggio, salvo poi ritrasformare la poesia in cronaca brutale nel momento in cui portano silenziosamente via la droga. C’è grande bellezza in questi attimi e nella messa in scena, che però si incanta un po’ troppo nella contemplazione di sé e resta come sospesa, incapace di prendere una precisa strada formale, collocandosi a metà fra un esercizio di stile e la ricerca di umanità.


Figlio di un militare, Yannick Saillet si è posto certamente domande sulla guerra e, lasciando per un attimo la scena a un comandante meschino che vorrebbe appropriarsi dell’eroina, non ha voluto ignorare la stupidità e la superficialità dell’uomo occidentale, che furbescamente traffica per ottenere una medaglia al valore, che al coraggio ha sostituito l’apatia e la noia e che come nome in codice, forse non a caso, sceglie Akela, il lupo de "Il libro della Giungla" e, negli Scout, il capo dei Lupetti e delle Coccinelle, senza rendersi conto che l’Afghanistan non è un campo da gioco ma di battaglia, e che le armi, non di plastica ma di ferro, sparano e uccidono.
Riccardo Supino

domenica, giugno 26, 2016

LA FOTO DELLA SETTIMANA



Paris, Texas di Wim Wenders - Germania Ovest, Francia, Uk 1984

NOVITA' HOMEVIDEO: THE DANISH GIRL


UNIVERSAL PICTURES HOME ENTERTAINMENT ITALIA PRESENTA:

The Danish Girl
Diretto da: Tom Hooper
Cast: Eddie Redmayne, Alicia Vikander, Ben Whishaw, Amber Heard, and Matthias Schoenaerts
Durata: 115 minuti ca.

INFORMAZIONI TECNICHE:
Dischi: 1
Video: Formato Anamorfico 1.85:1; Blu Ray 1080p High-Definition Widescreen 1.85:1
Contenuti Speciali: Il Making of The Danish Girl – Eddie Redmayne, Alicia Vikander, Tom Hooper e altri protagonisti del team di produzione condividono alcuni dei processi creativi che intensificano la bellezza del film.



RECENSIONE:
 
Pittore paesaggista della Danimarca dei primi anni del '900, Einar Wegener ha vissuto due vite, la prima con una moglie a Copenhagen, e la seconda a Parigi come Lili Elbe. Infine ha tentato la prima operazione chirurgica della storia finalizzata al cambio di sesso. Attratto dall'abbigliamento femminile dopo un gioco erotico con la moglie e sempre meno capace di smettere di vestirsi e atteggiarsi da donna, nel corso degli anni Einar vuole lasciare il posto a Lili, che percepisce come un'entità separata. Aiutato e supportato da una moglie da cui è sempre meno attratto, Einar fugge dalla medicina del proprio tempo che lo vuole internare o dichiarare schizofrenico e si rifugia nella chirurgia sperimentale, conscio che quella che intende provare è un'operazione mai tentata prima e che, dunque, comporta grossi rischi.


Con "The Danish Girl" l’inglese Tom Hooper prosegue un’indagine cominciata con "Il discorso del Re": l’esplorazione di un corpo bloccato. Nel film con Colin Firth il problema riguardava la parola, martoriata e svilita da continue esitazioni e interruzioni. Qui l’impasse compromette invece il corpo intero, che diventa recipiente di un’anima che lo rifiuta. Non si combatte per gli ideali della gloriosa Comune di Parigi, ma per l’affermazione di un’identità sessuale. Jean Valjeant e Javert di "Les Misérables" hanno abbandonato la scena, per far posto a Lili Elbe, la prima persona nella storia a essere identificata come transessuale e ad aver tentato un intervento chirurgico. La sua vicenda è conosciuta ma non abbastanza e nell’affrontarla e raccontarla, adattando l’omonimo romanzo di David Ebershoff, Hooper si prende alcune licenze e addirittura la reinterpreta, adattandola al suo cinema garbato.

Senza la pretesa di edulcorare una vicenda che non può non sembrare amara o indigesta a chi ancora guarda con sospetto ai transgender, il regista non intraprende nessuna crociata contro il pregiudizio, né si mette sulla facile via della trasgressione creando, per esempio, un personaggio principale esibizionista ed eccentrico oppure eroico. Tom Hooper sceglie consapevolmente di non osare, fatto, questo, certamente encomiabile, anche se,talvolta, l'impressione è che la sua visione resti in superficie. Attento a cambiare le tonalità del film a seconda dell’ambientazione scelta, colori freddi e linee geometriche e maschili nella parte che si volge a Copenhagen e caldi nel segmento parigino, il regista non sempre tiene vivo il fuoco della passione, abbandonando a se stessa la sua sensibile donna incastrata nel corpo di un uomo. Più di Lili, lascia il segno la sua compagna di vita: la pittrice Gerda Wegener, artista volitiva, forte, emancipata. E’ lei il personaggio più interessante del film e quello che veramente evolve e che lascia perciò un’indelebile impronta. Allo stesso modo, è Alicia Vikander più di Redmayne a meritare incondizionati complimenti, perché questa attrice minuta che ha sorpreso tutti in "Ex Machina", diventa davvero un gigante quando si avvicina alla disgraziata consorte dello sconsolato Einar. Nei suoi occhi il ghiaccio del film si scioglie, vinto dal calore del sentimento che, nonostante tutto, Hooper riesce a rappresentare benissimo: l’amore, conditio sine qua non perché l’individuo compia il grande passo, trovando, prima o poi, la propria personalità più intima.



Detto questo, ci sentiamo in dovere di precisare che, secondo noi, "The Danish Girl" non è il frutto di una mancanza di coraggio, basti pensare alla scena di nudo, in cui il regista dimostra di saper essere diretto ed esplicito: semplicemente, il suo film preferisce indugiare sulle sfumature e sulla contemplazione di una femminilità che coincide con la grazia e che si esprime nel sorriso, nei movimenti impercettibili del capo, in due mani lunghe e affusolate che si poggiano su un viso e lo incorniciano. Questi piccoli gesti sono affidati al prodigioso Eddie Redmayne, così pieno di energia ne "La teoria del tutto" e qui alle prese con una creatura smarrita e capricciosa, e poi sempre più determinata. La sua bravura è indubbia, come la sua aderenza alle motivazioni interiori di Lili, ma la sua performance tradisce una certa affettazione, a cui contribuisce anche una fotografia certamente curata, ma inutilmente patinata.
 Riccardo Supino




venerdì, giugno 24, 2016

GUEROS

Gueros
di Alfonso Ruizpalacios
con Tenoch Huerta, Sebastián Aguirre, Ilse Salas, Leonardo Ortizgris. 
Messico, 2014
genere, commedia
durata, 111'


Una delle caratteristiche più tipiche dei film appartenenti alla Nouvelle Vague era quella di presentare storie che nascevano dal pedinamento di personaggi ripresi durante i loro spostamenti per le strade della città. Favorite dall’apparente casualità di quelle camminate, le immagini proiettate sullo schermo non sembravano il risultato di un programma prestabilito ma il frutto di azioni dettate dal momento. In questo modo registi come Truffaut e Godard riuscivano a dare un senso  compiuto  alle loro narrazioni senza venire meno all'anarchia dello spartito. E’ un po’ a tutto questo che si rifà “Gueros” di Alfonso Ruizpalacios quando decide di raccontare la giornata di un gruppo di amici alla ricerca di una vecchia gloria della musica messicana fuggita dall’ospedale e datasi alla macchia. Nell’intento di tributargli la loro stima tre ragazzi e una ragazza si infilano in un complicato periplo metropolitano che ad ogni tappa ridefinisce le coordinate del loro viaggio.


Vincitore del premio per la migliore opera prima al festival di Berlino 2014 “Gueros”, a dispetto della popolarità di un copione che rientra a pieno titolo in quel romanzo di formazione d’ambientazione studentesca così in voga nel cinema giovanilista, prende fin da subito le distanze dalle produzioni mainstream palesando un’autorialità che non deriva solamente dall'emulazione di insigni colleghi (in particolare il Godard di “A Band A part” e il primo Jarmush) ma che è comprensiva di alcune anomalie formali come quella di girare in bianco e nero e di utilizzare un formato che alla maniera  de “Il figlio di Saul” riduce di molto l’ampiezza del campo visivo. Se poi ci mettiamo che la vicenda si svolge nel 1999 durante la rivolta studentesca che mise in crisi la coscienza civica del paese allora è possibile capire quanto sia importante per il regista promuovere un'opera scanzonata e intelligente. La ricetta di Ruizpalacios funziona però solo in parte perchè talvolta la spontaneità dei protagonisti rimane imbrigliata dalla necessità  del film di tenere fede ai modelli di riferimento di cui si diceva in apertura.  

CALCOLO INFINITESIMALE

Calcolo infinitesimale
di Enzo Papetti, Roberto Minini-Meròt Con Stefania Rocca, Luca Lionello, Manuela Tadini 
Italia, 2016 
genere, drammatico 
durata: 90'


Roberto Pistis vive a Stromboli, isolato dal mondo. Dopo il grande successo e la fama ottenuti in gioventù con il suo primo romanzo, che continua a essere letto e acclamato, di lui, da tempo, non se ne sa più nulla. Valeria Hostis è una giornalista che scrive per le maggiori testate internazionali, decisa a mettersi sulle sue tracce. Lo scova e riesce a prendere appuntamento per quella che, a suo parere, sarà l’intervista dell’anno. I due familiarizzano, si studiano a vicenda e fra loro, curiosi uno dell'altra, inizia un gioco sottile di seduzione.
A partire dalla grafica da computer old fashion che lo apre, sino alla battuta con effetto boomerang che lo chiude, "Calcolo infinitesimale" deve la sua riuscita unicamente a due attori che si sono prestati con la loro professionalità a dare corpo ed espressioni a una sceneggiatura che avrebbe creato a più d’uno dei loro colleghi qualche imbarazzo. Lionello e Rocca, infatti, fanno di tutto per dare leggerezza a battute e situazioni tipiche dei fotoromanzi del passato, mentre si comprende che nelle intenzioni di chi ha scritto e diretto ci si vorrebbe situare in prossimità di "Misterioso omicidio a Manhattan".
Se questa lettura è giusta ed era effettivamente questo l'obbiettivo, non è stato raggiunto: non contribuiscono a risollevare le sorti dell’impresa né l’essere marino che fluttua nel cielo, né il bianco e nero che mette in scena il romanzo mai pubblicato, né, tanto meno, i disegni che precedono la fine.

L'ambizione del regista, che si legge nel pressbook, di misurarsi con film internazionali, forse, è un po' eccessiva.
Riccardo Supino

giovedì, giugno 23, 2016

KIKI & I SEGRETI DEL SESSO

Kiki & I Segreti del Sesso
di, Paco Leòn
con, Natalia de Molina, Alex Garcia, Paco Leòn
Spagna, 2016
genere, commedia
durata, 102'


Tematiche scabrose come le perversioni sessuali, termine che il regista sembra voler a tutti i costi abbattere nella sua negativizzazione dell’atto rappresentato, possono essere affrontate con pigli variegati; ne possono essere mostrati gli aspetti sconfinanti nella sfera affettiva, così come le derive estreme e gli effetti possibili sugli individui che li mettono in pratica. Il giovane León sembra aver compreso la lezione impartita da Von Trier e la scosta idealmente, prende le distanze sia dal modo di rappresentazione del cineasta danese che dall’originale pellicola da cui Kiki deriva, quel The Little Death così cupo in alcuni punti e drammaticamente lontano dalla solarità in cui sono immersi i nostri personaggi. La Spagna offre un terreno ottimale per riconvertire il materiale del film australiano, fertile nella sua policromia e pertinente alla ricerca stilistica messa in campo dal regista: l’intreccio delle cinque storie è cullato in un ambientazione anticata, un ideale iperuranio sessuale in cui il pastello predomina e il contrasto si fa sempre meno marcato, attenuando così ogni possibile bagliore cromatico. Cinque coppie atipiche nella loro moderna tipicità si alternano sullo schermo mostrandosi senza veli, narrandoci le loro peripezie nel mondo delle odierne forme d’amore e concludendo un percorso ideale che condurrà lo spettatore alla loro conoscenza e comprensione. León stesso si inserisce nella pellicola, essendo performer prima che artefice, quasi a voler sottolineare il proprio trasporto nella storia e l’importanza rivestita da questa nello sdoganare tali pratiche a livello del pubblico. Irridere e al contempo informare, debellare queste originali forme d’amore da antiquate stereotipie, ripulire la visione del sesso da preconcetti deleteri: la vita è unica, sia essa biologica, sociale o sessuale, e in tale maniera va vissuta. 


A tal riguardo ben si accostano le vicende che si incanalano lungo il solco dell’originale australiano per poi cambiare improvvisamente rotta, distruggendo l’alone drammatico del precedente e sostituendolo con una irrefrenabile voglia di vita ed un irresistibile senso dello humour tutto spagnolo. La penisola iberica ben ci sta abituando all’alto tasso qualitativo delle sue commedie, eppure in questo caso sembra essere intervenuta una maniacalità estrinseca a tale movimento, una forza tutta nuova scaturente dalla giovane mente del regista, riuscita a districarsi in un’incredibile amalgama di elementi che ben si incastrano nello script e sono inseriti in una cornice visiva priva di imprecisioni. La perversione viene sostituita dalla filia, grecismo che rimarca il carattere correttivo degli intenti sceneggiativi verso la terminologia e l’ideologia di devianza, e i protagonisti snocciolano i loro segreti intimi senza indugi particolari, lasciandoci nella imperturbabile certezza che questa sia la vera normalità, la vita pienamente vissuta e degna di essere così appellata. La gratuità del finale sottolineata da molti gioca, invece, a favore della narrazione, giungendo alla perfetta conclusione della storia più interessante, la quale vede contrapporsi una ragazza affetta da sordità ed un sordomuto, invischiati in una situazione grottesca nella propria comicità spinta, in un mondo che sembra non sentirli e repellere i loro stimoli. Freschezza e vitalità sono i valori cardine di una sceneggiatura ricca e ben oliata, inscenata da un cast corale in ottima forma e fondata su una rappresentazione visiva di raro spessore per tale genere, una piccola perla in un mare burrascoso ricco di ostriche vuote. 
Alessandro Sisti

domenica, giugno 19, 2016

GLI INVISIBILI: HIGH RISE - SECONDA PARTE


High rise
di Ben Wheatley
con, Tom Hiddleston, Jeremy Irons, Luke Evans, Elisabeth Moss, Sienna Miller, James Purefoy.
UK, 2015 
genere, 
durata, 115'




Proprio intorno a questa ibridazione animale/materiale si muove, frammentato e asettico, laconico e brutale, ciclotimico e sospeso, il resoconto cinematografico di Wheatley. Abbastanza aderente all'intreccio originale che prevede come casus belli la serie d'inesplicabili avarie elettriche che un giorno via l'altro precipita il grattacielo nell'inefficienza paralizzandone le funzioni di sostentamento [e lasciando in breve campo libero al caos nella forma di un homo homini lupus versione XX secolo all'interno del quale, complice una statistica divisione per ceti che si espande man mano verso i piani alti dello stabile - nel cui attico troneggia, progettista e ispiratore di una sorta di neo-Utopia, Anthony Royal (interpretato con la solita eleganza controllata da Jeremy Irons) - i duemila inquilini, tra un party e l'altro, un'orgia e l'altra, una puntata in piscina o al fornitissimo supermercato interno, prendono prima a boicottarsi vicendevolmente, poi a riunirsi in gruppi per impadronirsi e controllare i residui sistemi funzionanti e gli approvvigionamenti divenuti presto sporadici e di fortuna, quindi a bloccare gli accessi tra i vari livelli, in modo da formare isolate enclave in cui rinchiudersi sul tipo di compartimenti tribali gestiti per mezzo di rigidi codici gerarchici e di condotta: ogni passo di questa irresistibile disgregazione segnato dal collante di episodi violenti, saccheggi, devastazioni, abusi... '... è un errore pensare che stiamo tutti spostandoci verso uno stato di felice primitivismo. Qui il modello non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé post-freudiano e nient'affatto innocente, violentato da un'educazione all'evacuazione troppo indulgente, dalla devozione per il nutrimento al seno e dall'amore genitoriale... Una miscela ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare i nostri antenati vittoriani. I nostri vicini hanno avuto tutti un'infanzia che più felice non si poteva, ma sono comunque arrabbiati. Forse è perchè non hanno mai avuto la possibilità di diventare dei perversi...'], "High rise" è altresì attraversato da alcuni (ovvi) cambiamenti di registro [per dire, una delle figure principali, il dr. Robert Laing - un garbato ma sotto sotto ben più che inquieto Tom Hiddleston - giovane insegnate di Fisiologia alla Facoltà di Medicina, ricopre nel film un più marcato ruolo di arbiter di quanto non emerga dalle pagine; l'attribuire minore enfasi sui disservizi prodottisi nel grattacielo può alimentare in chi guarda, magari a digiuno del riferimento letterario, il sospetto circa una qual gratuità della disintegrazione lenta ma sistematica delle barriere sociali e di classe periodicamente ricondotte da Ballard, invece, entro lo stringente binomio erosione (della tenuta complessiva della struttura)/regressione (della popolazione in essa ospitata/reclusa); s’abbozza, ed è un tratteggio, l'instaurazione di un matriarcato arcaico ventilata dallo scrittore britannico come compendio e punto di congiuntura delle nevrosi, delle frustrazioni di una variegata galassia femminile - tanto più o meno privilegiata quanto insoddisfatta - qui esemplificata da una lasciva e avvilita Charlotte Melville/S.Miller; da una sprezzante e ondivaga Ann Royal/K.Hawes e da una solo in apparenza arrendevole e vittima designata Helen Wilder/E.Moss; et.] e da talune variazioni per ciò che attiene i legami che uniscono i personaggi. L'opera prova a spostarsi, così, e a cercare un proprio assetto, sullo scivoloso terreno di confine che accoglie, al tempo, il tentativo di materializzare in modo adeguato un immaginario complesso e sfaccettato, oltreché assai personale (quello di Ballard) e le necessità espressive di un Cinema (quello di Wheatley) aduso alla riproposizione quasi lineare di un realismo incline al nonsense crudele, nonché percorso da sprazzi di follia cieca - sottile ma persistente, guarnita spesso di elementi horror che quel realismo sostengono e vivificano - capaci di lacerare il tessuto molle di consuetudini e dipendenze tenuti insieme dal trito denominatore comune dell'indifferenza e della rassegnazione. Tale accidentata progressione si stabilizza a tratti, ed in genere risulta più salda e coinvolgente sul versante figurativo che non su quello drammaturgico.


In altre parole: se, come è stato da più parti sottolineato (e, magari, ai tempi del romanzo in questione, era ancora possibile illudersi riguardo esiti diversi), la lotta di classe è finita e l'ha vinta il Capitale, ecco che Wheatley affronta uno dei grumi metaforici e preveggenti della narrazione ballardiana - smarrendone, in sostanza, parte del fascino straniante e tacendo il cupo revanscismo incarnato dalla figura di Richard Wilder (restituito con indubbia energia iconoclasta da Luke Evans), autore televisivo deciso ad inerpicarsi tra rifiuti e rottami fino all'eremo del niveo Royal per un risolutivo faccia-a-faccia, diluito in un dispersivo cocktail di furore e velleitarismo - al modo di una serie di rapide e sgargianti scene inframmezzate da dialoghi via via più disincantati e sarcastici, caratterizzate da tonalità cromatiche ora sul filo di una appropriata psichedelia, ora compresse in una specie di bizzarra staticità satura (pareti, ambienti, suppellettili e abbigliamenti affastellano nuance disparate, dall'ocra, al rosa, al pesca, passando per il verde mela, il rosso scuro e il bianco accecante, in un caleidoscopio di proposito contundente, esaltato dalla mdp che volentieri ne coglie il nitore, la prepotenza o l'opacità dal punto di vista di inquadrature sghembe o morbidamente sospese) e nelle quali la classe lavoratrice, quella borghese delle professioni e quella dell'aristocrazia del denaro, fanno sfoggio delle rispettive miserie come fossero il portato di un improvvido, quasi casuale imbarbarimento, mentre in realtà riflettono il silenzioso ma inesorabile lavorìo di un contesto particolare (a sua volta allegoria di un sistema globale che non prevede più vie d'uscita) che ne forgia intenzioni e scopi, ossia di una vera e propria personalità dispotica in grado di forzare l'individuo a mostrare cosa davvero stagna al fondo di ritualità sociali onnicomprensive ma meramente formali (Parlava del grattacielo come fosse una specie d'immensa presenza animata che incombeva su di loro e teneva lo sguardo autoritario fisso sugli avvenimenti. O anche: Era costantemente consapevole dell'immenso peso del cemento sopra di lui, e aveva la sensazione che il suo corpo fosse al centro delle linee di forza che attraversavano l'edificio), al punto da esigere sottomissione e fedeltà imperiture (... appena fuori dalla porta a vetri, fu immediatamente colpito dalla luce e dall'aria più fresca, come se respirasse l'aspra atmosfera di un pianeta alieno. Un senso di estraneità, molto più tangibile di qualsiasi cosa si trovasse nel grattacielo, circondava da ogni lato il condominio. E: L'assenza di qualsiasi rigida struttura rettilinea sintetizzava per Laing tutti i rischi del mondo che stava al di là del grattacielo). D'altro canto, è altrettanto vero che, a fronte di incisivi andirivieni della mdp di reminiscenza kubrickiana paralleli agli spostamenti tanto decisi quanto fittizi degl'inquilini da e verso l'edificio, attraverso gli ambienti sempre più impraticabili, parimenti flagrante si nota una perplessità - destinata a rimanere tale - al momento di optare per un taglio dichiaratamente visionario (impressionante, a tal proposito, la prospettiva da cui si osserva il giardino privato di Royal, squarcio vegetale impossibile incastrato direttamente fra la pietra e il cielo) o per uno che privilegi, pur tenendoli in costante frizione, la parvenza convenzionale di rapporti impostati secondo il metro ideale di una acquisita civilizzazione e il substrato surreale, dionisiaco, onirico che quella misura intende solo distruggere (A quel punto anche le violenze si erano totalmente stilizzate, erano diventate fredde e casuali spasmi di aggressività. In un certo senso, la vita nel grattacielo aveva cominciato ad assomigliare a quella del mondo esterno: le stesse crudeltà e violenza celate entro una serie di cortesi convenzioni. E: Anche il disfacimento del grattacielo era un modello del mondo in cui sarebbero vissuti in futuro. Era uno scenario post-tecnologico, dove ogni cosa era o in abbandono o, più ambiguamente, rivista secondo modalità inaspettate e più significative). L'esito prevalente di "High rise" pare essere allora il risultato non del tutto armonico di una circolarità a volte alquanto suggestiva ma come ostaggio di un'irresolutezza che ne frena le ambizioni - sebbene solo intraviste, tutt'altro che banali - sull'instabile piano tracciato per accogliere sia lo slancio immaginativo che gli evidenti scrupoli di ortodossia filologica, un po' come se anche Wheatley, al pari di Ballard in un dato frangente della sua avventura creativa, si fosse fermato, avesse preso tempo e indugiato prima di scegliere which way to inner space.
TFK

LA FOTO DELLA SETTIMANA






Lancelot du Lac di Robert Bresson, Fra/Ita 1974

venerdì, giugno 17, 2016

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: THE CONJURING - IL CASO ENFIELD

The Conjuring - Il caso Enfield
di J ames Wan
con Patrick Wilson, Vera Farmiga, Frances O' Connor
Usa, 2016
genere, horror
durata, 133'



Riuscire nell’intento di rinnovarsi nella serialità cinematografica è evento abbastanza raro, essere contemporaneamente in grado di sperimentare a tal punto da toccare un nuovo apice nella propria carriera quasi impossibile. James Wan, forte del suo periodo di relativo distacco dal cinema dell’orrore – durante il quale ha avuto la possibilità di mettere le mani sull’action e provare cosa significhi affrontare una saga così delicata come quella di Fast & Furious, stravolge l’atmosfera del primo episodio e ne realizza un seguito all’altezza, se non superiore, sfruttando abilmente il cambio continentale di location a proprio favore. Gli anni settanta, il clima londinese ricco in giornate bigie, stanze e strade allagate in acqua e pioggia conferiscono al nuovo The Conjuring un alone tetro e straniante, curiosamente differente dalla fattoria dei Perron, un mondo alternativo in cui muovere le nuove pedine dell’infernale gioco tenuto a freno dai coniugi Warren. Demoni, spiriti maligni e fantasmi dal passato oscuro sono solamente una facciata, intonacata a perfezione e rifinita con stucchi pregevoli, oltreché spaventevole come poche in precedenza, necessaria per autorizzare il visionario talento malese al racconto di una storia d’amore originale nella sua unicità, rendendo i Warren i veri protagonisti della pellicola, molto più che nell’Evocazione primitiva. Dopo un incipit che ci permette di sorvolare velocemente l’abusata storia della maison maledetta di Amityville (contributo notevole a tale argomento è stato dato dal talento italiano Damiano Damiani con la regia del terzo capitolo della saga ad essa dedicata), la camera entra nel vivo della vicenda muovendosi sinuosa lungo le scricchiolanti scalinate, accarezzando i corridoi su cui cammineranno, strisceranno e si contorceranno le giovani attrici - spesso costrette ad una recitazione fisica intensa o sospese a mezz’aria,  roteando verso i popolati soffitti, addentrandosi negli inesplorati anfratti  fotografati magnificamente da Don Burgess, scendendo a pelo d’acqua prima d’immergervisi, terminando a strapiombo su sporgenze potenzialmente mortali. Wan carrella nella casa mostrandocene ogni angolo, complici una scenografia ricostruita raramente in maniera così funzionale ed una scelta cromatica spiazzante, nuovamente lontana dalle soluzioni visive adottate nel precedente; il regista si sente a casa, circonda i protagonisti di figure demoniache sinistre e grottesche, in grado di suscitare non poco timore (lo spirito “storto”, la suora – già opzionata per un futuro spin-off stile Annabelle) e gioca con gli stereotipi frantumandone la normale consequenzialità, giungendo a creare delle sequenze di climax tensivo uniche nel panorama moderno, in cui l’abilità registica nel manovrare la camera lungo l’esiguità degli spazi rappresentati si miscela con il timore costante di una possibile comparsata malefica dalla tetra magione. 


Il buio offusca la felicità della famigliola, già drammaticamente segnata da una mal digerita separazione, impedendo agli stessi ed ai demonologi la corretta interpretazione degli eventi in corso d’opera, rivelando nel reale burattinaio una figura che potrebbe dare del filo da torcere a molti consimili. L’epicità esasperata di pochi attimi ed alcuni dialoghi melensi fuori luogo sono solo piccole sbavature in un opera confezionata con passione, con un occhio rivolto ai grandi maestri del passato ed uno aperto sulle innovazioni tecniche moderne, frutto di un lavoro di riscrittura del genere di notevole importanza e sorretto da attori in parte (menzione particolare va alla giovane protagonista) e da un impegno sul comparto sonoro impari, pareggiato solamente dalla perfetta regia di Wan che, nel secondo capitolo di una delle più remunerative saghe di questo millennio, supera sé stesso, giungendo ad osare e sperimentare come se avesse dinanzi a sé un’opera prima. Passione, tanta passione. Occhio allo zootropio, piccolo omaggio al pre-cinema.
Alessandro Sisti

mercoledì, giugno 15, 2016

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: I TEMPI FELICI VERRANNO PRESTO

I tempi felici verranno presto 
di Alessandro Comodin
con Sabrina Seyvecou, Erikas Sizonovas, Luca Bernardi, Marco Giordana
Italia, Francia 21
genere, drammatico
durata, 100'



Quante volte su queste pagine ci è capitato di ragionare sulla debolezza di certe analisi - anche le nostre -, incapaci di corrispondere alla complessità degli spunti proposti dalla visione di un determinato lungometraggio. In tale contesto, oltre a riconoscere i propri limiti rispetto alla complessità dell'opera in questione avevamo segnalato l'inadeguatezza di certi parametri di giudizio, messi a dura prova da una tipologia di messinscena sempre meno cristallizzata all'interno di categorie prestabilite. E questo il caso di "I tempi felici verranno" il secondo film di Alessandro Comodin, presentato come evento speciale alla Semaine de la Ctitique dell'ultima edizione del festival di Cannes. Succede infatti che in maniera più netta della volta scorsa Comodin si presenti sullo schermo con una storia che entra ed esce da ogni forma di classificazione, mischiando le carte con una rappresentazione che a secondo del caso alterna o mette insieme fiction e documentario, realtà e fantasia, racconto e trattato antropologico. II tutto messo a disposizione di una storia che tale non è perché alla maniera di certi percorsi lynchiani in cui la progressione narrativa va avanti sparigliando le normali logiche di causa effetto così "I tempi felici verranno presto" si estende lungo il corso di una linea narrativa che procede per assonanze apparentemente indecifrabili e invece a ben guardare rintracciabili a partire da un'idea di natura intesa e come stato dell'anima e quale manifestazione fisica dell'esistenza umana. Da qui la duplicità di consistenza che fa del film di Comodin un film intercettabile solo a patto che lo spettatore riesca a sintonizzarsi sulle frequenze di un racconto circolare e discontinuo, costituito da scarti di tempo e di luogo tenuti insieme dalla coerenza del paesaggio geografico e in particolare della campagna del nord est italico (probabilmente quella nei dintorni di San Vito al Tagliamento nel quale il regista è nato e dove era stato ambientato "L'estate di Giacomo") chiamata a fare da scenario alle epifanie che compongono la struttura polifonica dell'impianto drammaturgico creato dal regista friulano. A prendere parte alla vicenda sono così in ordine d'apparizione due giovani in fuga da una detenzione non meglio specificata e, a seguire, una ragazza appartata che vive in una cascina insieme al padre contadino e che nel corso di una passeggiata nel bosco circostante individua un passaggio che le permette di entrare in contatto con una sorta di mondo parallelo, abitato da presenze misteriose e fantasmatiche. E ancora testimonianze di leggende locali che insieme alle sequenze ambientate all'interno di una prigione si inseriscono nel flusso narrativo come agganci utili per provare a riallacciare il filo di un discorso che per il resto sembra seguire un'estemporaneità più poetica che discorsiva.


Di fronte un quadro come quello che abbiamo cercato di spiegare ogni perentorietà appare non solo arbitraria ma anche poco utile alla conoscenza del lettore. Al contrario può tornare utile evidenziare un possibile itinerario di lettura del film, individuabile nella visione ciclica della vita e in una terra che è madre (la feritoia del terreno in cui si cala la ragazza rimanda inequivocabilmente all'organo sessuale femminile) e matrigna (per il fatto di contemplare in egual misura morte e rinascita). Se poi consideriamo il dualismo tra libertà e costrizione contenuto alle estremità del film che si apre con un immagine di fuga e all'opposto si conclude con uno dei personaggi relegato dietro le sbarre la sensazione è quella di un racconto che si riallaccia al mito del paradiso perduto per costruire un'allegoria dell'esistenza umana che sarebbe piaciuta ad Albert Camus. Dello scrittore algerino "I tempi felici verranno presto" mantiene il vitalismo che deriva da una fede ad oltranza nei confronti della natura e della sua mitologia e la coincidenza tra arte e vita riscontrabile nel fatto di ispirarsi alla propria terra e le persone che la abitano. Tra piani sequenza, pedinamenti e immersioni sensoriali che prevedono anche un brano musicale destinato a rompere la totale auto referenza del visibile, riportato improvvisamente alla volontà del regista demiurgo, "I tempi felici verranno presto" ha il fascino delle cose irrisolte e, per quanto ci riguarda, lo nostalgia di una promessa in parte delusa.
(pubblicato su ondacinema.it)

martedì, giugno 14, 2016

IN NOME DI MIA FIGLIA

In nome di mia figlia
di Vincent Garenq
con Daniel Auteuil, Sebastian Koch, Marie Jose Croze
Francia,
genere, drammatico
durata 87'



Negli Stati Uniti della nuova Hollywood accanto al cinema che era espressione degli ideali di rinascita e di progresso tipici di quel periodo trovò modo di svilupparsi un filone cinematografico  di segno opposto, caratterizzato dall’esibizione di una violenza inconsulta e reazionaria che nell’intento di salvaguardare i valori della vecchia America riciclava il tema della vendetta, utilizzato come puntello per giustificare la brutalità delle azioni commesse dal protagonista interpretato da Charles Bronson. Come infatti si ricorderà ne “Il giustiziere della notte” di Michael Winner (1974) un tranquillo e onesto cittadino decide di farsi giustizia con i propri mezzi   a causa dell’inettitudine delle istituzioni che non sono riuscite a perseguire i responsabili dei delitti commessi nei confronti della sua famiglia. A distanza di tempo, e con  molti epigoni succedutisi nell’esercizio del tema in questione, tocca a un film francese tenere alta la bandiera di questa sorta di auto determinismo sociale attraverso il racconto di quanto realmente accaduto ad André Bamberski a partire dall’estate del 1982 quando l’uomo riceve la telefonata della ex moglie che lo informa della morte della figlia quattordicenne.  Convinto che la ragazza non sia morta per cause naturali, come i più vorrebbero fargli credere,  bensì a causa del maldestro tentativo del patrigno - il medico tedesco Dieter Krombach – di coprire l’evidenza degli abusi sessuali commessi ai danni della giovane, Bamberski decide di dedicare il resto della sua esistenza a dimostrare la colpevolezza di Krombach. Il quale, grazie alla connivenza del governo tedesco e all’imperizia di quello francese - intenzionato a scongiurare le conseguenze di un incidente diplomatico e quindi per niente propenso a fa valere le ragioni della legge – riesce a farla franca, sottraendosi alla giustizia e continuando a vivere la propria vita fino a quando il protagonista non deciderà di passare alle vie di fatto, assoldando un banda di malviventi pagati per rapire il lestofante.

  

Considerato che la storia del film è ricavata da uno dei fatti della cronaca francese più famosi degli ultimi anni e che il regista  Vincent Garenq è considerato uno specialista di questo genere di operazioni, va da se che “In nome di mia figlia” dal punto di vista cinematografico è quanto di più lontano si possa immaginare dal lungometraggio girato da Winner.  In questo caso il personaggio di Bamberski pur partendo dalle stesse premesse di quello interpretato da Bronson - al quale lo lega anche la metodica ossessione nel perseguire l’obiettivo finale – è figlio del proprio tempo e soprattutto della propria cultura; quindi depositario di una fiducia  nelle prerogative connesse con le regole del cosiddetto patto sociale che nonostante le avversità incontrate nel corso della sua lunga odissea processuale esulano dal ricorso al giustizialismo fai da te così in voga oltreoceano. In questo modo le aule dei tribunali e i palazzi della burocrazia prendono quindi il posto degli slum metropolitani e dei sobborghi periferici, con le dispute legali e i dettagli procedurali a sostituire il piombo delle pistole e i corpi insanguinati mentre la realtà desunta negli archivi dei giornali e nei programmi televisivi prevale sulla spettacolarizzazione del dolore e sull'epica dell'uomo solo contro tutti. Per contro, il senso della misura e la razionalità che ispira l'operato del protagonista travalica lo finzione scenica per diventare l'orizzonte entro il quale si muove la messinscena di Garenq, il quale, per il timore di non dimenticare nulla di ciò che è accaduto e forse nell’intento di rendere merito agli sforzi di Bamberski, allestisce uno scadenzario visivo tanto sistematico quanto scontato, preoccupato di riportare la successione degli avvenimenti con una planimetria di luoghi date e figure umane che costituiscono i capitoli in cui è suddivisa la trama. L'effetto generale è quello di un riassunto ben ordinato ma privo di appeal emotivo. Sprovvisto della  freddezza necessaria a giustificare tale distacco " In nome di mia figlia" non riesce neanche a far breccia dalle parti del cuore, costringendo Daniel Auteuil ad una recitazione pressochè impalpabile.
(pubblicata su ondacinema.it)

domenica, giugno 12, 2016

sabato, giugno 11, 2016

L'UOMO CHE VIDE L'INFINITO

L'uomo che vide l'infinito
di Mat Brown
con Dev Patel, Jeremy Irons, Devika Bhise
USA, 2015
genere, drammatico
durata, 108'


Nell'India coloniale del 1912, il giovane matematico autodidatta Ramanujan decide di inviare a un illustre professore inglese, G.H. Hardy, le sue recenti scoperte. Fermo e ostinato nel suo lavoro, dopo l'invito del docente a recarsi al rinomato Trinity College di Cambridge, Ramanujan parte per l'Inghilterra contro il volere della madre, lasciando la sua terra e il suo amore, la moglie Janaki. 
"L'uomo che vide l'infinito" non è soltanto la storia di una mente geniale che supera le barriere della rigidità accademica: la sua è una vera propria rivoluzione, incisiva, anche se piccola. Le scoperte di Ramanujan, in effetti, storicamente contribuirono a creare la base per gli studi sulla teoria delle stringhe e dei buchi neri, compì un'impresa verso l'infinito. Privo di metodo, il suo approccio alla matematica si distingue dai canoni dell'ambiente del Trinity College e viene considerato poco convenzionale. Ramanujan è istintivo, puro, privo di sovrastrutture accademiche: il suo criterio di indagine sembra avere più a che fare con il trascendente e con la spiritualità tipica del suo paese di origine che con l'austerità del college inglese. Grazie alla guida del mentore e amico Hardy, un personaggio eccentrico e fuori dagli schemi, impara il metodo che gli servirà per portare avanti il suo lavoro, le più volte citate "dimostrazioni", e verrà accettato da un ambiente inizialmente molto ostile. 

Il film di Michael Brown ha due linee narrative, ponendo l'accento sulle relazioni tra Ramanujan e Hardy e tra Ramanujan e l'Inghilterra. La figura del suo maestro rappresenta l'anello di congiunzione tra i due mondi. Hardy è, infatti, un personaggio non conforme alla società del tempo, è un pacifista e un uomo moderno, antiaccademico e, non a caso, molto amico di Bertrand Russel. Sarà proprio lui a proporre di assegnare l'incarico accademico a Ramanujan, cercando ndi far apprezzare da tutti l'importanza del suo lavoro, ma anche di iniziare un processo che esorti il paese colonizzatore a guardare al colonizzato come un suo pari. 

Se con Hardy è facile costruire un rapporto egualitario, che si trasformerà, poi, in una profonda amicizia, con il paese che lo sta ospitando Ramanujan deve faticare molto di più e servirsi di un tramite inglese per farsi accettare. Il processo raccontato in questo film cela un sottotesto che rimanda al discorso coloniale, anche se in maniera molto sfumata. Questo aspetto emerge chiaramente nel momento in cui la pellicola si sofferma sugli sguardi e gli atteggiamenti avversi che gli inglesi rivolgono allo straniero. Ramanujan viene deriso per i propri abiti, chiamato straccione, picchiato da soldati dell'esercito, diventando oggetto di sfogo per la sua diversità, nella cornice di un Paese distrutto e messo in ginocchio dalla guerra. 


Il regista preferisce calcare la mano sui momenti più toccanti, servendosi di un'estetica artificiosa e manierata, come nella scena di Janaki in penombra all'interno del tempio, e utilizzando anche musiche molto enfatiche, nel tentativo di porre l'attenzione sull'elemento melodrammatico.
Riccardo Supino