sabato, aprile 30, 2016

10 CLOVERFIELD LANE

10 Cloverfield Lane
di Dan Trachtenberg
con Mary Elizabeth Winstead, John Goodman, John Gallagher Jr.
USA, 2016
genere: azione
durata: 105'


Michelle lascia il proprio compagno e, mentre guida nella notte, ha un incidente. Si risveglia bloccata da manette in un bunker: ha un tutore a una gamba e una flebo nel braccio. Un certo Howard dice di averla raccolta in strada e di averla portata lì per il suo bene. Michelle non sa che all'esterno sono accaduti eventi catastrofici e che solo rimanendo lì con lui e con il più giovane Emmett potrà sopravvivere. La ragazza ha però più di un motivo per dubitare e cerca di trovare un modo per fuggire.

Correva l'anno 2008, quando J.J. Abrams architettava un'operazione destinata a mutare, almeno in parte, le coordinate dei "disaster movies". Torna ora, con un diverso regista, a richiamare, con un accenno nel titolo, quel piccolo ma importante film. Qui, però, ci si muove sul terreno del thriller psicologico, del quale Trachtenberg conosce bene tutti gli elementi strutturali.

Perché questo genere funzioni e non dia origine a un B-movie è necessario avere un cast all'altezza. In questa occasione la scelta è stata più che oculata perché a una Mary Elizabeth Winstead, femminile e determinata al punto giusto, fa da contraltare un John Goodman al suo meglio. Egli è un attore che, nel corso della sua lunga carriera, ha saputo mostrarsi perfettamente a proprio agio sia nei panni di burbero benefico, sia in quelli di una persona di cui temere le reazioni. Qui alterna i due volti con una duttilità che finisce con il costituire il fulcro della narrazione.

Il dubbio - non è dato sapere se Howard sia un pericoloso psicopatico che utilizza il suo bunker antiatomico per seviziare, psicologicamente e fisicamente, vittime innocenti oppure se la situazione esterna che descrive corrisponda al vero - viene conservato fino a pochi minuti da un finale che rischia però di indebolire la portata di un film ben costruito: le troppe spiegazioni inficiano molto sulla qualità di un prodotto cinematografico.
Riccardo Supino

venerdì, aprile 29, 2016

INVISIBILI - LOVE di Gaspar Noè

Love
di Gaspar Noè
con Karl Glusman, Klara Kristin, Aomi Muyock, Gaspar Noe, Benoît Debie
Usa 2015
genere, drammatico
durata, 130'


Se è vero che la noiosa reiterazione della quotidianità è a tutti gli effetti un crimine-contro-sé-stessi allora è anche vero che l’amore, almeno per come lo intendiamo noi occidentali, più che un sentimento rappresenta una trappola esistenziale.  
Non a caso Gaspar Noé ne traccia un profilo sincero – quindi per forza di cose brutale – e ne descrive gli inganni da cui ci lasciamo cullare grazie all’illusione iniziale che, con l’avanzare del percorso sentimentale, diventa una splendida prigione dorata. Ed è proprio per la sincerità – che a volte assume toni auto-biografici – del regista argentino che il sesso  in “Love” non solo è descritto come parte centrale di questa lenta morte interiore che ci ostiniamo a chiamare relazione amorosa, ma si distacca totalmente dalla propria componente pornografica proprio per l’empatia che il fruitore – sempre ammesso che quest’ultimo sia generosamente sincero con sé stesso – tende a provare.
Ecco che nello sviscerare l’argomento i continui salti temporali – tecnica di cui Noé aveva già abusato nella propria filmografia – non avvengono solo nel macro-montaggio e quindi nell’alternanza dei grandi blocchi narrativi ma anche all’interno della stessa scena, con i pochi secondi di nero che ne spezzano l’andamento – modalità, questa, già utilizzata in “Ritual”, capitolo del film collettivo “7 days in Havana” –. Da notare inoltre come nelle scene di sesso i corpi non solo sono utilizzati per la composizione geometrica (spesso dai caratteri pittorici) dell’inquadratura ma vengono continuamente messi a disposizione  dell’evoluzione psicologica dei personaggi.


Come nei precedenti titoli del regista argentino, dove i protagonisti finiscono per forza di cose a vivere il Purgatorio terreno come dannazione eterna, Murphy ed Electra rappresentano a più riprese il fallimento di un’intera cultura che confluisce in una visione distorta del sentimento, dove la possessività è figlia illegittima del maschilismo che solo a parole ci siamo lasciati alle spalle urlando al finto progresso morale prima che tecnico; senza renderci conto, ancora una volta, di essere alle prese con l’ennesimo slancio verso il niente.
Antonio Romagnoli

NEWS - SU MARTE NON C'E' IL MARE


Perchè uno sconosciuto dovrebbe darvi 500 euro a notte per dormire in un trilocale anonimo, anziché andare nella suite di un albergo a 5 stelle? E’ questa la domanda al centro del misterioso affare immobiliare intorno a cui si snoda “Su Marte non c’è il mare” l’ultima fatica del videomaker alessandrino Lucio Laugelli. Una storia in quattro episodi di cui è disponibile il trailer sul portale Mymovies.it. 

http://www.mymovies.it/film/2016/sumartenonceilmare/trailer/ 

Questo bel lavoro ha richiesto 10 giorni di riprese, dal 28 ottobre al 6 novembre 2015, 12 settimane di pre-produzione e ben 4 mesi di post produzione!
Nel trailer si vedono molti scorci del capoluogo piemontese in cui è stato girato per la maggior parte; alessandrini sono anche gli attori protagonisti: Michele Puleio, Maurizio Pellegrino, Christian Bellomo.
La prima puntata è disponibile online sul sito del quotidiano La stampa. Presto arriverà un altro episodio: stay tuned!

Riccardo Supino

giovedì, aprile 28, 2016

LA FORESTA DEI SOGNI

La foresta dei sogni
di Gus Van Sant
con Matthew McConaughey , Naomi Watts, Ken Watanabe
USA, Giappone 2016
genere, drammatico
durata, 110'



Esistono due versioni di Gus Van Sant. La prima, celebrata e di culto è quella di un regista che ha il coraggio di ampliare i confini del proprio lavoro concependo il cinema come laboratorio in cui sperimentare nuovi tipi di linguaggio in cui trovano compimento opere del calibro di “Drugstore Cowboy”, “Gerry” e “Paranoid Park”. La seconda, più addomesticata e attenta ai bisogni dello spettatore si concede il lusso di  cimentarsi in progetti altrui, cercando di conciliare la forme del cinema classico con la profondità di sguardo delle macchina da presa. Come abbiamo visto negli acclamati “Good Will Hunting”, “Cercando Forrester”.  A quest’ultima categoria appartiene a pieno titolo “La foresta dei sogni”, il film che Van Sant ha presentato nel concorso ufficiale dello scorso festival di Cannes riscuotendo un coro  pressochè unanime di critiche. La storia del film é presto detta perché il fulcro della vicenda si concentra per la maggior parte nell’unità di luogo rappresentata dalla foresta del titolo situata alle pendici del monte Fuji in Giappone dove il professore di matematica Arthur Brennam ha deciso di lasciarsi morire per sfuggire al dolore che lo tormenta. In tale contesto si verifica l’incontro con il misterioso viandante che nel tentativo di dissuaderlo dal folle gesto spingerà l’uomo a riconsiderare quella parte dell’esistenza che è fonte della sua afflizione.

Concepito alla maniera di una Divina Commedia contemporanea, con la foresta del titolo animata da elementi che trascendono la dimensione del reale per collocare i protagonisti in una sorta di moderno purgatorio, “La foresta dei sogni” si immerge nelle cose terrene con una sacralità che si manifesta non solo nelle allusione alla spiritualità orientale di cui il personaggio interpretato da Ken Watanabe si fa promotore. Perché il  valore attribuito alla presenza dell’altro diventa nel corso della storia  la chiave di volta  per trovare una risposta  al senso ultimo  dell’esistenza umana che Van Sant cerca e forse trova all'interno delle dinamiche della coppia borghese - ed è forse questa la cosa che è piaciuta di meno  agli estimatori del regista  -qui rappresentate dalle vicissitudini matrimoniali dei coniugi Brennam, ricostruite mediante una serie di drammatici flashback. Utilizzando alcuni degli stilemi più frequenti del suo cinema, ravvisabili nella struttura itinerante del racconto e nell'utilizzo empatico del paesaggio, La foresta dei sogni” pur nella convenzionalità della messinscena risulta tanto più coinvolgente quanto più da modo a un grande Matthew McConaughey di trasportarci nel cuore della storia. Le emozioni che procura la sua interpretazione valgono da sole il costo di un biglietto.

MEMORIE DI UN VIAGGIATORE

Memorie di un viaggiatore
di  Antonio Romagnoli
con Saverio La Ruina, Valentina Picello, Alessandro Haber.
Italia, 2015
genere, drammatico
cortometraggio, 14'09"



Tra le innumerevoli illusioni-metastasi proliferate all'interno del corpaccione della prassi occidentale, un suo posto di particolare - e ovviamente delusa - suggestione lo ricopre di sicuro l'idea del viaggio come itinerario (anche) intimo, utile, per diffusa opinione, a scoprire/riscoprire aspetti inediti o sepolti di se'. Tale suggestione avrebbe un certo numero di ragioni dalla sua (e il riferimento e' da considerarsi inversamente proporzionale allo scorrere delle epoche) se avesse trovato personalità in cui incarnarsi: ovvero se il viaggio inteso come autentico sradicamento dalle proprie certezze avesse su larga scala innescato l'imporsi di quella che da più parti e' stata definita (con una punta di esausta disperazione, a farci caso, visto il suo persistere più o meno imperturbabile a rango di lettera morta) etica del viandante (a dire, l'apertura interiore verso il famigerato Altro-da-se' - nello specifico, verso il suo modo di vedere le cose, le sue insicurezze, le sue presunzioni, et. - spesso e volentieri, nei fatti, incapsulato nella più comoda etichetta di "incivile" o "nemico" tout court) e non invece quella in apparenza più tranquillizzante - barattata, tra l'altro, illico et immediate - dell'uomo di mondo, ovverosia, oggi come oggi, del buongustaio, la quale, oltre ad accelerare la tumulazione definitiva dell'avventura, ha sancito l'emergere e il consolidarsi della demenziale dittatura del turismo di massa, causa tra le non secondarie, alla lunga, della tanto temuta (a parole) usura del pianeta, con conseguente ennesima materializzazione dell'universale desiderio inconscio della Fine.


Magari e' proprio tenendo conto anche di coordinate emotive simili che e' possibile inquadrare l'incedere astenico-meditativo dell'ultima opera breve del nostro Antonio Romagnoli, dal titolo "Memorie di un viaggiatore". Su strade assolate (una parte delle riprese si e' avvalsa del contatto diretto con lo scabro paesaggio calabro) che nel progressivo sfaldarsi delle loro prospettive non escludono la più estenuante delle circolarità o l'ipotesi del viaggio-da-fermo, si sposta calmo, zaino in spalla, Saverio/S. La Ruina - sguardo attento, leggerezza cauta a sottendere trascorsi fin troppo istruttivi, il corpo nervoso che pare avere trovato requie a tensioni ripetute solo negli spazi aperti di un vagabondare solitario e silenzioso - tipo laconico ma cordiale, in apparente fuga da un se stesso stanco forse di portare ancora del suo all'ammasso della frenesia e del rumore di un mondo che oramai non riconosce più come tale. Ai bordi della strada, ecco che incrocia dapprima Luca/A.Haber, pronto, dopo l'iniziale, prevedibile diffidenza, ad offrirgli la sua verità nella forma di una paradossale teoria circa il destino di Jim Morrison; quindi Maria Chiara/V.Picello, ragazza sfuggente e languida, con la quale varrà la pena scambiarsi - secondo un rituale involontario di un potlatch delle piccole cose - scampoli di esistenza marginale (una sigaretta, brevi sguardi curiosi eppure schivi, mezzi sorrisi...).

Sostenuto da un montaggio accorto nel suggerire le intenzioni mutevoli dei protagonisti e scaltro nell'anticipare possibili compiacimenti, il lavoro di Romagnoli stenta, nel suo passo in ogni caso aderente ad un procedere lineare, per l'eccessiva esilità dello scheletro narrativo, la cui relativa mancanza di peso, per un verso, autorizza via via la compresenza di troppi sottintesi, in potenza perfino contraddittori; per l'altro - e di conseguenza - contribuisce a penalizzare i caratteri, in particolare la figura di Maria Chiara (evocativa e come pericolosamente arresa ma dal punto di vista drammaturgico poco consistente), risparmiando, per contro e in parte, quelle di Saverio e Luca: capace di circoscrivere meglio e quindi supplire alla gracilità in virtù di uno scarto impresso dalla propria qual costante pensosa distanza, il primo; animato da un chiaro fervore di fondo (pensiamo alla gestualità e alla consueta loquela inquieta/borbottante haberiana), il secondo, antidoto mimico e dialettico alimentato da una spontanea, sorniona irruenza.

Resta l'impressione di un itinerario lustrale più agognato che con lucidità perseguito, a testimonianza ulteriore che lo iato scavato tra una maieutica del viaggio e la sua imperante retorica e' vasto e destinato ad allargarsi. Ma questo probabilmente Saverio/(Romagnoli) lo sa e -  qui e ora - e' già abbastanza.



[Ad integrazione.
Uno dei rari frangenti che fa uscire dalla grazia di Dio (?) il Tempo, è ricordargli che anche lui invecchia. Per tale motivo, da bravo ragazzino millenario capriccioso, è uso trascinare con sé qualunque cosa osi manifestarsi al suo interno. Un articolo, poi, transeunte già, diciamo così, per tare proprie, non ha davvero scampo e viene spazzato via prima di tanto altro. Tutto ciò per dire che nell'intervallo all'interno del quale sono state redatte le brevi note riguardanti "Memorie di un viaggiatore", esso ha trovato modo (e tempo, appunto) di aggiudicarsi il Festival di Villafranca Tirrena (Me). Complimenti all'autore, dunque e, come sempre, ad maiora. Ma questo al Tempo non ditelo].
TFK







mercoledì, aprile 27, 2016

CAVALLO DENARO

Cavallo Denaro
di Pedro Costa 
con Tito Furtado, Antonio Santos, Vitalina Varela
Portogallo, 2014
genere, drammatico
durata, 104'



Esponente di una forma di cinema "politico" sempre più rara nella costellazione cinematografica, il portoghese Pedro Costa è, nel bene e nel male, un regista fedele a se stesso, al punto da presentarsi a Locarno con un film, "Cavalo Dinheiro", che sembra, la versione lunga dell'episodio firmato dallo stesso autore nell'ambito del film collettivo "Centro Historico" (2012). Come quello, il nuovo lungometraggio racconta per immagini la storia di Ventura, immigrato dalle isole di Capo Verde per lavorare a Lisbona, proprio alla vigilia del colpo di stato militare che, a metà degli anni 70, si propose di dare una svolta democratica e anticolonialista alla politica governativa del paese. Il regista torna a quel periodo con una struttura narrativa che abolisce le logiche della normale progressione narrativa, disintegrando l'unità spazio temporale in un insieme di quadri che hanno il compito di restituirci i sentimenti ma anche le condizioni di vita di chi continua ancora adesso paga le conseguenze di quegli avvenimenti. Il personaggio di Ventura infatti più che se stesso, rappresenta l'incarnazione di una molteplicità di personaggi che individuano la moltitudine di umiliati e offesi dall'ingiustizia di un mondo assurdo.
Certo, il cinema del regista portoghese nel suo assoluto rigore non concede spiegazioni. Tutto deve essere dedotto dagli spunti di un dialogo fatto di frasi lapidarie e spesso criptiche, e da una specifica conoscenza della storia portoghese, a cui fanno riferimento i dettagli di oggetti e delle fotografie su cui la macchina da presa sporadicamente si sofferma. Ad essere evidente è la tipologia delle immagini, composte all'interno di un quadro più piccolo del normale, e caratterizzate da uno stile di ripresa che enfatizza punti di fuga e prospettive anomale, con prevalenza di ombre e recessi poco illuminati a rappresentare una metafisica da oltretomba al quale sembra, così crediamo, appartenere Ventura, Dead Man Walking resuscitato per il tempo necessario a ricordare gli orrori di un sistema che ha tolto anche il niente a chi era già povero. Teatrale e assurdo al tempo stesso, "Cavalo Dinheiro" è cinema destinato a pochi eletti. Il rispetto nei confronti del tema portato avanti da Costa non impedisce però di avanzare dei dubbi su un operazione che di fatto non aggiunge nulla a quanto visto nel medio metraggio del 2012.

martedì, aprile 26, 2016

LUI E' TORNATO

Lui è tornato
di David Wnedt 
con Oliver Masucci, Fabian Bush, Katja Riemann
Germania, 2015
genere, commedia, satirico
durata, 116'


“… A suo tempo, il nazional-socialismo avrebbe fatte proprie e applicate le idee di Wachler su scala assai più ambiziosa, elevandole a spettacoli popolari di vasto respiro, in cui il contenuto drammatico delle rappresentazioni diveniva l’intensa espressione della partecipazione delle masse all’azione che aveva luogo sulla scena…”
Da “Le origini culturali del terzo Reich”/George Mosse



In un contesto come quello della Germania, nel quale in larga parte sulla volontà d’analisi di un periodo storico così complesso – quello che ha portato Hitler al potere –  ha prevalso un omertoso oscurantismo in nome del presunto mea culpa simil patriottico, “Lui è tornato” rappresenta uno slancio che finalmente non solo non si arrende alle premesse di cui sopra ma s’estende ben oltre.

Infatti, in una forma filmica che alterna senza far percepire stacchi la fiction alle incursioni nel mondo reale – nelle quali il protagonista interagisce coi passanti ignari, riprendendo i modi di “Borat” – e grazie alla verosimiglianza dell’attore protagonista, il film di Wnendt – tratto dal libro omonimo – rielabora il percorso che aveva portato il nazional-socialismo al potere nell’ottica in cui a dover essere guidata è una massa lobotomizzata – ed ancora più dannata di allora – in preda all’assuefazione dal web. Il cortocircuito che si crea è quasi destabilizzante poiché ogni reazione è, in linea teorica, del tutto riproducibile nel mondo reale e crea in chi guarda un senso di vertigine non indifferente. E se lo scopo della satira – satira qui concepita anche nella propria funzione di stampella del tragico – è quello di destrutturare il mondo fenomenico e ricomporlo in maniera da farne evincere le contraddizioni che lo compongono, “Lui è tornato” da questo punto di vista rappresenta un unicum inatteso nel panorama cinematografico  contemporaneo. 

Verrebbe da chiedersi: quando – e se – la massa-dannata si specchierà in tutto il proprio orrore, avrà la lucidità di riconoscere l’immagine speculare o urlerà al mostro ignoto? Ancora una volta, sarebbe meglio non conoscere la risposta.
Antonio Romagnoli

lunedì, aprile 25, 2016

LE CONFESSIONI

Le confessioni
di Roberto Andò 
con Toni Servillo, Connie Nielsen, Pierfrancesco Favino 
Italia-Francia 2016
genere, drammatico
durata,100'



In un resort di lusso, su una distesa d'acqua, gli otto ministri dell'economia delle grandi potenze soggiornano in attesa del summit che deciderà il futuro del mondo occidentale. Il consesso è presieduto da Daniel Roché, direttore del Fondo Monetario Internazionale, che ha invitato anche tre ospiti estranei all'ambito: una scrittrice di best-sellers per bambini, una rock-star e un monaco, Roberto Salus. Roché chiede a Salus di ascoltare la sua confessione, e subito dopo viene trovato morto. Per i ministri i problemi da risolvere diventano tre: bisogna capire se quella morte sia un suicidio o un omicidio, come comunicarla al pubblico e se si debba proseguire con la manovra che avrebbe dovuto essere varata nel corso del summit
Dopo il successo di "Viva la libertà", Roberto Andò affronta l'ambiente politico-economico, collocando i propri personaggi nel pieno centro della scena, ma anche costringendoli in una sorta di laboratorio di osservazione suddiviso in loculi. Gli otto ministri formano il pantheon della contemporaneità occidentale e, come gli dei dell'Olimpo, non sono infallibili: dunque le loro decisioni hanno spesso ricadute nefaste sui mortali. Quando il loro Zeus viene a mancare scoprono di non avere né una guida né una direzione e ognuno comincia a reagire alla presenza del monaco portando alla coscienza quel dubbio che ha fino a quel momento negato per obbedire alle leggi dell'economia e alla ragion di Stato, anche dopo che la sovranità nazionale si è arresa alla sottomissione al Fondo Monetario. Tutto questo ricorda "Todo modo" ma anche "Il divo": pochi potenti in uno spazio asettico e confinato, chiamati a confrontarsi con la dimensione etica del proprio ruolo, in un resort lussuoso e alienante che ricorda l'albergo termale di "Youth", ma in cui il rapporto fra interni ed esterni richiama la residenza isolana de "L'uomo nell'ombra". 

La messinscena racconta una dimensione metafisica che, a ben guardare, non riguarda né la politica né l'economia e nemmeno la religione o l'arte, incarnate simbolicamente dai tre ospiti estranei al G8: il terreno di gioco è quello etico e Salus, diversamente dal Don Gaetano di "Todo Modo", non usa un tono inquisitorio e non sollecita le confessioni di nessuno, ma si limita a raccogliere il disorientamento di questi potenti, in realtà incapaci di portare i propri paesi fuori dalla crisi, o anche solo di confessare pubblicamente la propria inadeguatezza. Salus fa da cartina tornasole dei dubbi e dei rimorsi di tutti e i personaggi, proprio come i luoghi che attraversano, entrano ed escono da sé stessi in un continuo gioco di sovrapposizioni e successivi distacchi fra presa di coscienza e reiterazione di un ruolo preconfezionato dalla Storia. La regia di Andò è nitida e geometrica, racconta un mondo inerte persino nell'emergenza. Da un punto di vista cinematografico, l'immobilismo che Andò mette in scena rallenta la narrazione luminosa e poetica. Il cast di "Le confessioni" asseconda la visione simbolica e stupefatta del suo regista: Toni Servillo è un catalizzatore morale passivo e sibillino, Pierfrancesco Favino un ministro mosso dal proprio ruolo e condannato ad essere estraneo a sé stesso. Nessuno scambio verbale è spontaneo perché ogni frase è un testamento, ovvero una confessione. Ma per questi dèi condannati a governare il caos non c'è assoluzione, solo la possibilità di prendere atto della propria intrinseca manchevolezza.
Riccardo Supino

domenica, aprile 24, 2016

LA FOTO DELLA SETTIMANA






Woodstock - Tre giorni di musica, pace e amore di Michael Wadleigh - USA, 1970 

sabato, aprile 23, 2016

ZONA D'OMBRA

Zona d'ombra
di Peter Landesman 
con Will Smith,  Gugu Mbatha Raw, Alec Baldwin
USA, 2015
genere, drammatico
durata, 123'


Lo sport come pretesto per raccontare altro. Magari quello che rimane del sogno americano messo a dura prova dalle logiche del capitalismo contemporaneo (Moneyball) oppure, nel tentativo di salvarne il salvabile, per dimostrare che esistono ancora spazi di manovra per riuscire a tenerlo in vita. A quest’ultima opzione crediamo si riferisca "Zona d’ombra", il lungometraggio di Peter Landesman, passato alle cronache per la presunta matrice razzista che avrebbe portato i membri dell’academy a escludere Will Smith dalla cinquina dei migliori attori dell’annata. Va da sé che il rischio maggiore per un film del genere è quello di essere visto sulla scia della curiosità scatenata dalle polemiche di cui dicevamo e quindi di essere giudicato sulla base della performance di Smith invece che per il complesso degli elementi che lo costituiscono. E infatti a stupire non è tanto la performance pur buona dell’attore, pronto a lasciarsi indietro la sua immagine più ludica e guascona per immergersi in quella adulta e drammatica del suo personaggio, quanto piuttosto la mancata attenzione dei media rispetto alla delicatezza dei contenuti storia che, attraverso la figura del neuropatologo di origine africana Bennet Omalu, racconta i tentativi di mistificare i risultati delle ricerche effettuate dal medico che riuscì a dimostrare il legame tra la malattia degenerativa patita da alcuni campioni del football americano e lo stress fisico causato da questo sport. 

Siccome si parla di una storia vera e soprattutto di una scoperta che trattando dei rischi per la salute degli atleti ha minato alla base dell’immagine del gioco più amato d’america, "Zona d’ombra" nasce per essere qualcosa di più che una passerella messa a disposizione del divo di turno. Certo se poi si entra nel merito, a farla da padrone in termini di visibilità è comunque il mimetismo di Will Smith e le capacità fisiche ed espressive  che gli permettono  di scomparire all’interno del personaggio. Una scelta che penalizza non solo il resto degli attori - come, per esempio, Gugu Mbatha-Raw nella parte della moglie di Omalu - chiamati a recitare caratteri funzionali alla progressione narrativa e perciò incapaci di vivere di vita propria, ma anche l’efficacia di una denuncia che così facendo rimane tutta in superficie.

venerdì, aprile 22, 2016

TRUMAN

Truman
di Cesc Gay
con  Ricardo Darín, Javier Cámara, Dolores Fonzi
Spagna, Argentina 2015
genere, commedia
durata, 108'


Sembra che l’accettazione della morte sia un argomento all’attenzione del cinema europeo degli ultimi anni. Recentemente a tal proposito avevamo apprezzato in parte “Mia Madre” di Moretti e “These daughters of mine” di Kinga Dębska, film entrambi incentrati sull’elaborazione del lutto-prima-del-lutto dei familiari – più in particolare dei figli – e che lasciavano quindi ai margini della vicenda i reali protagonisti. In “Truman”, al contrario, viene posto al centro dell’indagine Julian, uomo di mezz’età che ha deciso di abbandonare le cure contro il cancro per godere del poco che gli rimane da vivere; a condividere con lui questi momenti arriva dal Canada l’amico Tomas, che accompagna l’amico a compiere gli ultimi passi della sua esistenza.
L’onestà con la quale i due affrontano la situazione – privati totalmente dal patetismo di un possibile patinato melodramma – è speculare alla sincerità con la quale Cesc Gay offre il proprio sguardo sulla vicenda, senza mai risultare artificioso né nella messinscena – specie grazie al lavoro fatto sulla fotografia, andando sempre a ri-creare situazioni di luce naturale quindi senza porre accenti visivamente drammatici – né nella sceneggiatura – con uno script che non accelera mai il ritmo e si prende i propri tempi diluendo le situazioni con sguardi, pause e dialoghi non necessariamente in funzione degli ingranaggi drammaturgici –.
In “Truman” – il titolo prende il nome dal cane del protagonista e dall’affanno che provoca il non sapere fino all’ultimo a chi lasciarlo dopo la morte di Julian – non c’è quindi manipolazione sensoriale nei confronti di chi guarda ma c’è semplicemente una storia raccontata senza scorciatoie e astuzie, che per questo aumenta la propria potenza comunicativa: una sincerità  che troppo spesso il cinema non offre ma che solo il cinema sa offrire.
Antonio Romagnoli

NOVITA' HOMEVIDEO - HUNGER GAMES: IL CANTO DELLA RIVOLTA

Hunger Games: il canto della rivolta - parte 2
di Francis Lawrence
con Jennifer Lawrence, Julian Moore, Philip Seymour Hoffman
Usa, 2015
genere, fantascienza, azione
durata, 137'



Nel giungere alla fine della saga l’ultimo capitolo di “Hunger Games: il canto della rivolta – parte 2” era chiamato a un’impresa complicata perché il compito di chiudere le fila dei vari filoni narrativi sviluppati nell’arco della sua lunga storia era sorpassato dalla necessità di realizzare una conclusione che fosse all’altezza della sua fama e in particolare che riuscisse a riscattare l’opacità degli episodi precedenti, soprattutto l’ultimo ma anche il secondo, risultati ben al di sotto degli standard qualitativi raggiunti dal film che aveva aperto la serie. Si trattava in pratica di riparare al difetto di fabbrica connaturato a un modello produttivo preconfezionato, in cui il bisogno di diluire la storia attraverso un numero prestabilito di lungometraggi aveva la priorità rispetto a eventuali problemi di coerenza narrativa e soprattutto del rispetto dei canoni di genere, gli uni e gli altri costretti a subire l’empasse provocato dall’eccessiva estensione del minutaggio.


Di fronte a questi svantaggi il nuovo “Hunger Games” risponde cercando di accelerare le fila del discorso, arrivando alla resa dei conti e quindi al confronto tra la beniamina della rivoluzione Katniss Everdeen e il perfido governatore di Capitol City, il presidente Snow, tenendo ben deste le inquietudini sentimentali della sua eroina, sempre più divisa tra l’amore per Peeta, che dopo le torture subite dal perfido Snow fatica a ritrovare se stesso, e i sentimenti nei confronti di Gale, il compagno d'armi che nel frattempo si è innamorato di lei. 



Quello che ne esce fuori è un film più adulto e meno propenso a dispensare quelle caratteristiche ludiche e spettacolari fornite a suo tempo dalla competizione relativa i giochi da cui il film prende il nome, sostituiti in questa fase da una dimensione della realtà più cupa e conflittuale, filmata da Francis Lawrence con un gigantismo apocalittico che, come sempre succede nelle vicende degli universi distopici, fa da preludio alla palingenesi finale. Jennifer Lawrence che del film è la vera star se la cava con intelligenza, facendo coincidere la propria crescità artistica e anagrafica a quella del suo personaggio, a cui dona una spessore e una consapevolezza in grado di dare senso all'espressione perennemente imbronciata assegnatagli dal copione. Per il resto "Hunger Games: il canto della rivolta - parte 2" è cinema d'azione con molta routine e qualche sequenza da ricordare: come quella dello scontro con gli Ibridi che se non fosse per le fattezze antropomorfe delle terribili creature semprerebbe prelevata da un classico della fantascienza come "Aliens" di James Cameron.

giovedì, aprile 21, 2016

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

Lo chiamavano Jeeg Robot
di Gabriele Mainetti
con Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Elena Pastorelli
Italia, 2015
genere, fantascienza, avventura, azione
durata,





Trovare qualcosa di positivo nella crisi che attanaglia il paese può sembrare irriguardoso nei confronti delle persone che ne stanno pagando il prezzo più alto. E' pur vero però che la storia ci ha insegnato di come il progresso e il miglioramento della specie siano stati spesso il frutto di situazioni traumatiche e rivoluzionarie, capaci anche in maniera violenta di mettere in discussione le regole dello status quo che le avevano precedute. Alla pari delle altre istituzioni anche il cinema non è esente da scossoni e prova a reagire come può alla mancanza di fiducia nelle sorti del paese. Gabriele Mainetti per esempio lo fa da par suo affidandosi ad un pool di semi esordienti che comprende tra gli altri Menotti e Simone Guaglione, co-autori della sceneggiatura che ha dato vita alla storia di Enzo Ceccotti (un ottimo Claudio Santamaria), pregiudicato di borgata che il contatto con una sostanza misteriosa trasforma in una specie di super eroe. Trattandosi di un film girato in Italia e ambientato per lo più nell'area di Tor Bella Monaca, borgata romana al centro delle cronache per episodi collegati all'instabilità del sua mescolanza sociale, il progetto di  "Lo chiamavano Jeeg Robot" risultava fin dall'inizio tanto originale quanto coraggioso. A renderlo tale è innanzitutto l'idiosincrasia dei produttori italiani, abituati a considerare la fantascienza come un brand ad uso esclusivo del cinema americano e quindi per antonomasia restii a investire i propri soldi in film destinati a diventare, secondo il loro punto di vista, parenti poveri dei grandi blockbuster americani. Secondariamente, circoscrivendo il campo alla genesi del film in questione, la decisione di Mainetti di confrontarsi con i colleghi americani nel rispetto dei codici del genere, ma senza la deferenza che ci si sarebbe potuti aspettare da un esordiente si fonda sulla scelta di argomentare in modo personale intorno a una cultura che mette a sistema l'immaginario pop sul tipo di quello cosiddetto low brow, rintracciabile in alcuni film di recente produzione ("La solita commedia - Inferno" e "Italiano medio), con specificità linguistiche (l'uso del dialetto romano) e di costume profondamente connaturate con la specificità del territorio in cui la storia si svolge.


Così facendo, "Lo chiamavano Jeeg Robot" lavora allo stesso tempo in due direzioni: da una parte, si preoccupa di mantenere fede ai capisaldi del genere di riferimento, costruendo la mitologia del suo eroe attraverso le fasi classiche che contraddistinguono la scoperta e la presa di coscienza dei super poteri, incentrate quest'ultime, per la maggior parte sulle difficoltà del protagonista di adattarsi al cambiamenti e alle responsabilità che da questi poteri derivano; dall'altra, ponendosi in antitesi nei confronti delle certezze tipiche dei prodotti americani, traditi, per cosi dire, dal campionario di personaggi e di situazioni che fanno da contraltare al perfezionismo espressivo e iconografico che solitamente si accompagna a questo tipo di storie. Una scelta secondo noi vincente, perché è difficile rimanere insensibili sotto il profilo del divertimento e della partecipazione alle continue commistioni di generi, culture e specialità artistiche che a partire dal recupero del repertorio musicale anni ottanta (su tutti gli hit di Anna Oxa reinterpretati dal personaggio di Luca Marinelli) e di una star della canzone  "popolare ed eclettica" come Renato Zero, finiscono per caratterizzare visivo, centrato sui continui riferimenti al manga giapponese che da il titolo al film. E, per non parlare poi, dei rimandi a quel tipo di commedia italiana che amava raccontarsi attraverso le maschere di un'umanità mostruosa e ferale, qui capitanata da cattivo (Lo zingaro) interpretato dal nuovo zelig del nostro cinema Luca Marinelli, impegnato in una versione trash del Brian Ferry dei Roxy Music, "Lo chiamavano Jeeg Robot" può contare inoltre anche sullo stupore sensuale e smarrito di Ilenia Pastorelli (un altro volto nuovo) nella parte della ragazza interrotta (Alessia) di cui Enzo si innamora e che lo aiuterà a trovare la sua strada. Blindato da una sceneggiatura pressoché perfetta, "Jeeg Robot" è talmente diverso da quello che il cinema ci ha abituato a vedere che solo per quello andrebbe premiato dalla scelta del pubblico.
(pubblicata su ondacinema.it)
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mercoledì, aprile 20, 2016

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI - CODICE 999

Codice 999
di John Hilcoat
con Chiwetel Ejiofor, Casey Affleck, Woody Harrelson, Kate Winslet
USA, 2016
genere, thriller, noir, poliziesco
durata, 125'


Che il cinema di genere e in particolare il noir sia diventato il palcoscenico ideale per mostrare gli scenari dell’universo criminale è un dato inoppugnabile. Una predilezione che nasce da lontano e che dipende in parte dalla natura ibrida della settima arte, in grado di mettere insieme il potere  afabulatorio del romanzo hard boiled con la visionarietà che gli deriva dalla costituzione preminentemente visiva delle sue opere. Di entrambe le cose si serve “Codice 999” per raccontare le vicende di un gruppo di agenti di polizia e di ex mercenari dell’esercito americano che nel loro percorso di quotidiana corruzione si trovano costretti a lavorare per conto della mafia Russia, decisa a venire in possesso di una preziosa documentazione tenuta in custodia dalle forze dell’ordine. Detto che le pressioni subite dall’organizzazione malavitosa unite alla difficoltà di portare a termine l’impresa mineranno alle basi la fratellanza instauratasi tra i vari membri del branco, scatenando una guerra che non risparmierà niente e nessuno, “Codice 999” conferma, sulla scia di “Lawless”, l’attitudine di John Hillcoat a cimentarsi con storie di uomini pronti a tutto pur di proteggere la vita delle persone amate. Così fa Michael Atwood (il Chiwetel Ejiofor di “12 anni schiavo) quando è obbligato a obbedire a Irina, la crudele zarina  (Kate Winslet mai cosi cattiva) che tiene in ostaggio il suo bambino, nel medesimo modo si comporta il detective cocainomane Jeffrey Allen nei confronti del collega e fratello Chris (un ottimo Casey Affleck) nel momento in cui questi si ritrova coinvolto nella spirale violenza generata dalla terribile dark lady.

Avendo in mano una sceneggiatura che mostra in maniera scoperta quelli che sono i canoni del genere, qui riassunti nel senso d’ineluttabilità che governa l’agire umano e nella vocazione autodistruttiva che segna anticipatamente e in senso negativo le relazioni tra i personaggi, Hilcott esalta queste caratteristiche con un montaggio che procede per accumulo, sommando una dopo l’altra le stazioni di un calvario in cui l’olocausto dei corpi si svolge all’interno di un orizzonte privo di redenzione e che però è in grado di regalare momenti di cinema al di sopra della media grazie a scene di guerriglia urbana come quella d'apertura che per epica e modo di girare ricorda il Michael Mann di “Heat – la sfida”, e in virtù di un maledettismo che ha il coraggio di sfiorare la maniera pur di mettere in scena personaggi come quello interpretato da Woody Harrelson che nella sua personale rivisitazione del cattivo tenente ferrariano si produce in un’altra performance da ricordare. 

Più nero della pece “Codice 999” non è esente da imperfezioni, imputabili ad una scrittura che pasticcia soprattutto quando si tratta di arrivare alla resa dei conti con l’espediente utilizzato da Atwood e soci per mettere a segno il colpo, raccontato in una maniera che risulterebbe confusa se non fosse che Hilcoat riesce a incamerare il tutto in una dimensione di precarietà in cui l'assenza di logica di certi passaggi più che un difetto sembra la conseguenza della mancanza di morale che attraversa il mondo dei protagonisti. 


martedì, aprile 19, 2016

EVENTI SPECIALI - POISON di Todd Haynes

Poison
di Todd Haynes
Scott Renderer, James Lyons, Edith Meeks, Millie White
USA, 1991
genere, drammatico, horror
durata, 85’



Con il successo dell’ultima opera - “Carol” - la Fondazione Cineteca Italiana a Milano ha programmato un omaggio al regista americano Todd Haynes, permettendo di visionarne l’intera e breve filmografia: appena sei lungometraggi distribuiti in venticinque anni di carriera. Nato a Encino, California, nel 1961, Haynes, dichiaratamente gay, ha sempre messo in scena storie dove la sessualità in qualche modo viene mostrata come affermazione di libertà in individui che affrontano una società repressiva e bigotta.
“Poison” è l’opera prima del regista, inedita in Italia e in anteprima assoluta, la cui sceneggiatura (scritta dallo stesso Haynes) è ispirata ai romanzi semi-autobiografici del controverso scrittore e commediografo francese Jean Genet. Il film si sviluppa su tre storie: la prima, “Hero”, parla di un bambino che uccide il padre e poi fugge volando dalla finestra (come afferma la madre testimone); nel secondo, “Horror”, un giovane scienziato sintetizza un elisir della sessualità umana che agisce sugli ormoni, che beve accidentalmente e lo trasforma in un mostro e untore, diffondendo la malattia in tutta la città, infettando anche la sua assistente innamoratasi di lui; “Homo”, ambientato nel mondo carcerario, dove un piccolo delinquente è attratto da un altro prigioniero che aveva visto umiliato in una struttura minorile in passato e da entrambi frequentata.
Film sperimentale e indipendente, all’epoca dell’uscita fu al centro di polemiche della destra conservatrice religiosoa americana per le forti immagini di omosessualità esplicita e per i temi della malattia trattata sotto tutte le sue forme (sociale, sessuale, morale), vincendo un premio al Festival di Berlino del 1991 e il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival dello stesso anno, e diventando uno dei manifesti del New Queer Cinema (a tematiche LGBT).


Già in questa opera prima, Haynes mette in scena tutte le tematiche che svilupperà in modo più completo ed espressivo nei film successivi: la malattia (“Safe”); l’ipocrisia di una società che vede il diverso come un alieno da soffocare e nascondere (“Velvet Goldmine”, “Lontano dal paradiso”, “Carol”); l’omosessualità vista come una malattia, un “cancro” da curare (“Lontano dal paradiso”); le convenzioni sociali che vedono la loro nascita e pilastro nella famiglia etero da salvaguardare a ogni costo (“Lontano dal paradiso”, “Carol”). Haynes svela i retroscena emotivi delle lotta dei personaggi per l’affermazione della propria libertà personale, giocando sulle emozioni trattenute, i sentimenti che scorrono sottotraccia come una corrente magmatica pronta a esplodere in qualsiasi momento, riuscendo sempre a controllare e centellinare la materia di cui vuole parlare, cercando di rendere quanto la cosiddetta “anormalità” sia solo negli occhi di chi guarda e nelle convenzioni di una comunità chiusa, impaurita, bloccata a ogni evoluzione sociale e culturale, dove la freddezza dei rapporti umani è regolata da leggi morali non scritte, ma applicate in una quotidianità solo in superficie linda e perfetta, immutabile e ripetitiva.
Del resto “Poison”, fin dal titolo, rivela in modo esplicito le tematiche sottese: il significato della parola in inglese vuol dire avvelenare, guastare, corrompere, intossicare, pervertire. Un “veleno” che viene disvelato sotto diverse forme. E anche la scelta estetica è interessante. Se “Hero” appare come un’inchiesta giornalistica televisiva, composta da interviste ai protagonisti della vicenda, e in particolare alla madre del bambino, disvelando le vere ragioni delle azioni del ragazzino che non vediamo mai, “Horror” invece è la sezione dove impera un bianco e nero (poco amato da Haynes che invece preferisce l’uso di palette di colori vari e caldi in modo espressivo) strutturato come un film di genere degli anni Sessanta e metafora esplicita dell’AIDS e della paura della malattia (e del malato), reso visibile dagli ascessi sui volti dei personaggi e dalla recitazione sopra le righe tipiche di quel genere di film di serie B. Mentre “Homo” è forse la parte più chiaramente debitrice alle opere di Genet, con un gusto teatrale della messa in scena e un utilizzo del colore più vicino al melodramma che fiorirà negli ultimi film come “Lontano dal paradiso” e “Carol”, ispirandosi al melodramma americano degli anni Cinquanta.

Le opere di Haynes hanno avuto una grande influenza su altri autori come Greg Araki e Gus Van Sant, mentre il regista americano in “Poison” resta debitore nei confronti di un certo tipo di cinema del passato, trasformandolo e traducendolo in modo originale (“Horror” a dire la verità è più debitore nei confronti di un certo cinema cronenberghiano che delle opere di Genet). Le tre parti sono messe in serie con un montaggio alternato che costruiscono un’opera non episodica, ma rapsodica, mutante, postmoderna, capace di imprimersi nella mente dello spettatore e svelando fin da subito il talento di un regista con uno sguardo originale e personale che ne fanno un autore a tutto tondo.

Antonio Pettierre

“Omaggio a Todd Haynes”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milanohttp://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/omaggio-a-todd-haynes/

lunedì, aprile 18, 2016

LES SOUVENIRS

Les Souvenirs
di Jean Paul Rouve
con Michele Blanc, Annie Cordy, Mathieu Spinosi
Francia, 2015
genere, commedia, drammatico
durata, 
E' ormai un ritornello ma non si può fare a meno di riperterlo. Perchè il cinema francese sbarcato in Italia con i film selezionati dalla rassegna "Rendez Vous" conferma la costante di un movimento capace di affrancarsi dai suoi mostri sacri con una serie di opere che fanno riescono a parlare del nostro tempo con una leggerezza che non penalizza la profondità dei temi affrontati. In "Les Souvenirs" di Jean-Paul Rouve, presentato in anteprima nell'ambito della manifestazione "Rendez Vous", a farla da padrone è il passato, con i ricordi di una vecchia signora a guidare i destini di una famiglia alla prese con i grandi cambiamenti della vita. Madelaine è infatti l'ottuagenaria protagonista di una storia che parte dalla decisione della famiglia di ricoverarla in una casa di riposo e che poi si sviluppa attraverso il confronto delle sua esistenza con quella del figlio,  (un grande Michel Blanc) incapace di affrontare le conseguenze del recente pensionamento e con la voglia di crescere dell'amato nipote, l'unico che sembra in grado di capirla veramente.
Sottolineato dai toni agrodolci di una scrittura che neanche nei momenti più drammatici rinuncia al sorriso e alla speranza, "Les Souvenirs" riesce a raccontare lo scorrere del tempo senza indugiare in facili malinconie ma anzi sconfiggendole con la voglia di vivere che scaturisce dalla ribellione dei protagonisti, tutti, nessuno escluso, decisi a reagire con fiducia ed energia alle difficoltà delle rispettive esistenze A fare la differenza in questo caso è però la varietà dei caratteri, chiamati a rinnovare la storia con l'eterogeneità dei punti di vista. Una coralità che il regista sfrutta attraverso una regia invisibile, capace di valorizzare la bravura degli attori e l'efficacia della scrittura. In Francia è stato un successo, in Italia deve ancora trovare un distributore.

TROIS SOUVENIRS DE MA JEUNESSE


Trois Souvenirs de me Jeunesse
di Arnaud Desplechin
con Mathieu Amalric, Quentin Dolmaire, Lou Roy-Lecollinet
Francia, 2015
genere, drammatico
durata,120'



La forza di un festival si vede soprattutto dalla qualità delle sezioni collaterali, quelle in cui gli organizzatori si lasciano andare a scelte meno istituzionali e più libere da logiche geopolitiche. Ecco allora che il giudizio buono ma non esaltante espresso dagli addetti ai lavori a proposito dell'edizione del festival di Cannes appena conclusa e basato, quasi esclusivamente sulla valutazione dei film del concorso ufficiale, è destinato a cambiare, qualora si dovesse tenere conto di opere e autori importanti, retrocessi con criterio imperscrutabile in posizioni di rincalzo. Un destino toccato in sorte ad affezionati frequentatori della kermesse francese come Apichapong Weerasethakul e Brillante Mendoza, un tempo osannati e imprescindibili e ora nascosti all'attenzione del grande pubblico. E condivisa dal beniamino della critica locale Arnaud Desplechin, regista francese, per la prima volta escluso dalla gara ufficiale e inserito nella Quinzane des Realisateurs con "Trois souvenirs de ma jeunesse", il film che ha il merito, tra le altre cose, di riportare in vita il personaggio di Paul Dedalus, già protagonista di "Comment Je Me Suis Disputé...(Ma Vie Sexuelle)", terzo lungometraggio del regista francese girato nel 1996.


Avendo il passo di un romanzo esistenziale, la storia del film è divisa in tre capitoli più un epilogo che, attraverso i ricordi giovanili del protagonista, nel frattempo rientrato in Francia dopo un lungo lavoro sul campo in qualità di antropologo, ricostruisce i momenti salienti di una biografia caratterizzata dagli studi universitari e dall'impegno politico - con il viaggio in Russia che diventa il modo per affermare attivamente la propria militanza - ma soprattutto dall'amore per la bella Esther, destinato a segnare nel bene e nel male l'esistenza dell'uomo che verrà.


Riassunto in questo modo "Trois souvenirs de ma jeunesse" farebbe pensare a un Desplechin più raccolto e dalle ambizioni meno esplicite, tenuto conto che, con la sola eccezione del "feticcio" Mathieu Amalric, scelto per interpretare la versione adulta di Paul Dedalus, la presenza di un cast di volti esordienti e sconosciuti, costituisce un'eccezione nella filmografia di un autore abituato a lavorare con il gotha attoriale del suo paese; e perché, fin dal principio, la componente autobiografia del regista, già trapelata con diversa valenza nei lavori precedenti, in questo caso diventa il motivo principale della storia, raccontata a ritroso attraverso le parole del narratore onnisciente che si inserisce sulle immagini del film per commentare le "avventure" del "giovane Werther" francese.



Al contrario, le avventure sentimentali del protagonista e del gruppo d'adolescenti nella Robauix degli anni ottanta - dove Dedalus e Despleshin sono nati e da cui si sono fuggiti-  diventano lo strumento per conoscere e circoscrivere le fonti di un'ispirazione che, nel caso del regista, procede in perfetta mimesi con una finzione filmica, utilizzata sia come espediente di intrattenimento - modellato su una struttura narrativa da racconto di formazione - sia, nei suoi passaggi più letterari, - imbevuti di una prosa romantica e poetica -, come legittimazione di un arte che è innanzitutto il mezzo per mettere in scena la protesta nei confronti delle promesse mancate: imputate innanzitutto alla famiglia (tradita dalla morte della madre e dominata da un padre lontano e violento) incapace di fare da riparo ai rovesci della vita e poi all'amore, con la figura dell'amata Esther, modello di femminilità che non sarebbe dispiaciuta al cuore di regista come Francois Truffaut, a rappresentare quella "grande bellezza" da cui discendendo la maggior parte dei rimpianti.


Piuttosto a confondere il giudizio su "Trois souvenirs de ma jeunesse" potrebbero essere le caratteristiche di una forma che appare più compatta e meno disposta a dare spazio alla nevrosi, pur presente nell'inquietudine di Esther e Paul ma "contenuta" all'interno di un dispositivo che replica in modo evidente gli stilemi di quella Nouvelle Vague, della quale il cinema di Desplechin è certamente debitore. E ancora la mancata distribuzione italiana delle prime opere del regista, che impedisce di riconoscere, tra le pieghe degli avvenimenti raccontati, le rimembranze di situazioni che ricordano opere di culto come "La Sentinelle" e appunto "Comment Je Me Suis Desputé...(Ma Vie Sexuelle)", richiamati per esempio nell'atmosfera cospirativa della scena in cui Dedalus, al suo ritorno in patria, viene fermato e interrogato dalla polizia che lo sospetta di essere una spia del governo Russo, e, più in generale, dalla dimensione di spaesamento, che qui come allora sembra in parte discendere dal tramonto delle utopie politiche, qui come allora, rappresentate dagli inserti che documentano la caduta del muro di Berlino, spartiacque di una generazione a cui il regista appartiene e che si è assunta il compito di testimoniare la crisi che ne è seguita. Meritevole di ben altra attenzione rispetto a quella ricevuta dal festival, "Trois souvenirs de ma jeunesse" è, per chi scrive, uno dei film migliori del regista francese; a testimonianza di un talento che è ancora lungi dall'aver esaurito le sue risorse.
(pubblicata su ondacinema.it)

domenica, aprile 17, 2016

LA FOTO DELLA SETTIMANA





























Il laureato di Mike Nichols, USA 1967

COME SALTANO I PESCI - INTERVISTA AD ALESSANDRO VALORI




Conoscere il proprio territorio d’origine ed ambientarvi una storia, utilizzarlo come set per una produzione in cui investire tutto. Quanto può influire l’amore per la propria terra in questo processo.
Ritornare nel proprio territorio, nel proprio paese, dopo essere partiti ed aver avuto esperienze in diverse parti del globo, è stimolante perché ti spinge, quasi inconsapevolmente, a vedere ciò che guardavi prima in un’ottica meno critica ma molto più empatica. Nel momento della partenza, quando le aspettative sono davvero alte per il proprio futuro, si pensa molto più in grande, ma tornare dove si ha messo radici per potervi ambientare un’opera è una possibilità da cogliere senza esitazioni.


Biagio Izzo, da maschera napoletana del comico a versatile professionista.
Biagio è stata una scommessa, presa e vinta da entrambi, proposta inizialmente dal casting director Stefano Rabbolini. Non appena mi è stata avanzata questa proposta l’ho subito colta al volo perché credevo davvero fosse una buona idea. Mi piace molto lavorare con gli attori, cambiare il loro registro solito perché molto spesso si hanno delle belle sorprese, proprio come nel caso di Izzo. In Italia c’è questa brutta tendenza ad etichettare e ghettizzare un interprete (tu fai commedie, continua su quella strada; tu film impegnati, non farai mai commedie) ed è una cosa assolutamente sbagliata perché gli attori sono una materia straordinaria che va messa alla prova di volta in volta, permettendo loro di restituire delle prove che spesso sono eccezionali, oltre a costruire personaggi con sfumature inaspettate sia per gli sceneggiatori che per i registi. Sono degli arricchimenti e delle piacevoli scoperte anche per noi.


La scoperta di un piccolo talento: Maria Paola Rosini. Com’è stato accettare questa sfida che in molti, probabilmente, avrebbero perso in partenza non accettandola.
Come saltano i pesci può essere considerato un po’ il film delle sfide, da come hai capito, ed anche questa come le precedenti è stata vinta. Maria Paola era l’incognita del film ma allo stesso tempo tenevo molto a questo personaggio poiché Giulia è anche una chiave di lettura della storia, uno sguardo particolare che indirizza di volta in volta i personaggi sulla retta via, specialmente quando sono preda dell’insicurezza, facendosi forza del proprio sguardo puro e diretto sulla vita. Per il suo ruolo ci siamo rivolti all’Anffas di Macerata e all’amico Marco Scarponi che ce l’ha segnalata dopo diversi casting e non appena ce l’ha presentata siamo rimasti affascinati dalla sua capacità recitativa. Una persona può sprizzare gioia e vivacità ma al contempo restare inespressiva e non rendere sullo schermo, lei invece si dimostra di fatto una bravissima interprete. Ti dimentichi completamente del suo cromosoma in più durante la visione ed il suo, all’interno della storia e dell’apparato filmico, è non solo una risorsa ma un arricchimento.

Il ruolo di linea comica delle due anziane, moire veglianti sul destino del protagonista.
Ecco esatto, hai detto bene. Io le chiamo le Sibille, perché esse sono parte della mia terra. Sono quelle figure che tramandavano la memoria storica del popolo, delle fate buone che allo stesso tempo rappresentano lo spirito della provincia intesa in senso ampio, rappresentante quindi tutte le provincie. Sono quelle che ti osservano, ti studiano e ti giudicano ma che sono anche capaci di aiutarti, accoglierti e accompagnarti nei momenti difficili, un valore aggiunto di grande efficacia, dalla cui assenza, spesso, dipende la solitudine.

Se ti dicessi “Chi nasce tondo…” tu come continueresti la frase.
Non muore quadrato (ride, ndr). Sono contento che tu me lo citi perché è un film che amo molto, che è stato anche molto apprezzato dal pubblico. Tratta di base di un tema sociale, la ricerca dell’identità, ma coinvolge anche figure come gli anziani, quella gran parte che si trova negli ospizi, spesso visti solamente come giudici, ma che in realtà sono molto più vitali e trasgressivi di noi.

Riuscire a girare in maniera indipendente è un’impresa.
Solitamente riesco a trovare lo stile connaturato ad ogni prodotto che ho realizzato. Sono convinto che per girare un bel film ci vogliano si i soldi necessari alla sua produzione ma soprattutto una storia, degli attori validi, una grande partecipazione della troupe ed onestà nel proprio mestiere. Se ci sono questi presupposti, usufruendo dei mezzi necessari, che sono molti meno di quelli che uno immagina, il prodotto arriverà al pubblico e questo risponderà positivamente.

In “Radio West” hai descritto il conflitto del Kosovo attraverso gli occhi di Taricone, filtrandone i contenuti con la partecipazione dei Bellocchio. Cosa ti hanno lasciato.
Pietro Taricone era al suo primo ruolo importante al cinema e la parte era stata pensata e cucita su di lui. L’ottimo lavoro di interpretazione da lui fatto in Radio West è affiancato dalla bravura di Kasia e Pier Giorgio (Bellocchio, ndr). All’epoca erano tutti esordienti e ora come allora mi ritrovo a pensare di amare il lavoro con i giovani talenti, perché sono loro quelli che riescono a dare un volto più credibile alle storie. Il cinema italiano gravita sempre attorno agli stessi attori, ai quali vengono affidate le stesse parti e spesso diventano più personaggio pubblico che interprete.

Parlare e risolvere, a parole come con le immagini. Non è il cinema, secondo te, luogo di eccellenza per affrontare problemi e aiutare a risolverli, una sorta di psicologo per immagini.
Non sono totalmente d’accordo, nel senso che sicuramente i film permettono una riflessione ma oltre a questa emozionano, affascinano. Attraverso l’emotività che traspare da questi riescono a suscitare nello spettatore delle sensazioni, dei pensieri, delle domande che in seguito lavorano autonomamente. Non penso che il cinema debba psicanalizzare il pubblico ma che, piuttosto, debba emozionare, dare spunti di riflessione, divertire, commuovere perché attraverso le emozioni riescono a passare anche pensieri e contenuti. Il cinema è una fruizione immediata, emotiva che però sappiamo essere la forma di comunicazione più forte e profonda che possa esistere. Le immagini, poi, lavorano nel subconscio che, rielaborandole, permette ad esse di avere delle sfumature differenti per ognuno di noi.

Quanto hanno influito le collaborazioni con Lina Wertmuller, Sergio Corbucci e i fratelli Taviani.
Fare l’aiuto regista mi ha insegnato il mestiere della regia. Essere regista non è solamente una questione creativa ma ha anche un aspetto più nascosto, artigianale e organizzativo, molto importante. Bisogna saper curare ogni aspetto, organizzare un gruppo di lavoro in grado di perseguire la tua visione. Occorre avere ben in mente l’orizzonte finale, poiché si ha in mano la visione globale e completa del film mentre ogni membro della troupe ne possiede una propria. Il regista deve saper intuire quanto sia l’apporto che ognuno di essi possa dare alla pellicola. Aiuto regia e regia sono due mestieri diversi, il primo più organizzativo del secondo. E’ stata un’esperienza importante perché mi ha dato padronanza della tecnica e stile organizzativo, in modo da permettermi di potermi meglio concentrare sull’immagine e la direzione degli attori.

L’importanza della distribuzione scolastica dei film, attualmente molto praticata.
Sicuramente è un valore aggiunto, un modo differente per far arrivare un lavoro che ha qualche qualità. Un modo per avere un confronto diretto con il pubblico che è importantissimo per un regista, poiché ti dà la risposta vera sulla riuscita di un film. E’ chiaro che la strategia distributiva è giocoforza e i film indipendenti vengono spesso schiacciati da major che non lasciano loro spazio e quindi si rende necessaria un'organizzazione differente. Il pubblico risponde perché c’è voglia di scegliere e questo rinnovamento riguarda le novità, non sempre le solite pellicole. La suddivisione indie/major è una divisione fittizia, spesso il cinema indipendente si è voluto identificare forzosamente con l’autoriale, dimenticando l’importanza dell’intrattenimento. Questo perché anche nei generi più bistrattati come la commedia all’italiana sono comparsi, spesso, personaggi tragici che altrove non avrebbero sfigurato.
Alessandro Sisti