lunedì, febbraio 29, 2016

ASTROSAMANTHA - LA DONNA DEI RECORD NELLO SPAZIO

Astrosamantha
di Gianluca Cerasola
con Samantha Cristoforetti
Italia, 2015
genere, documentario
durata, 83'



La felicità sul volto dei genitori nel giorno in cui i sogni dei propri figli verranno a coronarsi. Che sia il conseguimento di una laurea, il tanto atteso legame matrimoniale, la scoperta di una gravidanza, l’emozione di un progetto venuto a realizzarsi, questi attimi resteranno impressi nella memoria. Memoria che Gianluca Cerasola lascia imprimere direttamente nei bit del file digitale che costituisce l’ossatura di Astrosamantha, un piccolo trattato documentaristico sull’auto realizzazione di una donna, in primis, che ha perseguito il proprio sogno senza mai tradirlo, giungendo all’agognata meta, il viaggio spaziale. Quel viaggio che tutti noi, chi da bambino e chi in età adolescenziale, avremmo voluto avere, almeno una volta, la possibilità di intraprendere; la Cristoforetti ci conduce all’interno del proprio miraggio divenuto realtà, lasciandoci assaporare quei momenti di effimera gioia che sembra sfiorare anche la nostra pelle, sottoposta a costanti brividi durante le immagini provenienti direttamente dallo spazio, quando una terra lontanissima dai nostri abituali standard viene ripresa in tutto il suo immenso potere visivo, sia alla luce del giorno che al calare delle tenebre, lasciandoci immaginare la Cristoforetti ed il suo team in continua sospensione sulle nostre vite, aleggiante sulla nostra casa, mentre ci osserva con crescente curiosità prima di avviarsi alle proprie ricerche. Studi che dovrebbero essere il motivo scaturente della missione ma che, nella realtà documentaria costruita dal filmaker, vengono sostituiti dalla continua ricerca di meraviglia nello spettatore per i paesaggi extra-atmosferici messi in scena, dalla ricostruzione della vita nella stazione spaziale internazionale vissuta dal punto di vista di una novellina al primo volo, dalle costanti digressioni in flashback sulla preparazione degli astronauti alla missione ventura. 

Il torpore che potrebbe provenire da alcuni dialoghi viene smorzato dall’ironia, spesso involontaria, della cosmonauta italiana che, oltre a ricoprire con perfezione il ruolo della voce narrante – rimanendo molto più impressa del voice over di Giannini, fuori luogo e quasi più adatta ad un documentario naturalistico, si ritrova costretta nella narrazione a simpatiche digressioni sull’alimentazione a bordo, oltreché sull’analisi dei metodi di deiezione del gruppo di ricerca che, in altre mani, avrebbero sicuramente scaturito effetti di trash ai limiti del sopportabile. Il racconto è articolato a blocchi che sembrano scomparire, tanto abilmente montati, dietro la figura della Cristoforetti, sfuggente ad ogni tipo di idolatria o divismo, ma unica nel suo essere contemporaneamente professionale, al servizio del documentario e ricolma di gioia per l’occasione datale. Dietro alle interviste che si susseguono frenetiche sulle tv nazionali, ai comunicati stampa schermati dalle vetrate per la quarantena prima della partenza, si nasconde il volto di una ragazza solcato da rughe di esultanza spesso contenute a forza, pronte ad esplodere nel momento del lancio del razzo in direzione della stazione spaziale. Giochiamo con lei durante gli esperimenti preparatori, saltiamo insieme a lei nella sala priva di gravità, immaginiamo di levitare oltre le poltrone ed oltrepassare la linea dell’orizzonte che si profila ai limiti del globo terrestre, partecipando con lei di questo incredibile viaggio spaziale. 

L’accompagnamento musicale sembra suggerire un tappeto ideale sul quale scivolare solcando i continenti e le acque terrestri, trasmettendoci l’emotività di cui è prepotentemente impregnata quest’opera davvero originale; Cerasola non realizza un ritratto propagandistico, non ne fascistizza l’immagine ma ne esplora ogni lato emotivo, addentrandosi nell'intimità della donna-astronauta senza mai violarla apertamente. Il documentario diventa qui film, si miscela nelle forme e negli intenti, emoziona al pari di un opera volutamente finzionale, turbando anche gli animi più irremovibili nella loro durezza, trasportando anch'essi nel toccante sogno di ogni bambino. Anche io, da grande, volevo essere un astronauta, Samantha e Cerasola hanno realizzato questo nostro capriccio.
Alessandro Sisti

SHORT TERM 12

Short Term 12
d Destin Cretton
con Brie Larson, John Gallegher Jr, Rami Malek
USA, 2013
genere, drammatico
durata, 97'


Quasi 10 minuti di applausi e pubblico tutto in piedi per celebrare l'impresa di Destin Cretton, giovane regista americano che ha provocato l'emozione più grande in un concorso iniziato un po' in sordina. Per farlo Cretton si è affidato a un cast di attori pressoché sconosciuti e a una storia di disagio giovanile; un po' dalle parti di Gus Van Sant e dei suoi "ragazzi perduti", un po' in quelle di certo cinema indipendente che utilizza la macchina da presa per sondare i lati oscuri del paesaggio americano. Per non lasciarsi confondere e per meglio tratteggiare i caratteri universali della sua vicenda "Short Terms 12" si colloca lontano dalla metropoli, in un luogo imprecisato e definito più che altro dalla casa famiglia da cui il film prende il titolo, in cui Grace e il fidanzato si prendono cura degli adolescenti che entrano nell'istituto per cercare di sconfiggere il malessere che li divora, nel tentativo di rimetterli sulle frequenze del mondo dal quale voglio scappare. Una vita quotidiana senza un attimo di tregua, espressa attraverso un flusso emotivo che non prevede vie di mezzo: la gioia così come il dolore sono facce della stessa medaglia che Grace (Brie Larson) affronta facendo i conti con un passato non dissimile da quello dei suoi giovani pazienti. L'arrivo di Jayden, quattordicenne scontrosa ma piena di talento lo farà riemergere in maniera drammatica e con sviluppi sconvolgenti. 


Il soggetto che Cretton porta sullo schermo è di per sé incandescente e difficile da raccontare, perché il dolore di un'adolescenza maltrattata e ferita, pur nella sua bruciante attualità, continua ad essere oggetto di facile retorica e di una condivisione che sfocia spesso in un paternalismo che non lascia traccia. Qui, invece, a discapito di un intreccio convenzionale, incentrato sull'interazione di un gruppo di persone che cerca di convivere in un'armonia delegittimata da una serie di non detti che pesano come macigni (abusi, abbandono, indifferenza, senso di colpa, inadeguatezza) riesce ad emergere con sorprendente verità il crogiolo di opposte pulsioni che squarcia l'esistenza di un'umanità "interrotta". Cretton con sorprendente finezza psicologica e senza mai calcare la mano nella resa di situazioni che altrove, pensiamo al cinema di Larry Clark ("Marfa Girl", 2012) ma non solo, diventerebbero oggetto di ossessione voyeuristica, riesce a farci sentire la violenza e l'afflizione dei protagonisti in una continua alternanza di stati d'animo e di tensione che i volti degli attori sono capaci di esprimere senza proferir parola. Immerso in una luce delicata e a tratti crepuscolare, girato con stile controllato ma in grado di lasciare spazio ad un'improvvisazione evidente nei continui aggiustamenti della macchina da presa sulla natura recalcitrante e sfuggente dei personaggi, "Short Term 12" compie il suo capolavoro quando dimentica di essere cinema ed inizia a respirare con i battiti dell'esistenza.

Un processo non facile che Cretton riesce a realizzare guardando il mondo con gli occhi dei suoi personaggi, evitanto di scadere nell'accondiscendenza o peggio ancora nella facile sociologia. Un mix di equilibrio e spontaneità che deve molto all'immedesimazione di Brie Larson, da questo momento favorita per il premio come migliore attrice e perfetta nel delineare la lotta interiore di Grace, eroina di un quotidiano faticoso e logorante, in un'altalena di felicità e disperazione. Sviluppato dall'omonimo corto realizzato nel 2009 e vincitore del premio della giuria al Sundance Film Festival, "Short Term 12" è fortemente candidato alla vittoria finale. Al di là di ciò, speriamo lo si possa vedere presto anche in Italia.
pubblicata su ondacinema.it

domenica, febbraio 28, 2016

LA FOTO DELLA SETTIMANA








Brooklyn di John Crowley, USA 2015

GODS OF EGYPT

Gods of Egypt
di Alex Proyas
con Gerard Butler, Nicolaj Coster-Waldau, Abbey Lee, Courtney Eaton
USA, 2016
genere: Avventura
durata: 100'




Ambizione, eroismo, magia e mitologia convergono in questa straordinaria avventura, diretta da Alex Proyas. Una vicenda spettacolare, un film che riesce a tenere incollato lo spettatore alla poltrona sia per la sua componente action, sia per i suoi formidabili effetti speciali.

Le ambientazioni, i costumi, la musica e la mitologia vengono curate nei minimi particolari, con palazzi sfarzosi, monumenti celebrativi, piramidi e vestiti molto decorati che immergono lo spettatore in un'atmosfera che ricorda molto l’Egitto dei faraoni. Per quanto riguarda l’interpretazione, il cast riesce ad immedesimarsi abbastanza bene nei personaggi, mostrandoci degli dei caratterizzati da vizi e virtù del tutto umane, a partire da Gerard Butler, interprete dello spietato Seth, il dio del caos nella mitologia egizia e una delle maggiori divinità del periodo Predinastico, con la funzione di benigna divinità dei morti. L’attore, di origini scozzesi, appare nelle vesti di un perfido tiranno, mosso dal solo desiderio di rivincita nei confronti del fratello Osiride: vuole governare tutto il creato e vendicandosi del flagello che gli è stato inflitto da Ra, che gli ha tolto la possibilità di procreare, poichè il suo destino sarebbe stato quello di combattere contro il gigantesco demone Apofis per il resto dei suoi giorni.
Tra i molti aspetti positivi, in "Gods of Egypt", però, si notano anche piccole falle. Per esempio, la tradizione mitologica non sempre viene riportata fedelmente: l’enigma della sfinge è stato completamente stravolto. Ma questi sono elementi che si possono anche trascurare, se non si è esperti in materia. Il finale abbastanza scontato, con un lieto fine abbastanza superficiale e forzato ed è troppo simile a "Prince of Persia".
Tralasciati questi piccoli punti a sfavore, "Gods of Egypt" resta comunque un buon film, in cui azione, magia e avventura riescono a combinarsi perfettamente, dando vita a una pellicola emozionante e gradevole.
Lo spietato Dio delle Tenebre, Set, ha usurpato il trono facendo precipitare nel caos l'impero, un tempo pacifico e prospero. La sopravvivenza del genere umano è in pericolo ma un uomo eroico, chiederà aiuto al potente dio Horus, e intraprenderà un viaggio per salvare il mondo e il suo grande amore. Un'epica battaglia contro Set e i suoi seguaci porterà dei e mortali nell'oltretomba mettendo a dura prova il loro coraggio.
Riccardo Supino

sabato, febbraio 27, 2016

GOOD KILL






Good Kill
di Andrew Niccol
con Ethan Hawke, January Jones, Zoe Kravitz
Usa, 2014
genere, drammatico
durata, 105'


Non è la prima volta che Andrew Niccol si occupa di guerra. La prima volta lo aveva fatto in modo indiretto, attraverso la storia del trafficante di armi Yuri Orlov, interpretato da Nicolas Cage in “The Lord of The War”. Nella seconda invece, il tema bellico ritrova gli scenari che gli sono più consoni, collocandosi dalle parti di quel conflitto afghano che, con molte polemiche, era stato il teatro d’azione del cecchino americano raccontato da Clint Eastwood in “American Sniper”. Il paragone, evidente in superficie, si lega però a significati più profondi e in particolare alla similitudine di un punto di vista che in ambedue i casi racconta non solo le pulsioni di morte e l’abbrutimento dell’essere umano ma anche la dimensione d’isolamento e il connubio uomo macchina (già esplorato da film come “Belva di guerra” e “Lebanon”) proporzionali al livello di specializzazioni delle parti in causa. Alla pari di Kris Kyle, il militare dei Navy Seals che combatte in nemico secondo procedure che lo distinguono dagli altri commilitoni, il Tom Egan di “Good Kill” - interpretato da un monolitico Ethan Hawke - non appartiene alla schiera dei top gun che abbiamo conosciuto nei film hollywoodiani. Egan è infatti è un pilota di Droni, ovvero di quei vettori comandati da terra e impiegati in zone distanti anche migliaia di chilometri rispetto al punto di controllo. Come Kris Kyle anche Egan ha una famiglia e una moglie costretta a sopportare le conseguenze di un lavoro che rende dipendenti.


Ma le differenze con il film di Eastwood si fermano qui poichè Niccol - regista che nel tempo è riuscito a conciliare la pratica dei generi con la creatività di uno sguardo fortemente personale - occupandosi di un tema che ha diviso l’opinione pubblica – per le vittime civili provocate dallo spregiudicato utilizzo dei droni - crea le premesse di un’analisi che di fatto non riesce mai a partire. Un po’ perchè Niccol inserisce la materia del suo film all’interno di una struttura fortemente schematica e risolta nella dialettica tra gli aspetti pubblici della vicenda, quelli legati allo stress di un lavoro di per sè alienate, e quelli privati, occupati dalla crisi matrimoniale che sono la diretta conseguenza dell'incarico svolto dal protagonista. Un po’ perché tale cornice fa da sfondo a un tessuto altamente convenzionale nella definizione del personaggi; con Egan, la cui alienazione è resa azzerando qualsiasi espressività e secondo una discesa agli inferi che sa di manuale; e con sua moglie Megan, ultima di una serie di bionde mozzafiato che il cinema di Niccol non ha mancato di valorizzare e che però in questo caso viene utilizzata in maniera strumentale e didascalica, rappresentando semplicemente un espediente per far sapere allo spettatore quali siano i pensieri del laconico protagonista, conosciuti dalla spettatore attraverso le risposte che il protagonista è costretto a fornire alla donna.

Scelte che spingono fuori campo le questioni legate all' impiego dei droni e alla salvaguardia dei diritti umani, sostituite da un bignami di pro e contro, in cui le rivendicazioni dei militari fascisti e guerrafondai si contrappongono equamente alla correttezza politica dei loro oppositori. E che poi, cosa più grave, lasciano spazio a un'ambiguità di fondo rimarcata dal malessere di Egan, attribuito non alla crisi di coscienza per le morti che ha provocato quanto piuttosto al non aver potuto compiere le proprie “imprese” a bordo di un normale velivolo da caccia. Una pecca di cui si deve essere accorto anche Niccol se è vero che, nel finale, il film tenta di rimediare con una sequenza di giustizia sommaria così posticcia da aumentare il senso di irrisolutezza dell’intera operazione.

venerdì, febbraio 26, 2016

IL CLUB

Il Club
di Pablo Larrain
con Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic, Alejandro Sieveking
Cile, 2015
durata, 98’


È ormai palese ai più come l’istituzione Chiesa non solo sia inefficace nel rimuovere le presunte mele marce dalle proprie gerarchie ma di come queste vengano protette da una estesa rete organizzata ed iper-omertosa. Se dunque con “Il caso spotlight” la ricostruzione degli episodi di cronaca faceva evincere il fatto che parlare di casi isolati – si sta parlando, ovviamente, della piaga dei preti pedofili – fosse uno sminuire pericolosamente il problema, ne “El Club” l’argomento viene trattato in maniera totalmente diversa nonostante il regista non sia dimentico di ciò di cui parlavamo poche righe fa.

In una casa, in Cile, vivono in ritiro quattro preti sconsacrati  accuditi da una suora; all’arrivo di padre Lazcano seguirà quello di un uomo, Sandokan, che da fanciullo era stato vittima proprio del neo-arrivato. La rappresentazione della vita segreta/isolata ma protetta dagli ordini superiori, quindi, da un lato richiama appunto all’omertà del mondo ecclesiastico che procede in maniera diametralmente inversa a ciò che sarebbe invece ragionevole fare, dall’altro – ed è questa la vera forza del film – permette al regista di rappresentare i peccatori come una sorta di setta composta da uomini incessantemente lussuriosi e quindi quanto mai lungi dal pentimento come postulato fondamentale dell’uomo di fede nella visione cattolica. Non trovando spazio all’interno dei personaggi, dunque, la colpa si trasfigura nel personaggio di Sandokan, presenza reale ma che i protagonisti – e parallelamente chi guarda – avvertono come fosse un fantasma pronto a far riemergere ciò che la ragione ha taciuto.

Attraverso trovate visive che tendono a lasciare soli e senza scampo i personaggi – si pensi ad esempio dell’assenza di classici controcampi a favore di inquadrature frontali – Pablo Larrain costringe i propri caratteri al confronto diretto con la pena da cui volevano fuggire senza lasciargli scampo.
Antonio Romagnoli

mercoledì, febbraio 24, 2016

ANOMALISA

Anomalisa,
di Charlie Kaufman e Duke Johnson
con David Thewlis, Jennifer Jason Leigh, Tom Noonan
Usa, 2015
genere, animazione
durata, 90’

Analizzare un sentimento complesso come l’amore è uno dei momenti più delicati nella stesura di una sceneggiatura, spesso preda di cliché e banalità che ne annullano ogni effetto emotivo, scadente non di rado nel più becero romanticismo fine a se stesso. Toppare su un elemento di tale portata determina la repentina destrutturazione dell’intera verosimiglianza del racconto e provoca un effetto domino tale da sortire l’effetto inverso alla volontà iniziale degli autori. Kaufman è uno di quei pochi, raffinati interpreti di un certo modo di scrivere cinema che, in punta di penna, tenta di riscrivere la storia di questo sentimento nella rappresentazione cinematografica contemporanea, rifuggendo svolgimenti melensi e ovvi, preferendovi una narrazione ricca di spunti e mai autoconclusiva, che permetta allo spettatore di mantenere il cervello attivo nella visione, lasciandogli la facoltà di ricostruire o meno gli eventi rappresentati. Sin dall’apprezzatissimo Eternal sunshine of the spotless mind, Kaufman ha dimostrato di avere la rara abilità di poter affrontare, senza peli sulla lingua ed allo stesso tempo con una dolcezza senza pari, il valzer del corteggiamento, dell’innamoramento e le successive fasi di questo benessere/malessere in maniera non trita, alterando il normale flusso narrativo in una continua lotta emotiva interna sia ai protagonisti che allo spettatore. 



Chiunque abbia vissuto una storia d’amore intensa, giunta ormai al suo culmine, potrà immedesimarsi nelle vicissitudini che accadranno a Michael. Ogni relazione giunge al suo apice per poi stabilizzarsi su livelli di normalità quasi annichilente, opprimente per molti che spesso, nel viverla in queste condizioni, avvertono il bisogno di dare una sterzata alle stesse. Giustamente o errando non ci è dato saperlo, perché lo sguardo di Kaufman non è moraleggiante; il regista-autore lascia fluire gli eventi non intervenendo in alcuna maniera su di essi, non mostrando il proprio punto di vista, pur evincibile dall’atmosfera cupa ed ossessiva con la quale confeziona tale opera. La storia si apre programmaticamente con il movimento di macchina che sarà la cifra stilistica dell’intero film, quel piano sequenza in cui la camera carrella dall’esterno all’interno del velivolo in cui viaggia il protagonista. Michael continua il suo viaggio verso il cambiamento in taxi, lasciando riecheggiare nello sfondo eventi collaterali Manniani e corse notturne di stregonesca memoria così care all’horror nostrano, per poi approdare nell’albergo in cui gli occhi dell’uomo torneranno nuovamente a brillare. Il corridoio da attraversare per giungere all’agognato, soave e melodioso suono che sembra così diverso dalle voci udite in precedenza, è talmente lungo da sembrare infinito; illuminato fotograficamente in modo ineccepibile è un preambolo alla scoperta della possibilità di poter tornare ad amare. Kaufman amalgama le voci di tutti i personaggi incontrati dal protagonista e le fa doppiare ad un unico attore (indistintamente per caratteri maschili e femminili), permettendo alle corde vocali di Lisa di vibrare e produrre una melodia, piuttosto che un discorso, lasciando scivolare alle spalle di Michael il torpore emotivo in cui stava vivendo e dandogli una scossa violenta, inaspettata, ormai inattesa. 

Lisa è l’emozione che mancava da tempo, il brivido assente dalla sua pelle, il battito di un cuore ormai assopito, il collante che gli permetterà di tenere uniti i cocci di una intera esistenza (ben rappresentata dalle crepe che si affastellano sul volto dell’uomo che, in uno dei momenti più riusciti, sembra sul punto di prorompere in una pioggia di emozioni). Anomalisa è in grado di toccare corde dell’animo umano che altri film con attori in carne ed ossa e, potenzialmente più espressivi di modellini per stop-motion, non sono in grado di smuovere. L’insicurezza di Lisa e la sua titubanza iniziale vengono meno nella scena di sesso più dolce e delicata che si possa ricordare, dove la camera si allontana dal letto quasi con pudore, lasciando l’intimità ai due amanti. Anomalisa è un anomalia esso stesso, un particolarissimo gioiellino che si avvicina al capolavoro, senza mai volerlo rivendicare platealmente, ma culminante in un finale di rara cupezza ed ansietà.
Alessandro Sisti

martedì, febbraio 23, 2016

ONDA SU ONDA

Onda su onda
di Rocco Papaleo
con Alessandro Gassmann, Rocco Papaleo, Massimiliano Gallo
italia, 2015
genere, commedia
durata,




Che si svolga sulla terra ferma, com'è accaduto in talune occasioni, o che si avventuri oltreoceano, come succede nel suo ultimo lavoro, il cinema di Rocco Papaleo assegna al mare una funzione narrativa importante, declinata, a seconda dei casi, quale elemento del paesaggio destinato a influenzare le scelte di personaggi, ispirati all'azione in virtù della sua sola presenza o come luogo dell'anima, compartecipe nel definire l'escalation emozionale proposto dal copione. Così capitava sia in "Basilicata Coast to Coast" in cui le indicazioni idrografiche riferite nel  titolo servivano a dare corso al sogno di una vita, misurato nella distanza - da costa a costa - coperta dalla band per arrivare nella sede del concorso musicale, sia in "Una piccola impresa meridionale" in cui la marina antistante al faro in disuso diventava la custode del segreto che affliggeva il tormentato protagonista. Giunto al suo terzo lungometraggio il regista lungi dall'invertire la tendenza ne rincara la dose allorché la distesa oceanica che separa l'Italia dal Sud America oltre a presentare le caratteristiche appena elencate non è più uno spazio lambito dalle esistenze dei personaggi ma ne diventa parte integrante per il fatto di essere l'unica opzione possibile per raggiungere Montevideo, sulla cui rotta è diretta la nave mercantile a bordo della quale si incontrano Gegè, cantante in disarmo determinato a non lasciarsi sfuggire l'occasione di guadagnarsi l'ingaggio del concerto che ne sancirà l'addio dalle scene e Ruggero, il cuoco dell'equipaggio che dopo aver rinunciato a qualsiasi tipo di socialità guarda il mondo dall'oblò della sua cabina.



Detto che la trama del film si divide in due parti, con la seconda d'ambientazione cittadina incentrata sugli sviluppi di un sodalizio destinato a consolidarsi in ragione dell'accordo che spingerà Ruggero a recitare la parte dell'amico, presentandosi a Gilda Mandarino nelle vesti del cantante che la donna stava aspettando per completare l'allestimento dell'evento, "Onda su onda" alcuni dei temi prediletti dal regista a cominciare dalla presenza del viaggio, inteso sia come espediente utile alla progressione narrativa e, in un'accezione squisitamente intima, quale sintomo di un ‘inquietudine che nei film di Papaleo è sempre il preludio di un qualche tipo di cambiamento e di rinascita. Seguito ma solo per motivi di trascrizione da quello dell'amicizia, a differenza di altre occasioni proposto al di fuori di relazioni collettive e individuato nelle differenze - fisiognomiche e caratteriali- di due interpreti (lo stesso Papaleo e  un ottimo Alessandro Gassmann) tanto distanti quanto ineccepibili nel dare forma e pure sostanza agli stilemi di un buddy movie all'italiana che prende quota nella capacità degli interpreti di mescolare dramma e commedia con depistaggi come quelli che vediamo nella sezione finale in cui amore e morte si danno continuamente il cambio restituendo il senso di sconfitta e di ineluttabilità di cui la storia è impregnata con malinconica leggerezza. Un valore che "Onda su onda" in parte spreca con momenti in cui i toni farseschi e caricaturali dei leit motiv rappresentati dagli inserti musicali dell'orchestrina che accompagna Gegè e dagli scketch di Massimiliano Gallo nel ruolo di un comandante della nave in crisi d'autostima rappresentano dei diversivi troppo scontati per risultare divertenti.
pubblicato su ondacinema.it
                

domenica, febbraio 21, 2016

LA FOTO DELLA SETTIMANA




















Rocky II di Sylvester Stallone, USA 1979

APPUNTI DI REGIA A MARGINE DE IL CASO SPOTLIGHT



Tra i film d’inchiesta che affollano il cinema americano contemporaneo, “Il caso Spotlight” rappresenta un’eccezione non solo per come tratta la materia sul piano tematico ma anche per come questo discorso trasli verso le modalità della messinscena. 

A cominciare dalla dinamicità del montaggio, questa a propria volta favorita anche dalla minuzia con cui sono stati stati curati gli eventuali movimenti della m.d.p., McCarthy riesce a mettere insieme un complesso visivo tutt’altro che scontato – si noti, ad esempio, i personaggi impegnati nell’inchiesta quasi sempre raggruppati nella stessa inquadratura, mentre nei dialoghi con gli antagonisti la regia torna a naturalizzarsi con inquadrature di quinta montate col classico campo/contro-campo. 

A rendere efficace la resa visiva in ultimo – da non sottovalutare, a tal proposito, il lavoro del reparto fotografico, con una luce mai troppo anonima né troppo invadente – va sottolineata l’eccezionalità dello script che, oltre a dare sostegno ritmico all’intero impianto, grazie all’accurata caratterizzazione dei personaggi permette anche agli attori di contribuire non poco alla riuscita degli intenti del regista, su tutti uno straordinario Mark Ruffalo.
Antonio Romagnoli

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI - FUOCOAMMARE

Fuocoammare
di Gianfranco Rosi
Italia, 2016
genere, documentario
durata, 107'


Se il cinema documentario, per  struttura e competenza, è più di altri predisposto a radiografare lo svolgersi del reale, questo non vuol dire che esso stesso non corra i rischi connessi al fatto di sovrapporsi all’ufficialità dei fatti, e quindi da un lato, di confermare il già detto con le inevitabili dosi di retorica che tale scelta comporta o, al contrario, di darne una versione talmente alternativa da costituire un ostacolo alla sua divulgazione. Per questo motivo non deve essere stato facile per Gianfranco Rosi trovare la chiave adatta a raccontare quello che sta accadendo in questi anni a Lampedusa, l’isola siciliana al centro delle cronache per essere diventata l’approdo del flusso migratorio proveniente dal continente africano. E qui non parliamo del resoconto nudo e crudo della catena umanitaria che dal primo soccorso alla sistemazione dei clandestini nei campi d’accoglienza costituisce la parte più scontata   di un film come “Fuocoammare”.


Il nodo della questione riguardava una capacità di sguardo in grado di mettere lo spettatore nelle condizioni di essere parte in causa, oltrechè testimone, dei fatti raccontati. Si trattava quindi di trasformare l’informazione in qualcosa di più profondo e duraturo, capace di rimanere impresso nel cuore delle persone. Per farlo Rosi adotta un racconto a doppio binario che pone in parallelo l’esistenza degli immigrati sbarcati a Lampedusa con quella degli abitanti dell’isola siciliana. Una scelta non casuale perché mantenendo separati i due filoni narrativi e facendo del montaggio - secco ed ellittico – l’anello di congiunzione tra due universi distinti e separati, il regista riesce ad evocare l’indifferenza del mondo occidentale, resa concreta dalla mancanza di contatti tra le diverse comunità ed enfatizzata in ragione di un’unità di luogo che paradossalmente non produce alcuna familiarità tra gli uni e gli altri, e, al contempo, a costruire un contro canto ora poetico, ora drammatico, che si alimenta del continuo scarto tra  la vitalità giocosa e spensierata del piccolo Samuele – uno scugnizzo che sarebbe piaciuto a De Sica e a Truffaut – inseguito dalla telecamera nelle sue escursioni da un capo all’altro dell’isola, e gli sguardi smarriti e sofferti dei profughi in attesa del destino che si sta per compiere.


Adottando un impianto formale che arriva al senso di ciò che vuole esprimere nella commistione tra gli elementi del paesaggio e la coralità dei personaggi, colti, come già aveva fatto “Sacro G.R.A.”, all’interno di uno spazio concentrato e periferico, “Fuocoammare” riesce nell’impresa di suscitare il riso e il pianto, producendo immagini come quelle che dei corpi senza vita all’interno dei barconi o del pianto di madri che forse non sono più tali con cui siamo costretti a fare i conti. In concorso al sessantaseiesimo festival di Berlino il film di Francesco Rosi è tra i più seri pretendenti alla vittoria finale. 

sabato, febbraio 20, 2016

THE DANISH GIRL

The Danish Girl
di Tom Hooper
con Eddie Redmayne, Amber Heard, Alicia Vikander, Matthias Schoenaerts
UK, USA 2015
genere, biografico
durata, 120'


Pittore paesaggista della Danimarca dei primi anni del '900, Einar Wegener ha vissuto due vite, la prima con una moglie a Copenhagen, e la seconda a Parigi come Lili Elbe. Infine ha tentato la prima operazione chirurgica della storia finalizzata al cambio di sesso. Attratto dall'abbigliamento femminile dopo un gioco erotico con la moglie e sempre meno capace di smettere di vestirsi e atteggiarsi da donna, nel corso degli anni Einar vuole lasciare il posto a Lili, che percepisce come un'entità separata. Aiutato e supportato da una moglie da cui è sempre meno attratto, Einar fugge dalla medicina del proprio tempo che lo vuole internare o dichiarare schizofrenico e si rifugia nella chirurgia sperimentale, conscio che quella che intende provare è un'operazione mai tentata prima e che, dunque, comporta grossi rischi.

Con "The Danish Girl" l’inglese Tom Hooper prosegue un’indagine cominciata con "Il discorso del Re": l’esplorazione di un corpo bloccato. Nel film con Colin Firth il problema riguardava la parola, martoriata e svilita da continue esitazioni e interruzioni. Qui l’impasse compromette invece il corpo intero, che diventa recipiente di un’anima che lo rifiuta. Non si combatte per gli ideali della gloriosa Comune di Parigi, ma per l’affermazione di un’identità sessuale. Jean Valjeant e Javert di "Les Misérables" hanno abbandonato la scena, per far posto a Lili Elbe, la prima persona nella storia a essere identificata come transessuale e ad aver tentato un intervento chirurgico. La sua vicenda è conosciuta ma non abbastanza e nell’affrontarla e raccontarla, adattando l’omonimo romanzo di David Ebershoff, Hooper si prende alcune licenze e addirittura la reinterpreta, adattandola al suo cinema garbato.
Senza la pretesa di edulcorare una vicenda che non può non sembrare amara o indigesta a chi ancora guarda con sospetto ai transgender, il regista non intraprende nessuna crociata contro il pregiudizio, né si mette sulla facile via della trasgressione creando, per esempio, un personaggio principale esibizionista ed eccentrico oppure eroico. Tom Hooper sceglie consapevolmente di non osare, fatto, questo, certamente encomiabile, anche se,talvolta, l'impressione è che la sua visione resti in superficie.



Attento a cambiare le tonalità del film a seconda dell’ambientazione scelta, colori freddi e linee geometriche e maschili nella parte che si volge a Copenhagen e caldi nel segmento parigino, il regista non sempre tiene vivo il fuoco della passione, abbandonando a se stessa la sua sensibile donna incastrata nel corpo di un uomo. Più di Lili, lascia il segno la sua compagna di vita: la pittrice Gerda Wegener, artista volitiva, forte, emancipata. E’ lei il personaggio più interessante del film e quello che veramente evolve e che lascia perciò un’indelebile impronta. Allo stesso modo, è Alicia Vikander più di Redmayne a meritare incondizionati complimenti, perché questa attrice minuta che ha sorpreso tutti in "Ex Machina", diventa davvero un gigante quando si avvicina alla disgraziata consorte dello sconsolato Einar.
Nei suoi occhi il ghiaccio del film si scioglie, vinto dal calore del sentimento che, nonostante tutto, Hooper riesce a rappresentare benissimo: l’amore, conditio sine qua non perché l’individuo compia il grande passo, trovando, prima o poi, la propria personalità più intima.


Detto questo, ci sentiamo in dovere di precisare che, secondo noi, "The Danish Girl" non è il frutto di una mancanza di coraggio, basti pensare alla scena di nudo, in cui il regista dimostra di saper essere diretto ed esplicito: semplicemente, il suo film preferisce indugiare sulle sfumature e sulla contemplazione di una femminilità che coincide con la grazia e che si esprime nel sorriso, nei movimenti impercettibili del capo, in due mani lunghe e affusolate che si poggiano su un viso e lo incorniciano. Questi piccoli gesti sono affidati al prodigioso Eddie Redmayne, così pieno di energia ne "La teoria del tutto" e qui alle prese con una creatura smarrita e capricciosa, e poi sempre più determinata. La sua bravura è indubbia, come la sua aderenza alle motivazioni interiori di Lili, ma la sua performance tradisce una certa affettazione, a cui contribuisce anche una fotografia certamente curata, ma inutilmente patinata.
Riccardo Supino

giovedì, febbraio 18, 2016

IL CASO SPOTLIGHT

Il caso spotlight
di Tom McCarthy
con Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel Mc Adams, Liev Schrieber, Stanley Tucci
USA, 2015
genere, drammatico
durata, 129'

Dal momento della sua uscita nelle sale americane Tutti gli uomini del presidente di Alan J Pakula è diventato non solo uno dei film più famosi del cosiddetto nuovo cinema americano ma anche quello con cui fare i conti ogni qualvolta il cinema ha deciso di raccontare gli aspetti più militanti del giornalismo d’inchiesta. Sebbene culturalmente distante dal film di Pakula per i cambiamenti che il giornalismo ha subito con l’entrata in scena d’internet e le conseguenze della crisi finanziaria, almeno dal punto di vista drammaturgico e in parte nella sua costruzione narrativa Il caso Spotlight può dirsi figlio del celebre modello.

Il fatti che stanno al centro della storia raccontata da McCarthy sono di quelli capaci di cambiare il volto di un paese e non solo perché Il caso Spotlight fa riferimento al team di giornalisti del Boston Globe -  soprannominato Spotlight - che nel 2002 denunciò la chiesa cattolica per aver coperto i reati di pedofilia commessi da oltre 70 prelati a seguito di una delicata e complessa indagine giornalistica che valse a chi la scrisse la vittoria del premio Pulitzer.


Alle prese con una storia tanto indicibile, per i risvolti che il ricordo dell’accaduto poteva provocare su chi ne era stato vittima, quanto rischiosa, per la retorica e il vojerismo a cui un soggetto del genere inevitabilmente si prestava, McCarthy recupera la visione d’insieme che era stata del lungometraggio di Pakula, con la differenza che il determinismo e la fiducia nelle possibilità della macchina investigativa messa in piedi da Bob Woodward / Robert Redford  e Carl Bernstein / Dustin Hoffman vengono parzialmente sostituite dalla componente irrazionale che scaturisce dal confronto di caratteri proposto da McCharty e quindi dalle diverse reazioni collegate al temperamento e al modus operandi dei giornalisti coinvolti nel caso. 

In questa maniera, accanto al resoconto giornalistico, ricostruito con il rigore e l’asciuttezza proprie del cinema documentario, a guadagnare terreno è una dimensione più intima e personale che inizialmente scaturisce dalle testimonianze delle vittime e che poi prosegue e prende quota con la scoperta dei meccanismi di collusione architettati dalle istituzioni ecclesiastiche e cittadine per coprire gli autori del misfatto. McCharty evita la visione diretta dell’orrore lasciando che il dolore e la denuncia emergano attraverso le parole di chi ne è stato perseguitato e dai sussulti emotivi degli uomini impegnati a scriverne sulle pagine del loro giornale. Serrato e antispettacolare Il caso Spotlight può contare su un cast d’attori capaci di mettersi a disposizione del copione con interpretazioni funzionali alla verità dei suoi contenuti.

lunedì, febbraio 15, 2016

45 ANNI

45 Anni
di Andrew Haigh
con Charlotte Rampling, Tom Courtenay
Uk, 2015
genere, drammatico
durata, 95'

E’ l’imbrunire di una giornata abbastanza fosca, una donna è trascinata dal cane che conduce a passeggio mentre un addetto postale, incontrato sulla via, le ricorda l’imminenza dell’evento da lei così atteso, quell’anniversario di matrimonio su cui si baserà l’intera pellicola. 45 anni è il lento destabilizzarsi, quasi autolesionistico ed a tratti involontario, di una coppia giunta all’importante traguardo di quasi mezzo secolo d’amore, un lungo cammino percorso dal marito con un pesante fardello impossibile da rivelarsi. Almeno fino a quel giorno, quando una missiva riporta alla luce il dramma dell’uomo, racchiuso per troppo tempo nel proprio cuore, pronto ad esplodere nel giorno più importante della loro vita. Cinque giorni dividono l’arrivo della lettera dai festeggiamenti, un brevissimo arco temporale in cui a più riprese sembrerà di assistere ad un progressivo disgregamento del materiale amorale su cui si poggia l’intero impianto matrimoniale dei coniugi. Il tempo sembra dilatarsi oltre ogni limite nei giorni centrali della settimana, pur non scadendo in progressioni esasperanti, permettendoci di percepire il patema d’animo della donna (magnificamente interpretata dalla Rampling), la quale sembra prendere su di sé l’intero onere della situazione, tendendo ad oscurare il marito che, difatti, risulta più volte anche sul piano visivo “messo da parte”: i due appaiono spesso, quando la storia inizia ad incalzare ed il mistero ad infittirsi, lontani se non divisi dall’oggettistica e dall’arredamento (il dialogo in cui la moglie è divisa, nel fotogramma, dal marito e gli parla attraverso una libreria) per poi lasciar fuoriuscire l’uomo completamente dall’inquadratura (come nei dialoghi approntati dalla coppia sul letto, dove la donna sembra immersa in un intenso soliloquio, lasciandoci cadere in errore e riprendendoci subito dopo grazie alla presenza del voice over dell’uomo). 


La coppia si disgrega quasi impercettibilmente, ed è qui l’abilità di Andrew Haigh (regista giovane con all’attivo un altro bel lungo dal titolo Weekend e la direzione della famosa serie britannica Looking); l’uomo, esasperato dal disagio creatosi, viene esiliato non solo visivamente ma anche narrativamente, lasciato ai margini delle pagine dello script, ai bordi delle inquadrature, ma sempre presente nei discorsi della moglie e delle amiche, pronte a sostenerla pur nella sua tormenta (bella la presenza di uno dei personaggi chiave della bellissima serie Utopia come capobranco del gruppo di amiche). Il racconto dell’uomo che sembrava essersi concluso anni prima, definitivamente archiviato dalla coppia, riemerge ora prorompente, con ostinatezza oppressiva sui nervi della donna, incapace di gestire lo sviluppo narrativo della storia, che giunge all’apice nella tremenda scoperta sul reale passato dell’uomo. Quello che sembra un progressivo disinteressamento involontario di uno dei due partner che potrebbe sfociare nella dissoluzione di un duraturo rapporto si dimostra per quello che è in realtà, ovvero un tentativo di ancoraggio degli stessi protagonisti, in particolare della donna, alla loro storia, dalla quale sembrerebbe impossibile divincolarsi in così breve tempo, giusto l’arco di una settimana. L’uomo lambisce il cerchio matrimoniale senza mai ritornarvi completamente, durante questo periodo, ma nemmeno senza uscirne con convinzione, alternando momenti di dolcezza effimera ad altri di completo anonimato sentimentale. 

La fotografia dai colori tenui e mai troppo accentuati, la cura scenografica dai toni minimalisti, l’accompagnamento sonoro assente e sostituito spesso dai suoni naturali ed artificiali di cui il film è costellato (importante il rumore delle diapositive che si susseguono nel proiettore una dopo l’altra) rendono amica l’atmosfera del film, lasciandovici immergere completamente, quasi noncuranti della quarta parete. Il ghiaccio, elemento ultimamente molto presente nella cinematografia (Revenant, The Hateful Eight), ha mantenuto la protagonista del mistero intatta, così come intatti sin sono mantenuti i sentimenti dell’uomo per lei, conservatisi per anni e poi disgelatisi all’arrivo della lettera. La regia, funzionale alla storia, si mantiene sempre sui binari canonici del classico, con campi lunghi e medi, alternati a sporadici primi piani, preferendo piuttosto una perfezione maniacale nella ricercatezza interpretativa. Maniacalità che ripaga con le ottime interpretazioni degli attori, premiate giustamente a Berlino. Un buon matrimonio è pieno di storia, ci vien detto, e il matrimonio qui narrato di storia ne ha davvero molta, ottimamente narrata e messa in scena.
Alessandro Sisti

domenica, febbraio 14, 2016

sabato, febbraio 13, 2016

REVENANT : TRA CINEMA E LETTERATURA




Il Paese era giovane e non è un modo di dire. Thomas Jefferson aveva spedito Meriwether Lewis e William Clark a redigere mappe di un Ovest ancora perlopiù sconosciuto e selvaggio (e proprio a partire dal corso dell'alto Missouri - tra l'altro - teatro a sua volta anche delle peripezie illustrate dal film di A.G.Iñarritu), catalogare specie animali e vegetali, osservare usi e costumi delle popolazioni locali, nemmeno un ventennio prima della rocambolesca odissea occorsa a Hugh Glass - figura tanto storica quanto leggendaria, cacciatore di pelli ed esploratore - tra la tarda estate del 1823 e metà primavera del 1824. Il regista messicano s'è dunque ispirato in parte (come lealmente riportato dai titoli di testa) al volume scritto da Michael Punke, The revenant. A novel of revenge (tradotto da noi per i tipi Einaudi col titolo Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta), per confezionare un'opera in complicato equilibrio tra meraviglia visiva, prontuario di sopravvivenza, percorso di riscatto, dimostrazione di saldezza interiore, ad ampliare lo spettro delle suggestioni riconducibili al cosiddetto revenge movie e malgrado la dubbia aderenza al physique du role richiesto della star Di Caprio. Ammissioni preliminari a parte, è già interessante notare come l'esistenza di un leggero ma significativo slittamento semantico allorquando spostiamo l'attenzione dal resoconto di Punke - denominato da subito, con tipica schiettezza anglosassone, novel, ossia costruzione di finzione - a quello nostrano che rimarca l'offerta all'ipotetico lettore di una storia vera, vada a ripercuotersi pure sull'introduttiva indicazione di massima cinematografica, nonché, di conseguenza e per li rami, sul taglio impresso al carattere principale che si muove sullo schermo e quindi al respiro che tale scelta imprime alla storia nella sua interezza. Nel senso: è proprio a partire da quest'ambiguità in apparenza esile che la curiosità può mettersi all'opera soppesando, da un lato, l'affermazione di Punke secondo cui "Revenant è un'opera di finzione. Detto questo, per quanto concerne gli accadimenti principali, ho cercato di mantenermi fedele ai fatti storici"; dall'altro, l'idea di Iñarritu di sgrossare Glass a partire da Punke, per poi rifinirlo (e farlo agire) in ragione di direttrici psicologiche (e comportamentali) più o meno autonome. Ciò è curioso perché tale scarto concorre, privilegiato un punto di vista o l'altro, a ridefinire il cuore stesso dell'intera vicenda.


In linea del tutto generale - e tralasciando qui le argomentazioni teoriche circa la specificità dei singoli linguaggi - è indubbio che l'abbraccio tra Letteratura e Cinema, in ogni caso antico e costantemente rinnovato, è di quelli che ci si scambia con trattenuto trasporto, se non, per aspetti incidentali, con malcelata diffidenza. Allo stesso tempo - e per provare a restare in tema - come può tornare utile fra trappers in aperta competizione nello skin trade scambiarsi informazioni vitali per la sopravvivenza in lande ostili, così Letteratura e Cinema si ritrovano sovente, seppur, volendo, a volte loro malgrado, impegnati in una sorta d'involontario mutuo soccorso. Non si contano, infatti, gli scritti che sembrano fatti apposta per assumere con facilità le fattezze di sceneggiature: allo stesso modo - previa opportuna rotazione di centottanta gradi - la processione che anima il tragitto dallo schermo al pozzo letterario da cui attingere spunti, continua ad attrarre sempre nuovi questuanti, in un fitto andirivieni di richiami, di riflessi, che si svelano, al fine, al modo della paziente centratura di un'anamorfosi. Tutto questo per dire che, al di là delle secche di una troppo insistita presunzione di verosimiglianza (che Letteratura e Cinema dirimono o compongono con strumenti e scopi autonomi: nel caso, in Punke la prossimità, laddove possibile, alle cronache documentate, riduce l'incidenza di eventuali infondatezze; in Iñarritu, il suo maggiore  o minore far capolino, resta almeno funzionale o non osta al dettato revanscista della trama che s'intende sviluppare), ciò che a conti fatti sdoppia davvero il Glass personaggio letterario dal Glass (anti)eroe di celluloide è la resa delle ragioni profonde della sua anabasi (nel senso letterale di spedizione): pervicacemente attaccata all'intima matrice corporea, nel libro di Punke; virata anche su tonalità spiritual/metafisiche nel film di Iñarritu.


Se l'incontrovertibilità dell'assunto per cui lo scampolo della vita di Glass di cui ci occupiamo (vita che si protrasse dopo la missione all'Ovest neanche per un decennio e si chiuse per mano di coloro che avevano contribuito ad inaugurarla, un gruppo di guerrieri Arikara) spicca dalla sua inerzia abituale per un forzoso ritorno allo stato di natura (e tale premessa costituisce anche il calco estrinseco del film), è addirittura pacifica, ciò implica - per semplice inferenza - la sostanziale prevalenza nel tessuto stesso dei fatti che ne compongono la fisionomia, degli elementi base di quella che possiamo chiamare avventura materiale, intendendo con questa espressione l'insieme delle reazioni e dei comportamenti relativi ad una serie costante e reiterata di sollecitazioni fisiche generate dal contatto/attrito con l'ambiente naturale (a configurare e testimoniare quella di Glass, per dire, basterebbero, sic et simpliciter, le centinaia di miglia percorse a piedi - buona parte d'inverno - nella wilderness americana, a cavallo dell'alto corso del Missouri, a margine dei bastioni centrali delle Rocky Mountains, quindi lungo i fiumi Powder e Platte, e facendo comunque scientemente finta di tralasciare l'evento terribile e più plateale dell'aggressione di un grizzly nella boscaglia presso le acque del Grand, tappe di un angosciante calvario annesse). Affinché l'avventura materiale si dispieghi pienamente, al punto, nelle congiunzioni più felici, di porre le premesse di una narrazione epica, è necessaria la concentrazione attorno a pochi (ma esigenti) riferimenti in grado di caratterizzarla a prescindere dalle epoche e dagli specifici ambiti antropologici e culturali: una feroce aderenza al dato sensibile, in primis (il corpo, il cibo, l'autoconservazione); la frizione che tale dimensione genera spesso a contatto con l'umano, nella sua doppia accezione antagonistica/ribelle o panica/immersiva: non ultima, la modificazione psicologica/emotiva che la vicinanza carnale del vissuto come esperienza materiale arreca nell'individuo e rilancia di continuo verso l'avvenire. Del resto, avventura, nel suo etimo primo di "cose che accadranno" e nel suo significato corrente di "vicenda singolare e straordinaria", contempla e racchiude al proprio interno, come stazione di un itinerario tanto fuori-dal-comune quanto rigoroso, proprio quella relazione arcaica ma ineludibile che, nel primato della materia - nella constatazione dei suoi limiti, nell'opposizione alle sue deficienze, nell'accettazione della sua caducità - individua il nucleo del rapporto dell'Uomo col Mondo (e, in trasparenza, quello con la sua rappresentazione interiore); richiama (e rinnova) la necessità di comprendere la misura e lo stato dell'"estensione del dominio della lotta"; reclama lo sforzo di reperimento di un senso legato a principi netti e inderogabili: sollecita l'avvento di un orizzonte mentale che di quel Mondo è specchio e trascendimento, proprio perché alla sua evidenza fisica esso si affida partecipandovi ("Il sole calante portava con sé l'asprezza della pianura. I venti ululanti si placavano, rimpiazzati da un'assoluta immobilità che sembrava impossibile in un paesaggio così smisurato. Anche i colori si trasformavano... Era un momento adatto alla riflessione, in quello spazio così vasto che poteva solo essere divino. E se Glass credeva in un dio, per lui abitava in quell'immensa distesa occidentale" - M.Punke, op. cit. -

Esattamente all'altezza di questo crinale, il libro di Punke e il film di Iñarritu prendono sentieri differenti, causando altrettanto differenti ripercussioni sulla struttura dei rispettivi lavori. Se nella trattazione di Punke, ad esempio, al momento d'imbattersi negli ovvi spazi bianchi lasciati da Glass nella propria biografia, si operano inevitabili glissando, s'inventano o si drammatizzano (ammettendolo) taluni episodi o tipi umani, si cuciono le frange incompatibili con opportuni rammendi temporali, lasciando nell'essenza inalterato lo scheletro dell'avventura materiale; al contrario, Iñarritu inserisce la rimembranza simbolica di una famiglia distrutta dalla violenza come episodico intercalare onirico che, da un lato, dovrebbe conferire all'avventura un ulteriore passo - del tipo mistico/sapienziale - dall'altro avrebbe lo scopo di confortare e rinvigorire lo spirito irato dell'inesauribile trapper. Siffatte visuali, reciprocamente alternative nei confronti del protagonista (e della sua condizione), calate, come detto, in un quadro di estrema concretezza, sortiscono esiti allo stesso tempo intriganti e controversi. L'affabulazione di Punke, assai lineare, pur nella sua modulata alternanza di situazioni [tra la brutale guerra privata di Glass con foreste, neve, fiumi, animali e Indiani e il proposito di vendetta che via via sfuma in un atteggiamento in cui finiscono per prevalere più stanchezza e disillusione che bramosia di sangue; le peripezie del Cap. Andrew Henry, impegnato col resto della spedizione in un faticoso slalom per evitare gl'inconvenienti di un territorio insidioso; gli occasionali intermezzi dedicati a Jim Bridger e John Fitzgerald, rei di aver abbandonato un Glass malconcio al suo destino (motori primi, quindi, dell'odio livoroso del revenant); le parentesi storiche che c'introducono ad un Glass giovane uomo, impegnato prima nella marineria commerciale per un decennio - al soldo della Rawsthorne and Sons - e "costretto" poi "con la forza a dare il suo contributo all'avventura criminale di Jean Lafitte" - M.Punke, op. cit. -, il pirata], non si discosta mai da una rilettura di fondo impressionista della materia - vieppiù impreziosita, qua e là, da attente quanto sobrie digressioni di carattere naturalistico, nonché affatto restia, all'occorrenza, ad includere dettagli crudi o aspetti discutibili delle personalità dei singoli - che se può risultare a tratti anodina o persino sbrigativa, sottolinea comunque con chiara coerenza i confini materiali di un'avventura unica nel suo genere, restituendoli nella pienezza di un senso circoscritto ma definito. D'altra parte, l'interpolazione, nel lungometraggio di Iñarritu, di sporadiche proiezioni di matrice allusivo/metaforica [peraltro di per sé in farraginosa continuità con un incedere già abbondantemente ieratico/contemplativo - e di notevole impatto, almeno per il primo terzo del film - di ascendenza malickiana, laddove taluni dettagli, non esclusivamente riconducibili all'estro cromatico di Lubezki, pensiamo, per dire, al movimento parallelo inverso della mdp allo scorrere delle acque del fiume ad introdurre il personaggio di Glass, in apertura, o alla prospettiva basso/alto utilizzata per esaltare la magnificenza avvolgente/incombente degli alberi, avvicinano, da un canto, il prologo di "Revenant" all'epifania di un mondo, quello di "The new world" (scontro con i locali compreso); dall'altro, inaugurano quel processo di diluizione dell'avventura materiale che nello svolgimento della narrazione si farà via via più vistoso, fin quasi a venare l'atto estremo di Glass di valenze vagamente risarcitorie e di ricomposizione di un ipotetico equilibrio-morale-delle-cose, del tutto assente, ad esempio, proprio nella figura e nella concatenazione degli eventi sbozzati da Punke], nel tentativo di contraddistinguere il destino di Glass anche come esempio di avventura spirituale, oltre a produrre una sensazione di sovraccarico che, poi, a conti fatti, non incide sul percorso primo dell'uomo-in-viaggio (anche indipendentemente dal fatto che Glass pare non abbia mai formato una famiglia - né bianca né indiana - quindi tantomeno generato dei figli; che Punke stesso è probabile si sia limitato a romanzarne la permanenza di circa un anno presso la tribù Loup Pawnee, come ad attribuirgli un amore più platonico/letterario che felicemente vissuto per la diciannovenne Elizabeth Van Aartzen, nipote del Capitano olandese Jozias Van Aartzen che lo aveva iniziato al mestiere di marinaio - peraltro cancellata, questa figura femminile, dall'immaginario sentimentale del meno che fortunato protagonista nel giro di una manciata di pagine ad opera di una febbre "contratta lo scorso gennaio", dal confronto con la quale "pur avendo lottato, non è riuscita a guarire" - M.Punke, op. cit. -), distoglie e confonde dal motivo principale del suo resistere a qualunque pericolo e privazione - la vendetta, per l'appunto - proiettandosi in una sorta di ordine superiore (sposato anche da Punke ma a mo' di epigrafe, ossia con palesi intenzioni genericamente ammonitrici, se non meramente edificanti) per cui "Non fatevi giustizia da voi stessi, ma lasciate fare all'ira divina. 

Sta scritto infatti: Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo" - Lettera ai Romani 12,19 -, tanto inoppugnabile sul piano della dottrina, quanto avulso dalla progressione tutta terrena che ne ha reso possibile la realizzazione, per smarrirsi, in conclusione, di fronte alla disarmante evidenza che ventila la possibilità per la quale nessuna vera vendetta sembra sia mai stata consumata [Jim Bridger, annota Punke, viene pestato da Glass, fin quando "cominciò ad accadere qualcosa d'inatteso. La perfezione del momento" - leggi: della vendetta - "si stava dissolvendo... (Glass) Fissò a lungo il coltello che aveva in mano, poi se lo lasciò scivolare nel cinturone" - M.Punke, op. cit. -; John Fitzgerald, di cui non si sa quasi nulla in generale, pare certo non morì per mano di Glass], a testimoniare, forse, che il fuoco della rivalsa violenta in realtà va ad alimentare più che altro le braci spossate di una incoercibile volontà di sopravvivenza; rende di nuovo udibile l'urlo materiale della vita che oltrepassa se stessa davvero rimanendo fedele alla terribile tirannia della contingenza, in specie quando "le cose non vanno sempre come dovrebbero... Un sacco di fili sciolti non vengono mai annodati. Bisogna giocare con le carte che si hanno in mano. E passare oltre" - M.Punke, op. cit. -
TFK

venerdì, febbraio 12, 2016

ZOOLANDER 2

Zoolander 2
di Ben Stiller
Con Ben Stiller, Owen Wilson, Will Ferrell, Penelope Cruz
USA, 2016
genere: commedia
durata: 102'


Il Centro Derek Zoolander è collassato su se stesso a due giorni dall'inaugurazione. Il suo fondatore ha perso la moglie e i servizi sociali gli hanno tolto anche il figlio. Hansel ha riportato un graffio. Entrambi si sono ritirati agli estremi del pianeta. Anni dopo, il destino li riporta insieme nella città eterna per un grande evento che potrebbe rilanciare finalmente la loro carriera e permettere a Derek di riavere il figlio. Egli stesso, però, purtroppo, commette un grave errore: involontariamente libera dal carcere Mogutu, sempre più travestito e sempre più folle.
Essendo il genere demenziale tipicamente abitato da personaggi sopra le righe, eccessivi e a loro modo sempre iconoclasti, l'incontro con il mondo della moda, che mostra per natura le stesse caratteristiche, non poteva che dar luogo ad un match perfetto, e Zoolander ne è stata la prova. Il secondo capitolo potrebbe non far altro che ripetere il concetto, ma interpreta il compito in maniera ansiosa e bulimica. Da un lato, infatti, s'intrattiene senza verve sui cambiamente occorsi nell'ambiente dal 2001 ad oggi, dall'altro si butta a capofitto nella crime story, riempiendo l'ordigno cinematografico di polvere esplosiva ma apparendo poco attrezzato per reggere l'impatto della deflagrazione al momento decisivo.


L'ambientazione nella Roma riportata allo splendore dei massimi complotti da Dan Brown, offre l'occasione a Ben Stiller di inventare un segreto biblico, basato su un gioco di parole, che da solo dovrebbe tenere insieme un'avventura che parla di popstar assassinate, di un eletto sovrappeso e di un cenacolo massonico che conta tra i suoi adepti Valentino, Anna Wintour, Vera Wang, Mark Jacobs e Tommy Hilfiger.
Naturalmente, sconclusionato può essere sinonimo di divertente, ma qui è eccessivo: si ride meno rispetto al film inaugurale e pare di essere capitati dentro un'infilata di parodie, da Balle Spaziali a Johnny English, compressa dentro ritmi troppo sostenuti per il nostro eroe. Penelope Cruz, nei panni di un ex modella di costumi da bagno riciclatasi come poliziotta hot, procede controcorrente, rallentando il ritmo del film ad ogni apparizione.
Il sequel non trova una propria dimensione e, verso la fine, replica senza remore le gag dell'originale.
Riccardo Supino