sabato, dicembre 31, 2016

“Hokusai, il monte Fuji, i luoghi e i volti del Giappone”: MISS HOKUSAI

Miss Hokusai
di Keiichi Hara
Giappone, 2015
Genere, animazione
Durata, 93’



Continua la rassegna “Hokusai, il monte Fuji, i luoghi e i volti del Giappone” presso la Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, con l’anteprima per l’Italia del film di animazione giapponese “Miss Hokusai” di Keiichi Hara.

Tratto dal manga “Sarusuberi” di Hinako Sugiura, “Miss Hokusai” racconta le vicende personali di Oei, figlia minore del secondo matrimonio del famoso pittore Katsushika Hokusai: ambientato durante la fine del periodo Tokugawa nel Giappone della prima metà del XIX° secolo, vediamo la giovane Oei alle prese con il suo silenzioso e ossessivo genitore, completamente dedito alla pittura. Infatti, Hokusai vive separato dalla moglie in uno studio, accudito dalla figlia e da un giovane aiutante. Lo spettatore segue le inquietudini di Oei, il dolce rapporto con la sorella minore cieca, la sua ricerca nel trovare la sua strada come pittrice, i turbamenti di donna che non conosce ancora il sesso e non sa cosa sia la passione. Ma il punto di vista di Oei diventa un luogo privilegiato per carpire anche l’arte di Hokusai, che visse fino ai 90 anni, accudito proprio da lei.

Nella realtà Katsushika Hokusai si sposò due volte: dalla prima moglie ebbe tre figli; dalla seconda altri tre, un maschio e due femmine. Il figlio divenne un poeta e un burocrate dello shogunato, mentre la figlia maggiore Onao morì da bambina. Oei era la figlia minore e divenne un’artista famosa per i ritratti femminili, il gioco delle ombre che inseriva nei suoi pochi dipinti arrivati fino a noi. In “Miss Hokusai”, Keiichi Hara e gli sceneggiatori si sono presi la licenza poetica di invertire la gerarchia tra le due sorelle, così da far diventare Oei la maggiore e Onao la minore. Questo ha aiutato indubbiamente lo sviluppo psicologico del personaggio che ne trae beneficio per le varie sfumature emotive e diviene anche un argomento di confronto con il padre che non vuole vedere la figlia cieca, rinchiusa in un convento.

Ma se il film ha molte licenze poetiche, ha anche altrettante descrizioni della realtà dell’epoca: innanzi tutto, la descrizione di Edo (che poi nel periodo successivo allo shogunato dei Tokugawa, quello Meiji, fu ribattezzata Tokio e divenne capitale dell’impero), con la sua folla variopinta di artigiani, contadini, samurai, donne e bambini; la centralità del ponte come punto di osservazione della vita quotidiana; il quartiere a luci rosse; il rapporto con i committenti delle opere e il lavoro degli artisti che non si limitavano a dipinti, ma alle più disparate produzioni che andavano dalle stampe, a biglietti, disegni, album di “manga” (fumetti con immagini e schizzi di vario genere), illustrazioni per libri; il rapporto tra uomini e donne, ma anche la libertà e il rispetto che godevano gli artisti.
Il doppio travaglio di donna e di artista è il tema forte di “Miss Hokusai” che si raddoppia con il confronto con il padre, figura ingombrante di genio e sregolatezza, sia come uomo sia come pittore e trova la sua compiutezza nelle linee dinamiche del disegno animato che riproduce questi stati d’animo interiori della protagonista.


Dal punto di vista estetico è un’operazione corretta quella della scelta del film di animazione: i “manga” sono parte integrante della cultura nipponica, lo stesso Hokusai produsse dei volumi di “appunti” disegnati per i giovani pittori, e quindi c’è una continuità temporale e artistica, una liaison tra il passato e il presente; così come è interessante raccontare la vita di uno dei più famosi pittori giapponesi attraverso gli occhi della figlia. Inoltre, pur se nelle linee del disegno si ritrova il tipico stile degli animegiapponesi, “Miss Hokusai” è arricchito da esplicite citazioni sia delle opere di Hokusai sia della figlia. Così abbiamo: “La Grande Onda di Kanagawa” dalla serie “Trentasei vedute del Monte Fuji” quando Oei e Onao compiono una gita in barca in mare aperto; i paesaggi innevati; i disegni fatti da Hokusai, riproducendo le smorfie del suo aiutante; la visita dalla geisha nella notte mentre il proprio spirito si separa dal corpo, il soprannaturale tema di molti disegni di Hokusai; il ponte di Edo che richiama quelli della serie “Vedute di ponti famosi”. Così come il gioco delle ombre all’interno dell’animazione, con eleganti passaggi dei personaggi tra le abitazioni, ricordano le opere di Oei come “Scena di notte in Yoshiwara”; oppure la delicatezza dei volti femminili riprendono i ritratti di cui la figlia del Maestro era considerata e apprezzata.
“Miss Hokusai” è un’opera riuscita e con una certa originalità che racconta un momento della vita di un grande artista colto come uomo e genitore oltre che mentore di sua figlia.
Antonio Pettierre
“Hokusai, il monte Fuji, i luoghi e i volti del Giappone”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano dal 26 dicembre 2016 all’8 gennaio 2017.

giovedì, dicembre 29, 2016

PATERSON

Paterson
di Jim Jarmusch
con Adam Driver, Golshifteh Farahani, Kara Hayward 
USA, 2016 
genere: drammatico
durata: 113' 



Paterson vive a Paterson, New Jersey, con la moglie Laura e il cane Marvin. Ogni giorno guida l'autobus per le vie della città, ogni sera porta fuori il cane e beve una birra nel pub dell'isolato. Mentre la moglie colleziona progetti fantasiosi e fuori portata e decora ininterrottamente la loro casa, Paterson appunta umilmente le sue poesie su un taccuino che porta sempre con sé. Nei suoi versi si fondono la passione per William Carlos Williams, nativo di Paterson, Ginsberg, O'Hara, ma anche il suo orizzonte quotidiano. Proprio il dono di uno sguardo poetico sembra essere ciò che lo eleva da una routine di luoghi e azioni uguali a se stesse e sottilmente angoscianti. Sono pochi i film che trattano la poesia riuscendo a fare di essa la propria sostanza e questo lavoro di Jarmusch si colloca tra i primi della lista. Non essendo, però, un film sulla poesia delle piccole cose, Paterson è, al contrario, un poema in sé, oltre che un viaggio nei meccanismi stessi della scrittura in versi e nel rapporto tra la parola e l'immagine, che chiama intrinsecamente in causa il cinema. Il viaggio comincia da subito e dal nulla, da quel primo richiamo ai fiammiferi, protagonisti della più nota e banalizzata poesia d'amore prévertiana, per poi contemplare la sorpresa, elemento imprescindibile, che qui s'affaccia nell'apparizione della prima coppia di gemelli, generata da un sogno della moglie e trasformata in ripetizione, che costellerà tutto il film. C'è poi il cane, la sua immagine reale e quella nel quadro, che ha attraversato un processo di interpretazione di astrazione eppure ne conserva, riconoscibilissima, la fisionomia. E l'ironia per cui il nome del protagonista coincide con quello della città così come il nome dell'attore, Adam Driver, con quello del suo mestiere nel film. Facendo dialogare con rimandi continui il mondo delle cose e quello delle parole, e usando sistematicamente la figura dell'anafora, Jarmusch costruisce un'opera che prende senso nel suo insieme, e non nel singolo passo, per quanto riuscito. Come Dante, citato non a caso, Paterson ci mostra ciò che vede durante la sua corsa, attraverso la città e l'esistenza, ci mette a parte degli stralci di conversazione che sente (bello il dialogo su Gaetano Bresci e la pena di morte affidato ai due protagonisti di Moonrise Kingdom, ancora in coppia, trasfigurati in anarchici neo romantici), degli incontri che fa, della natura irrompente del piccolo imprevisto. Jarmusch non racconta la storia di un genio incompreso, tant'è vero che la poesia di una ragazzina incrociata per caso è buona quanto quelle del protagonista o quasi; parla, invece, di un dono che ha il potere di cambiare ogni cosa, perché è quello di uno sguardo particolare sul mondo.
Ricardo Supino

EL ABRAZO DE LA SERPIENTE

El abrazo de la serpiente
di, C.Guerra
con, J.Bijovet, N.Torres, A.Bolivar Salvador, B.Davis, Y.Miguee.
Colombia 2015
durata, 125'



Ciò che Léry, Staden, Thenet videro allora, i nostri occhi non lo vedranno mai più. Le civiltà che studiarono per primi si erano sviluppate in direzioni diverse dalle nostre e non avevano raggiunto la pienezza né la perfezione compatibile con la loro natura, mentre le società che noi possiamo studiare oggi - nelle condizioni che sarebbe illusorio confrontare con quelle di quattro secoli fa - non sono più che corpi indeboliti e forme mutilate. Malgrado le enormi distanze e ogni genere d'intermediari (di una bizzarria spesso sconcertante quando si arriva a ricostruirne la catena), esse sono state annientate da quel mostruoso e incomprensibile cataclisma che fu, per una tanto larga e innocente frazione dell'umanità, lo sviluppo della civiltà occidentale; questa non dovrebbe dimenticare che il suo sviluppo le ha dato un secondo volto, non meno vero e indelebile dell'altro. L'osservazione (questa, come le sparute altre a seguire) annotate da Lévi-Strauss a mo' di riflessione collaterale al personale ciclo di esplorazioni amazzoniche, può ancora sovrapporsi alle periodiche rievocazioni - genericamente artistiche - inerenti un ambiente fisico e spirituale al punto vasto e stratificato da corrispondere ai connotati di un vero e proprio mondo a parte, sebbene sempre più insidiato (Vista dal di fuori, la foresta amazzonica sembra un ammasso di ribollimenti solidificati, un cumulo verticale di rigonfiamenti verdi; si direbbe che un disordine patologico abbia ovunque afflitto il paesaggio fluviale. Ma quando si rompe l'involucro e si penetra al di dentro, tutto cambia; vista dall'interno questa massa confusa diventa un universo monumentale. La foresta cessa d'essere un disordine terrestre; si potrebbe considerarla un nuovo mondo planetario, ricco come il nostro e che dovesse sostituirlo). In più, l'argomentare dello studioso belga, con metodo ancorato ai criteri dell'indagine scientifica sul campo ma non refrattario alla constatazione circa un regolare e significativo fluire di suggestioni, di rimandi, di analogie, d'immagini discordi con la perentorietà dell'analisi epperò fondamentali allo stabilizzarsi di quella compiutezza che siamo soliti abbinare al significato più autentico del termine conoscenza, fa capolino più d'una volta dal corpo ingannevolmente quieto di un'opera come "El abrazo...", liberamente tratta - nei modi e nelle forme di uno scivoloso ma intrigante andirivieni tra finzione e documento etnografico stilizzato - dai diari dell'etnologo tedesco Theodor Koch-Grunberg/Bijovet e da quelli dell'etno-botanico statunitense Richard Evans Schultes/Davis, a coprire poco più di un trentennio a cavallo degl'inizi del secolo scorso e incentrata sul doppio binario di una spedizione in territorio colombiano - sul corso del fiume Yarì - le cui tracce vengono dissepolte e riutilizzate allo scopo di confermare o smentire l'esistenza di un vegetale dai singolari poteri officinali, la Yakruna, per il tramite di una medesima figura, Karamakate/Torres (giovane), Bolivar (adulto), solitario epigono di una genìa decimata da uno degli innumerevoli effetti associati della colonizzazione - nel caso, la guerra del caucciù -; intransigente custode di cosmogonie arcane quanto rimosse da un'obliata pratica del sogno come reminiscenza simil platonica di un sapere innato ma, per un misterioso contrappasso, sfuggente, quindi inattingibile e non più trasmissibile, che sembra (per motivi al nostro inconscio fin troppo noti) affliggere anche i perplessi interlocutori europei. Colui-che-muove-il-mondo, Karamakate, all'inizio restìo a qualunque collaborazione (I soldi piacciono alle formiche. Per me non hanno un buon sapore), indi Caronte spesso taciturno ma vigile, latore di spicce lezioni di pragmatismo, di rispetto, nonché spina nel fianco d'oramai stantii riflessi condizionati (Perché a voi bianchi piacciono tanto gli oggetti ?).


Dove si pone il limite tra l'utilizzo di una qualunque risorsa e la sua razzìa ? Come l'opportunismo del più forte si sedimenta entro i recessi più riposti di una Cultura fino al punto di farle ritenere naturale la negazione al riconoscimento e all'unicità di altre ? Qual è il vero rigore ? Quello scientifico, che ordina a partire da leggi perennemente soggette a conferma e revisione, o quello modellato da secoli di adeguamamenti progressivi a eterni ritorni che, paragonati al compiersi della parabola umana, possono dirsi immutabili ? E ancora: è proprio vero che tutto ciò che non cade sotto la nostra diretta osservazione (a dire, oggi come oggi, sovente, sotto l'inesausto principio di manipolazione generalizzata che guida noi occidentali) è sic et simpliciter inutile e non ci riguarda ? Come riappropriarsi, infine, di una dimensione dell'esistenza che tenga conto dei legami e dei rapporti che saldano l'uomo al suo tempo - come somma non solo meccanica ma emotiva - agl'insegnamenti, agli stupori e alle costruzioni dell'intelletto e dello spirito di coloro che lo hanno preceduto ? Gli appena elencati sono solo alcuni degl'interrogativi che riposano sul fondo di un film come "El abrazo...", insinuanti e infidi, come le anse del fiume - egli stesso serpente tra le maglie compatte della Terra; arteria di un sistema circolatorio in cui transitano non solo corpi ma fioriscono e si rinnovano leggende, miti, visioni, magie, racconti - che Theo ed Evan, in momenti diversi, risalgono/ridiscendono con Karamakate alla ricerca di qualcosa di cui la Yakruna è solo il simbolo più esteriore e paradigmatico ma che rimanda senza posa all'oscurità e al vuoto (Theo ed Evan provati e confusi si sentono svuotati dall'irriducibilità di un mondo allo stesso tempo compatibile per fisiologia eppure alieno/ostile alle coordinate di un pensiero razionale che presume di controllarlo studiandolo/fraintendendolo; Karamakate afferma più volte di essere un Chullachaqui, un guscio vuoto: Una volta le rocce mi parlavano. La linea si è spezzata. I ricordi sono svaniti. Le rocce, gli alberi, gli animali sono diventati silenziosi. Adesso sono vuoto. Sono un chullachaqui), in cui ogni uomo galleggia stranito al momento di riconoscere come instabile, se non traditore o persino putrescente, il terreno in cui affondano le radici delle sue convinzioni. L'asimmetria inquieta in cui si dibattono la Ragione (Non posso privarmi della bussola, mi serve, afferma Theo stizzito) e la Sapienza, benché quasi del tutto orfana del contesto che l'ha resa possibile (Ogni fiore, ogni pianta ogni albero è pieno di saggezza, osserva intento Karamakate), vibra sempre sulla lunghezza d'onda di un irreparabile pronto a mutarsi in follia (il tragico esperimento religioso calato a freddo nel cuore caldo delle comunità amazzoniche: ... missionari che, col Servizio di protezione, sono riusciti a porre fine ai conflitti fra indiani e coloni, hanno condotto allo stesso tempo eccellenti inchieste etnografiche e un metodico sterminio della cultura indigena) o in violenza cieca, se non viene sostenuto, dice Guerra per il tramite di Karamakate, dall'ascolto (Il mondo parla ma tu non ascolti). Ascolto a cui ci si deve predisporre con un'intenzione di apertura verso ciò che non si esaurisce entro la concatenazione pedissequa dei fatti ma allude all'intuizione, al presentimento, all'allegoria, alla logica ardita che fonde la memoria-del-mondo, il suo sentimento, al vissuto personale, per cui non risulta poi così velleitario maneggiare il sogno come uno strumento più vero del vero, e la cui epifania può anche assumere la foggia imprevedibile di un cerimoniale di farfalle (Sognare in silenzio chi si è veramente. Ci si può perdere. Ma coloro che riescono possono affrontare qualsiasi cosa).


Impreziosito - eccetto che per la sequenza della rivelazione originaria risolta come un fascio di colori vividi espansi - da uno smagliante b/n opera di D.Gallego, a suo agio nel restituire (ed è un paradosso solo in apparenza), la varietà, la pesantezza, l'elusività dell'organismo lussureggiante; con qualche ovvia concessione all'accessibilità nella concatenazione dei dialoghi ritmati sul gergo locale, irruzioni di spagnolo ed episodici intarsi portoghesi, il lavoro di Guerra configura il suo abbraccio non tanto e non solo come immanenza del divino nello svolgersi della Storia e al culmine di un travagliato itinerario di purificazione (non a caso l'Officina degli Dei è posta in un angolo remoto della foresta e del fiume), quanto nell'approssimarne i confini (quindi la sua esperibilità e il suo valore) entro il quotidiano interiore del singolo, in una continuità di gesti, di tortuosi peripli dell'apprendimento e della consapevolezza, di proiezioni dell'immaginazione, che assottigliano, di fatto, le distanze tra passato e presente, tra differenze culturali, mostrando (al pari proprio di Lévi-Strauss: Nessuna società è perfetta... dal momento che l'autorità dell'uomo sulla natura era molto ridotta, egli si trovava protetto - e in un certo senso affrancato - dal cuscino ammortizzatore dei suoi sogni. A mano a mano che questi si trasformavano in conoscenza, il suo potere si è accresciuto; ma mettendoci - se così si può dire - in presa diretta con l'universo, questo potere di cui siamo tanto orgogliosi che cos'è in verità, se non la coscienza oggettiva d'una progressiva saldatura dell'umanità con l'universo fisico, i cui grandi determinismi agiscono ormai non più come estranei e temibili, ma, per tramite dello stesso pensiero, come colonizzatori a profitto di un mondo di cui noi tutti siamo divenuti gli agenti ?) la trama comune di un destino solo geograficamente distante, in realtà eminentemente e profondamente umano, nonostante la conclamata e irredimibile tristezza di tutti i Tropici.
TFK

mercoledì, dicembre 28, 2016

“Hokusai, il monte Fuji, i luoghi e i volti del Giappone”: ASCENT

Ascent
di Fiona Tan
Olanda, Giappone 2016
genere, documentario
durata, 80’



In occasione della mostra “Hokusai, Hiroshige, Utamaro” a Palazzo Reale di Milano fino al 29 gennaio 2017, la Fondazione Cineteca Italiana ha organizzato una rassegna cinematografica presso lo Spazio Oberdan con al centro il monte Fuji come icona della cultura giapponese.

Saranno in programma, oltre a pellicole già note come “La foresta dei sogni” di Gus Van Sant, “Sogni” di Akira Kurosawa, “Vita di O-Haru, donna galante” di Kenji Mizoguchi, “La storia della principessa splendente” di Isaho Takahata, anche due anteprime assolute per le sale italiane: “Ascent” di Fiona Tan e “Miss Hokusai” di Keiichi Hara”.

Passato nella sezione “Signs of Life” del Festival del Film di Locarno dell’agosto scorso, “Ascent” è un sentito omaggio alla cultura giapponese, alla sua storia spirituale e terrena, con al centro il monte Fuji, montagna sacra per eccellenza per la religione shintoista. Composto da quasi 4.500 fotografie che coprono 150 anni di storia, l’artista Fiona Tan racconta una storia d’amore per un paese e un concetto, quello del vuoto, che non vuol dire assenza, ma luogo perfetto, dove riempiere il proprio spirito di bellezza assoluta. Ciò che lega la proiezione delle molteplici foto è un’immaginaria storia a due, raccontata in voice over, dalla stessa Tan e da Hiroki Hasegawa, che interpretano una coppia, dove viene esplicitato il ricordo di lui, morto, attraverso le fotografie che lei mette in ordine. Ecco che allora, oltre a tantissime immagini dell’ascesa del protagonista sul monte Fuji durante il nostro tempo, si possono ammirare foto d’epoca Meiji, subito dopo che il Giappone si aprì all’Occidente, lasciandosi dietro le spalle secoli di isolamento volontario. È anche una rappresentazione dell’affermazione del shintoismo, fede panteista legata alla natura, come religione di stato con l’imperatore trasformato in divinità e oggetto di culto.


I percorsi immaginati dallo spettatore possono essere molteplici ed è indubbio la bellezza compositiva di “Ascent”, tanto più che il monte Fuji è costantemente presente nelle immagini in un continuum spazio-temporale senza soluzione di continuità. Ed è chiaro allora l’omaggio esplicito ai grandi pittori alla corrente artistica Ukiyoe, il mondo fluttuante, legato al periodo Tokugawa che copre due secoli della storia giapponese, e di cui gli artisti più famosi sono proprio Hokusai, Hiroshige e Utamaro. Sono loro che utilizzeranno le stampe in bianco e nero o a colori per rappresentare la vita quotidiana, quella contadina e quella della nascente borghesia cortigiana, le bellezze naturali, la flora e la fauna. “Ascent” con le sue immagini del monte Fuji non fa altro che rendere contemporanee le “36 vedute del Monte Fuji” (1830) e il libro illustrato “Le 100 vedute del monte Fuji”, ultima opera di Hokusai, stampata in diverse edizioni anche dopo la sua morte.
Nata in Indonesia nel 1966 e cresciuta in Olanda, Fiona Tan è soprattutto un’affermata artista multimediale che vive e lavora ad Amsterdam. Nel 2009 ha rappresentato il suo paese alla Biennale di Venezia e le sue opere sono presenti in numerose gallerie internazionali come il Tate Modern di Londra, Stedelijk Museum Amsterdam, Neue Nationalgalerie di Berlino, il New Museum a New York e il Centre Georges Pompidou a Parigi.


Sottolineiamo la biografia e l’opera di Fiona Tan proprio per la sua presa di posizione all’interno di “Ascent”: in due occasioni il personaggio, interpretata da lei stessa, dichiara che non esiste una incompatibilità tra cinema e fotografia e che quest’ultima è cinema. Una dichiarazione di intenti e di manifesto artistico personale che ci vede costretti fortemente a dissentire. È superfluo citare gli innumerevoli saggi di Bazin oppure di Metz ma soprattutto Deleuze, con la sua fondamentale opera in due volumi “Immagine-Movimento” e “Immagine-Tempo”, in cui hanno ampiamente assodato che cosa è il cinema come forma d’arte e che esso si differenzia non solo dalla fotografia, ma ingloba la pittura, la narrativa, la poesia, la danza, l’architettura, la scultura, il canto, la musica. Soprattutto il cinema è immagine in movimento, composto da un suo linguaggio specifico fatto di elementi basici come le inquadrature, dal montaggio, dai movimenti di macchina, dalla composizione della scena.
In “Ascent” tutto questo non c’è, volutamente. Proprio come affermazione che solo la fotografia può fermare il tempo, essere espressione di memento mori, dimenticandosi che il cinema ripete in ogni opera in controllo del tempo e dello spazio e del suo movimento che può essere anche fissità, fermo-immagine. “Ascent”, lo ripetiamo, è un’affascinante opera multimediale (e del resto già a novembre ha avuto una sua esposizione presso l’Hangar Bicocca, come a ribadire il luogo aduso per un’opera di arte contemporanea), e d’interesse per chi vuole conoscere aspetti importanti per la cultura giapponese. Ma proiettare una serie di fotografie con musica, delle voci over di commento e inserti sonori, non sono sufficienti per definire “Ascent” un’opera cinematografica in alcun senso, mancando di un solo elemento del linguaggio cinematografico, ma più video-arte.
Antonio Pettierre
“Hokusai, il monte Fuji, i luoghi e i volti del Giappone”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano dal 26 dicembre 2016 all’8 gennaio 2017.

martedì, dicembre 27, 2016

THE NEON DEMON

The Neon Demon
di Nicolas Winding Refn con Elle Fanning, Abbey Lee, Keanu Reeves, Christina Hendricks
Francia, USA, Danimarca
horror, thriller
durata, 117'




Assecondando le suggestioni provenienti dall’ultimo festival di Cannes dove, in termini di fischi e di cattive recensioni “The Neon Demon” è riuscito a fare peggio del precedente "Solo Dio perdona", raccogliendo disapprovazioni anche da parte di chi della stampa scritta era stato suo strenuo difensore, non si riesce a fare a meno di accomunare il destino artistico di Nicolas Winding Refn a quello del connazionale Lars Von Trier. Proprio sulla croisette infatti  i due registi hanno avuto modo di fare i conti con i rischi del mestiere passando - in un tempo relativamente breve - dalla consacrazione assoluta alla dannazione eterna. Premesso che alla pari delle altre discipline anche il cinema è condizionato dalla moda del momento e che è spesso questa a costituire il metro di misura alla quale si rifà chi è chiamato a giudicare i film, è fuor di dubbio che a scatenare le ostilità da parte della critica siano state la spregiudicatezza e le provocazioni di cui si alimenta il cinema di questi autori. Nel caso di Refn poi la contrarietà è aumentata dalla mancanza di nobiltà di forme cinematografiche che prediligono la bella immagine e non nascondono il debito nei confronti del cinema di genere più violento e popolare. Come quello di matrice horror utilizzato da Refn per raccontare la vicenda di Jesse, aspirante modella in cerca di successo che, arrivata a Los Angeles, grazie alla sua virginale innocenza finisce per  catalizzare le attenzioni di stilisti fotografi e press agent, diventando l'oggetto del desiderio di una folta schiera di ammiratrici disposte a tutto, anche a uccidere, pur di diventare uguale a lei.  

Girato senza alcun compromesso, che per il regista significa stravolgere le convenzioni proprie del genere in questione, qui rielaborate secondo le caratteristiche  del suo ultimo cinema, “The Neon Demon” riesce a fare meno della trama – nella sostanza ridotta a pochi eventi - raccontando la propria idea di mondo attraverso un flusso ininterrotto di sequenze ad alto tasso psichico. Ad essere rimossi non sono solo gli elementi del reale ma l’idea stessa di bellezza - quella del corpo femminile -  che il regista svuota di qualsivoglia erotismo e significato. Esaltate dalla musica elettronica di Cliff Martinez le astrazioni di Refn raggiungono vette psichedeliche che attraggono e insieme respingono. Dopo “Mulholland Drive” e “Map to the Stars”, film a cui quello di Refn assomiglia non poco, “The Neon Demon” potrebbe essere l’ultimo tassello di una trilogia dedicata alla città losangelina

domenica, dicembre 25, 2016

STORIA DI NATALE: SAMUEL LEE JACKSON E IL MIRACOLO DI "JUNGLE FEVER"

STORIA DI NATALE: SAMUEL LEE JACKSON E IL MIRACOLO DI "JUNGLE FEVER"




Quando in "Jungle Fever" interpreta la parte di un tossicodipendente Samuel Lee Jackson non è ancora l'attore che sarebbe diventato e soprattutto è appena uscito dal tunnel della droga che lo aveva tormentato fin dagli inizi della sua carriera. Presentato al Festival di Cannes il film di Spike Lee non vince nessun premio ad eccezione di quello andato allo stesso Jackson, la cui performance convinse la giuria ad assegnargli un premio speciale, istituendo per l'occasione quello di miglior attore non protagonista, vinto appunto dall'attore americano. Oltre a non essere mai più assegnato il premio segno il punto di non ritorno nella storia cinematografica dell'attore americano che da lì in poi sarebbe diventato uno dei migliori interpreti della nostra epoca. Certamente uno dei più iconografici.

LA FOTO DELLA SETTIMANA

































"La ribelle" di Mark Andrew e Brenda Chapman (Usa, 2012)

sabato, dicembre 24, 2016

POVERI MA RICCHI

Poveri ma ricchi
di Fausto Brizzi 
con Christian De Sica, Enrico Brignano, Lucia Ocone 
Italia, 2016 
genere: commedia 
durata: 90' 


La famiglia Tucci vive a Torresecca, paesino vicino a Zagarolo, e non ha mai conosciuto il benessere. Danilo, il padre, intreccia mozzarelle e sogna la Formula Uno; Loredana, la madre, è casalinga con l'ossessione della pulizia e un talento speciale per i supplì; la figlia Tamara fa la cassiera al super e precede ogni sua opinione con "hashtag"; Marcello, lo zio, è un disoccupato cronico col diploma di perito agrario; Nicoletta, la nonna, passa le giornate davanti alla tv e ha una cotta per Gabriel Garko. Ma i Tucci si vogliono bene e, nonostante i piccoli screzi quotidiani, costituiscono una famiglia unita, perciò quando vincono 100 milioni di euro alla lotteria la loro vita viene rivoluzionata. Rimanere a Torresecca è impossibile e si trasferiscono in blocco a Milano, prendendo alloggio in un hotel 5 stelle in zona piazza Gae Aulenti. È in quell'albergo che Marcello incontrerà Valentina, la donna che gli cambierà ulteriormente la vita. Basato su una commedia francese di grande successo, "Les Tuche", "Poveri ma ricchi" è la decima regia di Fausto Brizzi e l'ennesima collaborazione alla sceneggiatura con Mario Martani. 

Questa volta, però, complice la solida ossatura narrativa fornita dal copione francese, Brizzi e Martani hanno mano libera per fare ciò che riesce loro meglio: la sequela di battute che italianizzano la trama e rendono spassose le interazioni fra i Tucci. Sul fondo c'è l'ironia nei confronti dei provinciali della cintura romana, che è controbilanciata da una grande tenerezza nei confronti di questi scombinati, animati da buone intenzioni e da un affetto palpabile. Quel che più conta è che si ride tanto, ritrovando l'umorismo della commedia all'italiana e trasportandolo a una contemporaneità di cui si raccontano i limiti più che le lusinghe. Più di tutto funziona la squadra di attori comici italiani finalmente serviti da una trama degna di questo nome e da dialoghi veramente spiritosi e non del tutto estranei alla realtà: dai cognati Christian De Sica ed Enrico Brignano all'ottima Lucia Ocone e la divina Anna Mazzamauro, dal mitico Bebo Storti allo spassoso Giobbe Covatta al commovente Ubaldo Pantani, maggiordomo che rimanda all'adorabile Coleman di "Una poltrona per due". Anche "Poveri ma ricchi" rischia di diventare un cinepanettone: invece, sia consentita la metafora, è come un panettone ben lievitato e zeppo di canditi che lascia un buon sapore in bocca.
Riccardo Supino

CAROL

Carol
di Todd Haynes 
con Cate Blanchett, Rooney Mara
Usa, 2015
genere, drammatico
durata, 118'


Sulla carta e subito prima di diventare un film la storia d'amore raccontata da "Carol" rientra in quello spazio di eccentricità artistica che nel cinema indipendente e' diventata norma. Assurto all'attenzione del grande pubblico grazie alla presenza carismatica di Cate Blanchett che da sola garantisce la qualità della sua confezione, "Carol" è a tutti gli effetti il risultato di un cinema d'autore radicale e privo di scorciatoie. Di quelli che a prima vista sono destinati a spaventare il pubblico generalista per la tendenza a riflettere sulla materia raccontata. 

Un processo di astrazione che Todd Haynes sublima nella funzione stessa dei personaggi che soprattutto per quanto riguarda Therese, la commessa di un grande magazzino della Manhattan degli anni 50 che si innamora ricambiata di una donna dell'alta borghesia newyorkese alle prese con un matrimonio già finito, gli permette di filmare la storia con una prospettiva temporale differita rispetto a ciò che sta guardando lo spettatore. Haynes infatti per ricostruire i fatti che precedono la catarsi finale utilizza i ricordi della ragazza con un'urgenza che corrisponde più alla necessità di prendere una distanza dai fatti tale da consentire al film di raggelarne il pathos che da una coerenza di ordine estetico, di fatto tradita dalla sceneggiatura quando di Carol vengono raccontate circostanze a cui Therese non ha partecipato e che quindi lei non può raccontare.

Ecco allora che insieme alla dialettica dei sentimenti, tratteggiata dall'eccellente alchimia tra le due attrici, se ne sviluppa un'altra sotterranea ma altrettanto evidente che riguarda più propriamente il rapporto tra i personaggi e la comunità del proprio tempo (Vittoriana e bigotta), e ci sentiamo di dire tra Haynes e la società contemporanea, riflessa per esempio nelle sequenze iniziali che in diversa misura mettono le due donne in relazione alle rispettivi condizionamenti sociali (militareschi e gerarchizzati quelli che riguardano Therese e il suo posto di lavoro , rigidi e conformisti quelli della mondanita' frequentata di Carol) e a una forma di disciplinamento che le separa da tutto il resto. Come vediamo in maniera esemplare nell'inserto che fa da preludio all'atto conclusivo in cui la mdp ci mostra Therese incorniciata all'interno di un architettura che la circoscrive e la separa dalle persone che come lei stanno partecipando al party serale. 

 Come già aveva fatto in altri lavori Haynes mette al centro del suo film personaggi che lottano per affermare se stessi e la propria identità. E ancora una volta si rivolge al passato e alla ricostruzione di costume per parafrasare verità che appartengono al tempo presente. Nel caso specifico "Carol" segna il trionfo di Cate Blanchett e Rooney Mara che, costrette a rivestire di galateo e buone maniere le passioni dei loro personaggi, riescono a farle trasparire nei non detti dei loro volti impazienti. Da non perdere.

venerdì, dicembre 23, 2016

TUTTI VOGLIONO QUALCOSA

Tutti vogliono qualcosa
di Richard Linklater
con Austin Amelio, Zoey Dutch, Will Brittain
USA, 2016
genere, commedia
durata, 119'



Richard Linklater ricomincia da dove aveva lasciato riprendendo il filo del discorso di quel romanzo sulla gioventù americana che a parte qualche rara eccezione costituisce il filo rosso e il tema principale della sua intera filmografia. Nella fattispecie “Tutti vogliono qualcosa” sembra fatto apposta per rafforzare il legame di continuità con la produzione più recente del regista americano e in particolare di quello che l’aveva preceduto. Di quest’ultimo “Tutti vogliono qualcosa” sembra la naturale prosecuzione perché Jake, studente universitario e lanciatore di baseball della squadra dell’università di Austin, in Texas, dove il ragazzo sta per cominciare il proprio corso di studi, potrebbe essere l’alter ego del Mason di “Boyhood” che alla soglia dei vent’anni lasciava la famiglia per proseguire la propria istruzione accademica. Lasciate da parte le beghe adolescienziali e temporaneamente allontanate le complicazioni legate alle disfunzioni del consesso familiare il nuovo film si presenta con un piglio più divertito che riflessivo, andando a pescare in quel clima da permanent vacation che a partire da “Animal House” è diventato il cotè prediletto dei cosiddetti college movie.


Con la differenza che la goliardia, pur entrando nella storia in virtù del contagioso cameratismo che regola i rapporti tra Jake e i propri compagni di squadra, non diventa mai il fine ultimo del film e, di conseguenza, il serbatoio infinito di una serie di sketch esilaranti ma fini a se stessi. Certo, in alcuni passaggi è il buon umore e il divertimento a farla da padrone ma in generale la verve dei personaggi viene utilizzata da Linklater per esprimere il vitalismo che appartiene a una fase della vita in cui ogni cosa sembra possibile e dove anche l’anelito di diventare un campione sportivo o una grande giornalista è alla portata di chiunque sia in grado di desiderarlo. Come accade nel film del regista americano il quale, per non venire meno all’originalità della sua nomea isola la vicenda dal punto di vista temporale, collocandola nei giorni che precedono l’inizio delle lezioni. L’anomalia della scelta dal punto di vista drammaturgico produce due effetti: il primo è quello di aumentare l’emotività della storia che, oltre a contare sull’effetto nostalgia derivato dalla decisione di collocare gli avvenimenti nell’agosto del 1980, vede amplificare il sentimento d’euforia che normalmente precede la vigilia del grande evento; il secondo, forse meno vistoso ma comunque forte, è dato dalla prospettiva dello spettatore il quale da una parte è immerso - grazie anche all’apporto della musica come sempre parte in causa dei film di Linklater -  in un’atmosfera da sogno (non è un caso se il film si conclude con l’immagine di Jake addormentato sul banco del primo giorno di scuola) e dall’altra rimane cosciente della caducità di questo rito di passaggio che Linklater pur evocando con il conto alla rovescia che segnala il passare dei giorni  lascia però fuori campo. Presente come un fantasma che aleggia sulle vite dei protagonisti, preservati ma non immuni dal destino delle cose umane. Delicatezza di sguardo e umanesimo narrativo completano le qualità di uno dei lungometraggi più belli della stagione.

  

INVISIBILI: JANE GOT A GUN

Jane got a gun
di Gavin O'Connor.
con Natalie Portman, Joel Edgerton, Noah Emmerich, Ewan McGregor, Rodrigo Santoro.
USA 2016 
genere, western
durata, 98'



Il western, per certi versi e per un certo tempo, approssimazione coerente per immagini del grande romanzo americano, levita da qualche decennio - tra abbandoni quasi liberatori e recuperi in apparenza similmente febbrili - all'interno di una assai personale agonia della Fine, scissa tra l'irriducibilità all'elegia (prosciugata peraltro da ogni residuo nostalgico e propria di un mondo che ad essa comunque aveva saputo preparare il terreno) e la tentazione di sottrarsi alla transitorietà occasionale (commerciale, congiunturale) da cui gran parte di ciò che resta di quella elegia proviene.

Situate al di là o al di qua di un discrimine oggi come oggi più sentimentale che analitico-descrittivo - eppure non per questo meno esigente - diverse opere, vario il tenore e lo spessore, si sono imbattute a monte delle loro ambizioni in quella che un cavaliere pallido d'eccezione (Eastwood), al culmine d'infinite peregrinazioni all'interno del genere (quindi anche della sua mitologia, ingrediente speciale, quest'ultimo, per ampliare i contorni di una qualunque elegia), ha sintetizzato nella forma di una laconica quanto ineludibile epigrafe, attribuibile per estensione e metaforicamente al western stesso: "Loro però lo meritavano (di morire). EhMunny ?""Tutti lo meritiamo" - "The unforgiven", 1992 - Tale vibrazione, stridula ed estrema, infatti, non ha poi impiegato molto a riverberarsi, con un effetto simile a quello dei proverbiali cerchi concentrici nello specchio d'acqua, sui tentativi finalizzati più o meno deliberatamente a misurare sul campo (cinematografico) la possibilità/impossibilità di quell'elegia (intesa, qui, nel senso più generale e ampio ammissibile, a dire come riflesso di un mondo fisicamente morto ma emotivamente in grado di risuonare). Solo per fare due esempi restando nell'ambito di un passato recente e a testimonianza ulteriore della radicalità di un itinerario - quello eastwoodiano - giunto da par suo a scorgere il punto-di-non-ritorno di un intero immaginario, vale la pena ricordare, secondo la logica della sopraccitata ambivalenza, da un lato, il Jesse James di Dominik (2007), in cui il freddo contemplativo della messinscena è già una presa di congedo oltre che dalla Vita (nello specifico, quella di Jesse, quella cioè di un mito), anche dalla prospettiva leggendaria di un mondo, indi dall'ipotetica sua elegia, minata nel profondo dalla menzogna e dalla manipolazione (Robert Ford è, prima ancora che assassino, un codardo); dall'altro, il fortino agreste di "The keeping room" di Barber (2014), entro cui il canto dimesso ma indomito innalzato a partire da un episodio brutale (anche in tal caso centrato su un personaggio femminile, nello specifico tripartito in altrettante figure-specchio) ma periferico nel corpo enorme e lacerato di un conflitto - la Secessione - programmaticamente indifferente al destino del singolo, tenta di scommettere di nuovo sulle corrispondenze, le analogie e le empatie eventuali con un'elegia a cui ritiene di doversi, nonostante tutto, proclamare affine.


In una posizione intermedia a quelle appena compendiate, è sensato collocare un lavoro come "Jane got a gun", di G.O'Connor (poco prolifico ma interessante autore: il pensiero va agli attriti e alle controverse dinamiche parentali indagati in film come "Pride and glory", del 2008 e "Warrior", del 2011), protagonista la giovane donna del titolo (Jane Ballard/N.Portman), raminga con prole assieme al compagno poco di buono (Bill Hammond/N.Emmerich, attore assiduo in O'Connor) - comunque avveduto e caritatevole quel tanto da sottrarla ad un destino infame - per gli aspri territori del Nuovo Messico, in quei tempi confusi (siamo nel 1871) a ridosso della conclusione della Grande Guerra Americana, durante i quali persino i più senza scrupoli ma decisi (il John Bishop di Ewan McGregor) potevano rivestire le già equivoche sembianze dei garanti e dei procacciatori di futuro, lucrando su un'appena ritrovata fiducia nelle cose tutta presa nello sforzo di disperdere al più presto "l'odore di guerra e morte, ovunque...", rimuovendo, al tempo - e parliamo di Jane - il cruccio di un amore perduto quasi al suo nascere (Dan Frost/J.Edgerton), inghiottito dalle giravolte della Storia e da quelle bene o male infine risputato, almeno per giocare il ruolo di àncora di salvezza un attimo prima del disastro.


Indubitabilmente, l'intenzione di O'Connor, sin quando si concentra sul respiro lungo di un passato che non cessa di far sentire il proprio affanno su un presente ostilmente incerto (ben reso dalle numerose inquadrature che spiano l'opacità ialina della realtà attraverso sguardi annebbiati - quelli di Bill ferito - che non riescono più a mettere a fuoco ciò che vedono o per l'interporsi diretto di superfici trasparenti - specchi, vetri, finestre - che ne alterano la fisionomia), come pure sul contraddittorio viluppo di affetti e incomprensioni incrociate, restituisce, sebbene tratti e per lo più in quei momenti in cui prende il sopravvento una solitudine che non necessita di parole o una desolazione che non è solo la semplice estensione di una vastità disadorna, la fascinazione di quel mondo-a-parte che è/è stato ciò che chiamiamo western, intriso di valori e codici propri (non ultimi, lo stoicismo e la perpetuazione di rapporti oblativi), facendo balenare, di conseguenza e in controluce, la fiamma e la promessa stessa di un'elegia al momento tutta da costruire ma esperibile perchè risultato di un insieme autosufficiente di vicende, di riflessioni, di metamorfosi interiori. D'altro canto, è pur vero che tale intenzione si diluisce presto in un numero risicato di rivoli minori convergenti senza errore nelle medesime acque sovente poco profonde del revenge movie, a cui neanche il fulmineo addestramento alle armi - Jane prese il fucile, appunto, come Johnny quasi cinquant'anni prima, sebbene con ben altri esiti - tra l'altro già ampiamente dissacrato proprio da Eastwood nel senso di una sua progressiva riduzione a gesto anchilosato, fallace, ad avvilente goffaggine atta a sancire l'imminente smobilitazione di un solido arsenale poetico, tecnico, figurativo, retorico, musicale, et., conferisce, oltre alla funzione di elementare intermezzo spettacolare, non si sarebbe preteso una connotazione epica ma neppure l'assenza della minima dimensione tragica. In relazione a ciò, non giova nemmeno la scarsa aderenza o, se vogliamo, la percettibile incongruenza tra la dolcezza moderna dei lineamenti della Portman, la sua complessione minuta, il suo incedere vistosamente sacrificato in abiti rigidi e pesanti e il profilo scabro e sabbioso di vallate e alture (peraltro utilizzate quasi solo come sfondi muti), la quotidianità arcigna di una prassi soprattutto materiale, l'approssimazione architettonica e il luridume di agglomerati (Lullaby, nel caso, ed è un'antifrasi azzeccata) a metà fra qualcosa ab aeterno di-là-da-venire e città nate fantasma. Inoltre, se Edgerton (anche co-sceneggiatore) prova a metterci un po' del suo per rinsanguare la stanchezza-dell'eroe - schiena curva, capo spesso chino, sguardo lontano e reiterato borbottio semi-etilico - ecco che non travalica mai il limite di una partecipazione esornativa lo spietato di turno interpretato con malcelata indolenza da McGregor.

Prevale, in sintesi, su un mondo d'isolamenti tenaci e simmetriche coriacee resistenze, violenze dal sapore arcaico, biblico e speranze quasi fanciullesche, l'inerzia di una spinta daccapo meramente riepilogativo-attualizzante nei toni di un crepuscolarismo talvolta oleografico, che sostanzia se stessa drenando nutrimento dalla suggestione di un'elegia già di per sé residuale, rendendola, di fatto, sempre meno attingibile. Tu quoque, (sweet) Jane.
TFK 

giovedì, dicembre 22, 2016

FESTA DEL CINEMA DI ROMA: THE BIRTH OF A NATION

The Birth of A Nation
di Nate Parker
con Nate Parker, Armie Hammer, Aja Naomi King, Penelope Ann Miller
USA, 2016
genere, drammatico


Anticipato da una campagna mediatica eclatante e contraddittoria "The Birth of a Nation" presentato ieri nel concorso della festa di Roma è il tipico film destinato a far parlare di se per motivi extra cinematografici. A dire il vero le reazioni all'indomani della sua presentazione avvenuta lo scorso febbraio nell'ambito del Sundance Film Festival erano state a dir poco entusiastiche e non lasciavano dubbi sul giudizio espresso dai media presenti in loco, pronti a scommettere sul film come campione da battere nella prossima edizione degli Academy Awards; per non parlare dell'endorsement pubblicitario derivato dalla diffusione della cifra da capogiro pagata dalla Fox (circa 17 milioni di dollari) per l'acquisto dell'opera. Poi, proprio alla vigilia dell'uscita nella sale americane l'inversione di tendenza, con la notizia dell'accusa di stupro commissionata al regista ai tempi dell'università - dalla quale peraltro l'accusato fu prosciolto con regolare processo - sufficiente a provocare la disaffezione del pubblico (uscito il 7 ottobre in oltre 2000 schermi "The Birth of ala Nation" ha incassato finora 12 milioni di dollari) e soprattutto quella degli addetti ai lavori preoccupati di investire soldi e prestigio su un lungometraggio che per i motivi appena riferiti potrebbe essere escluso dalla corsa agli Oscar.


Al di là del fatto contingente che riguarda il privato del regista non c'è dubbio che l'escalation mediatica di "The Birth of the Nation" - arrivata al termine di un'estate caratterizzata dal riaccendersi della questione razziale legata all'uccisione di alcuni membri della comunità afro americana da parte della polizia - costituisce un fuori campo di cui non si può non tenere conto durante la visione del film. Un po' perché dopo quello che è successo nella campagna per la poltrona presidenziale è lecito pensare che lo scandalo in questione nella sua accertata infondatezza possa essere una delle tante derive dello scontro politico in atto nel paese, con il film di Parker schierato dalla parte dei più deboli preso di mira per le consapevolezze di ingiustizia e iniquità sociale di cui Parker si fa promotore nei confronti della gente di colore. Un po' perché la storia di "The Birth of a Nation" con la cronaca della ribellione di un gruppo di schiavi scoppiata nella Contea di Southampton in Virginia nell'agosto 1831 sembra sovrapporsi a mo di commento ai disordini scoppiati in seguito ai fatti delittuosi a cui abbiamo appena all'inizio del paragrafo.

Di certo c'è che "The Birth of a Nation" almeno a livello teorico, perché come spiegheremo più avanti le caratteristiche intrinseche (e l'appoggio del sistema di cui Parker aveva inizialmente goduto) in parte dicono il contrario, è un film contro a partire dalla scelta del titolo che rifacendosi a quello del capolavoro di Griffith e ribaltandone polemicamente significato e punto di vista, assegna a NateTurner, lo schiavo che si ribella trovando nella parola del Cristo la legittimazione della sua vendetta, il compito di risvegliare la coscienza del suo popolo. Ma Parker rincara la dose del suo antagonismo nel momento in cui facendo di Nate il solo e unico depositario del messaggio cristologico (concetto che "The Birh of a Nation" esplicita nella sequenza in cui Nat sfida a colpi di versetti lo spregiudicato e corrotto pastore della contea) attribuisce alla rivolta degli schiavi capeggiati dal protagonista la bandiera del primato spirituale e religioso togliendolo metaforicamente ai membri del Ku Klux Clan del film di Griffith; con ciò compiendo una riscrittura della Storia della nazione americana che va oltre le azioni compiute dai ribelli per diventare la premessa di una nuova palingenesi.
Rispetto a "12 anni schiavo" al quale il nostro strappa più di ogni altra cosa il contesto storico ambientale non si può fare a meno di notare il carattere non conciliante di "The Birth of a Nation" che nel confronto del testo scritto si rivela più convenzionale di quello che voglia far credere sia nella gestione - nella prima parte - del temi di denuncia che in quello - nella seconda - della vendetta. Ed è qui che casca l'asino perché mentre il film di McQueen poteva contare su una forma fuori dal comune che pareggiava l'ordinarietà del narrato, la vicenda di Parker ha in dote un'estetica sin troppo compassata rispetto alle pulsioni di morte che attraversano i personaggi e soprattuto una drammaturgia oltremodo scoperta nel garantirsi il coinvolgimento del pubblico che se in alcuni momenti raggiunge livelli di commozione davvero partecipe in altri si propone con un'enfasi che produce l'effetto contrario.A questo si deve aggiungere la debolezza della sceneggiatura nel trattamento della sezione più importante dell'opera, quella in cui gli attori sono chiamati a giustificare con la recitazione ma anche con le parole lo scarto psicologico che trasforma gli schiavi da vittime a carnefici. E' anche nella frettolosità per nulla convincente con cui il mite Nate smette di essere sottomesso alla propria condizione per trasformarsi in uno consumato assassino che "The Birth of a Nation" si gioca le ultime carte per distogliere chi scrive dal pensiero che il film di Parker non si discosti dalle peculiarità tipiche della produzione mainstream.
(pubblicato su ondacinema.it)

martedì, dicembre 20, 2016

MISS PEREGRINE - LA CASA DEI RAGAZZI SPECIALI

Miss Peregrine- La casa dei ragazzi speciali
di Tim Burton
con Eva Green, Asa Butterfield, Ella Purnell, Samuel Lee Jackson
Usa, 2016
genere, fantasy, avventura
durata, 127' 


Per quanto non sia la prima volta non ci era mai capitato di vedere in un film di Tim Burton una contrapposizione come quella presente in “Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali”. Il riferimento è all’antitesi tra il mondo di tutti i giorni e quello che invece scaturisce dalla fantasia del regista in cui è possibile ritrovare gli argomenti principali della sua poetica. A cominciare da quello più ricorrente rappresentato dal tema della diversità, ancora in questo caso destinato a farla da padrone attraverso gli straordinari e per certi versi inquietanti poteri di cui sono dotati gli orfani che Miss Peregrine ospita e protegge nella sua fantomatica magione. Abituati ad apprezzare gli universi bartoniani nella loro funzione taumaturgica e, di conseguenza, nelle capacità assegnategli dall'autore di farsi parte in causa della ricomposizione dei motivi che ostacolano la felicità dei personaggi (così succede a Ed Wood che all’interno del set cinematografico si sente un regista come tutti gli altri, altrettanto capita nelle tele dipinte dalla Margaret Keane di “Big Eyes” dove l’alterità dei soggetti ritratti diventa patrimonio comune della società plaudente) non si può non notare l’insistenza con cui il regista segnala il passaggio tra le due dimensioni esistenziali, destinate a darsi il cambio nei continui dentro e fuori a cui si presta l’avventura sperimentata dal giovane Jake, il cui percorso di conoscenza e di crescita viene segnalato - dalla prima all’ultima immagine - con la presenza di pertugi e anfratti che permettono al protagonista di oltrepassare la soglia del quotidiano per entrare in quella dello straordinario e del fantastico individuata dal limbo spazio temporale in cui vivono e si rifugiano Miss Peregrine e i suoi bambini.


Depotenziato della componente onirica “Miss Peregrine” sotto questo punto di vista potrebbe essere una versione all’ennesima potenza di “Alice in Wonderland”, sennonchè a differenza di quest’ultimo – emotivamente stritolato dall’uso smodato degli effetti digitali – Burton ritrova di colpo l’antica ispirazione e, con questa, anche l’equilibrio tra forma e contenuto che gli impedisce, come gli era successo ultimamente, di farsi tramite di un cinema commercialmente omologato. Qui, al contrario, la voglia di raccontare i personaggi e di caratterizzarli secondo i diversi tratti delle loro personalità si sposa con una ricerca estetica dei costumi e delle acconciature (parte della storia è ambientata negli anni della seconda guerra mondiale) lontana dalla maniera estetizzante di certi titoli e  invece  volta ad approfondire le psicologie nel tentativo peraltro riuscito di non risolverle esclusivamente in superficie, attraverso il solito stordimento sensoriale. 


Esempio ne sia il look di Emma Bloom, la cui capacità di volare trova corrispondenza nel colore azzurro della mise e nel giallo dell’ acconciatura, le cui cromie simili a quelle del sole e del cielo ci ricordano quanto sia profonda la simbiosi tra la persona e il proprio potere. Questo per sottolineare come nel nuovo Tim Burton a contare non sia solo la qualità dello spettacolo, esaltata soprattutto nella seconda parte dal perfetto mix di artigianalità e tecnologia che contraddistingue le sequenze in cui i protagonisti sono impegnati a sfuggire dalle grinfie dei mostruosi Vacui ma anche e soprattutto la tenuta drammaturgica che sotto i codici del cinema di genere (non solo fantasy e horror ma anche melò) riesce a far pulsare i sentimenti che mette in scena. Primo fra tutti quello struggente derivato dalla sovrapposizione tra la condizione dei bambini perseguitati, con l’altra, quella vera, di chi fu oggetto dello sterminio nazista (parte della storia è collocata nell’epoca della seconda guerra mondiale), rievocato nelle gesta che inducono Miss Peregrine ad occultare l’esistenza dei bambini, sottratti ai loro carnefici dal limbo temporale che li costringe a vivere un’eterna giovinezza. Il tutto in una perfetta simbiosi tra sacro e profano che fanno del film di Tim Burton uno dei migliori mainstream della stagione.