lunedì, novembre 30, 2015

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI - I RACCONTI DELL'ORSO

I racconti dell'orso
di Samuele Sestieri, Olmo Amato
Italia 2015,
genere, drammatico
durata 67’


Negli ultimi anni, da quando la rivoluzione del digitale è diventata permanente, nel cinema italiano compaiono sempre più spesso anomalie rappresentate da autori indipendenti in controtendenza con l’andazzo precedente che, escludendo i lavori di pochi autori come Sorrentino o Garrone, era tutt’altro che esaltante.

In questo contesto si muovono Samuele Sestieri e Olmo Amato, che realizzano l’opera forse più estremamente sperimentale di questa trentatreesima edizione del festival di Torino. L’intenzione, restituita appieno dalla particolarità delle riprese e del montaggio, è quella di sfidare chi guarda ad una decodifica che se da un lato potrebbe risultare estremamente complessa, visto che il mistero ed il non detto sono gli elementi alla base della narrazione – nella quale una sorta di monaco robotico insegue una figura umana senza volto ed interamente rossa – dall’altro invece appare chiaro l’invito a concentrarsi sulla restituzione che avviene sul piano emozionale.


“I racconti dell’orso”, realizzato tramite una campagna di crowfounding, è un film che nelle proprie imperfezioni – il finale molto proteso, la durata ambigua (67’ è un minutaggio al limite tra lungo e medio metraggio) – trova comunque il proprio punto di forza nell’andare ad agire sull’inconscio di chi guarda e facendo dimenticare quelle domande che probabilmente non necessitano di risposta.
Antonio Romagnoli

domenica, novembre 29, 2015

LA FOTO DELLA SETTIMANA

















Ferro 3 - La casa vuota di Kim Ki-duk (Corea del sud, 2004)

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI - KNOCK KNOCK

Knock Knock
di Eli Roth
con Keanu Reeves, Lorenza Izzo, Ana de Armas
Usa, Cile, 2015
genere thriller, horror
durata 99


Evan Webber (Keanu Reeves) è un architetto, sposato con una giovane e bella moglie, artista e 
scultrice di pop art, e con due deliziosi figli. Il fine settimana, proprio durante la festa del papà, 
rimane solo per portare avanti un lavoro urgente, mentre la famiglia si trasferisce alla casa al mare 
per trascorrere una breve vacanza. Ma durante la prima notte, sotto una pioggia scrosciante, si 
presentano davanti alla porta due ragazze che apparentemente si sono perse e cercano aiuto.
Eli Roth lasciata la foresta amazzonica di “The Green Inferno” si cimenta in un thriller con venature 
horror mettendo in scena l’errore di un uomo preso in un momento di debolezza e che paga molto 
caro. Ben presto le due ragazze si rivelano delle psicopatiche che, dopo averlo provocato in tutti i 
modi, lo coinvolgono in una notte di sesso sfrenato a tre per poi ricattarlo e perseguitarlo in ogni 
modo, rendendolo oggetto di un gioco al massacro che lo porterà alla distruzione della sua bella 
vita ordinata e borghese. Siamo lontani dal torture porn dei due “Hostel” e anche dalla sequenze 
cruenti dei cannibali del film precedente ed Eli Roth cerca di giocare sulla tensione e la suspense, 
dove la casa diventa il campo di battaglia. Certo, il regista americano sembra dirci che non c’è 
molta differenza tra i sobborghi ricchi di Hollywood e la foresta amazzonica: infatti “Knock Knock” 
inizia con la stessa sequenza aerea e al posto del verde della foresta fino ad arrivare al campo di 
lavoro, qui attraversiamo le verdi colline californiane, le ordinate strade con i villini tutti uguali fino 
ad arrivare nella casa, nei suoi corridoi, nelle stanze, come a delineare in modo inequivocabile, da 
una parte, lo spazio geografico dell’azione e, dall’altro, ribadire che l’orrore e il pericolo (sia se 
siamo in un luogo sperduto e selvaggio oppure in un quartiere ricco ed elegante del mondo 
occidentale) si nasconde ovunque e può essere rappresentato anche da due ragazze solo in 
apparenza indifese.

Il secondo elemento che fanno di “Knock Knock” l’altra faccia di “The Green Inferno” è la presenza 
di Lorenza Izzo nella parte qui di Genesis, una delle due psicopatiche, ribaltando completamente il 
personaggio che interpretava nel film precedente di giovane ragazza idealista sopravvissuta al 
massacro da parte della tribù cannibale del gruppo di studenti protestatari (e molto sprovveduti). 
Se lì la Izzo lottava contro le multinazionali e il selvaggio disboscamento della foresta per 
sfruttarne le materie prime, qui si trasforma in una erinni giustizialista contro lo strapotere del 
maschio. E la giovane attrice (moglie del regista) riesce a rendere credibile il personaggio e tiene 
testa al ben più esperto Keanu Reeves. È la prima volta che Roth utilizza una star nei suoi film e per 
la verità Reeves ci è sembrato troppo ripetitivo nelle espressioni facciali e un po’ bloccato per un 
ruolo che forse non era nelle sue corde (ma del resto è anche tra i produttori del film). 

Anche il tema dell’impossibilità della resistenza alla tentazione da parte di qualsiasi uomo, persino 
per uno fin troppo probo e onesto come Evan Webber (che a volte sembra inverosimile per 
quanto è perfetto) ai richiami delle sirene del sesso, è un po’ debole e alla fine anche leggermente 
misogino. La sceneggiatura, cui ha contribuito anche Roth, si sviluppa con una certa prevedibilità (salvata dal finale che ovviamente non sveleremo) e con alcune incongruenze (nessun amico o conoscente lo chiama mai, a parte il direttore della galleria d’arte della moglie e la sua fisioterapista; oppure le due ragazze con estrema facilità hanno ragione fisicamente dell’uomo; o ancora come sono 
venute in possesso di tutta una serie di informazioni su Webber e la famiglia? Tutti punti che 
restano in sospeso) che non brilla per originalità e imprevedibilità. Eli Roth non è certamente un autore, ma un buon regista di genere che conosce il mestiere e forse dovrebbe concentrarsi sulla regia come organizzazione del lavoro della messa in scena e non strafare nel voler ricoprire più ruoli all’interno della produzione filmica.Ma se “Knock Knock” non è all’altezza di “The Green Inferno”, resta comunque un prodotto curato e godibile per assaporare qualche brivido.
Antonio Pettierre

sabato, novembre 28, 2015

FANTASTICHERIE DI UN PASSEGGIATORE SOLITARIO

Fantasticherie di un passeggiatore solitario
di Paolo Gaudio
Italia, 2015
genere fantasy
durata, 83'


Quello dell'intreccio tra storie e personaggi di epoche diverse è un espediente narrativo che tanto si è usato nella letteratura quanto nel cinema - si pensi al recente capolavoro di Bellocchio -. Topos letterario, dunque, utilizzato anche in "Fantasticherie di un passeggiatore solitario", opera prima di Paolo Gaudio nella quale i protagonisti sono uno scrittore ottocentesco - autore del libro che dà il titolo al film - che vive in uno scantinato disadorno,  un ragazzo - dei giorni nostri - che viene per casualità in possesso del libro e i protagonisti del libro stesso - le vicende che rappresentano quest'ultimi, animati in stop motion, a nostro avviso sono il più grande pregio del film -.

Nonostante sia chiara la direzione che l'autore vorrebbe percorrere, è necessario prendere atto del fatto che l'intreccio sia sempre più mal gestito con l'avanzare della trama e che la resa visiva riguardante gli attori in-carne-ed-ossa sia su un livello che difficilmente potrebbe definirsi professionale - infrangendo la possibilità di stimolare le "ghiandole immaginifiche" di chi guarda - come al limite del'amatoriale è la recitazione degli attori, in particolare dei due ragazzi. 

Dispiace dover parlare male di un film come "Fantasticherie..." prima di tutto per le difficoltà produttive che ne hanno rallentato la realizzazione e, secondariamente, perché tra i tanti difetti s'intravede il tentativo - mirabile, ovviamente - di realizzare un romanzo di formazione sui generis senza tralasciare un certo tipo di memoria letteraria e cinematografica - si veda la citazione di un cult come "Trainspotting": da ammirare l'intenzione, totalmente da rivedere l'esecuzione.
Antonio Romagnoli

venerdì, novembre 27, 2015

RICOMINCIO DA TRE

Ricomincio da tre
di Massimo Troisi
con Massimo Troisi, Lello Arena, Fiorenza Marchegiani, Marco Messeri, Renato Scarpa, Laura Nucci
Italia, 1981, di nuovo al cinema, restaurato, 23-24 novembre 2015
genere: commedia 
durata: 110'


Il giovane Gaetano vive a San Gregorio a Cremano insieme alla famiglia e alle amicizie di sempre. Quando capisce che anche per lui è arrivato il momento di cambiare aria, decide di fare le valigie e trasferirsi presso la zia a Firenze. Qui incontra Marta, giovane infermiera col pallino della scrittura, per la quale nasce un interesse ricambiato. A movimentare le sue giornate si uniscono un parroco intimo della zia, Frankie, e il suo vecchio amico Lello, che lo raggiunge in città.
Ricomincio da tre è tornato sul grande schermo, nella versione restaurata dal Centro sperimentale di Cinematografia e distribuita in sala da Microcinema, il 23 e 24 novembre. 
Dopo più di un trentennio la voce di Lello che chiama a squarciagola Gaetano torna tra i palazzi puntellati della Napoli terremotata dagli anni '80.
Questa pellicola ha segnato la carriera di Troisi e la storia della comicità napoletana, sempre più lontana dalla commedia dell'arte, con lui più vicina ai tormenti innescati dalla vita cittadina e dal rapporto tra i sessi, stravolto dall'emancipazione della donne. Con lo sguardo attento alla società italiana post-sessantottina e l'intento di stravolgere luoghi comuni, Troisi scrive, interpreta e dirige una storia personale, ricca di nevrotici da Istituto di igiene mentale e relazioni complesse, come quella che il timido e ingenuo ragazzo del sud instaura con l'emancipata e intraprendente Marta.
Dando voce alle paure degli uomini e alla forza delle donne, con la sua poetica popolare e la verve partenopea che si spinge ben oltre il dialetto e la mimica capace di improvvisazioni dirompenti, elevandosi oltre le risa, il regista guadagna fama e popolarità, con il sorprendente esordio della Factory Film.
Fulvio Lucisano, produttore insieme a Mauro Berardi, vide Massimo Troisi al Teatro Tenda e se ne innamorò al punto da convincerlo a curare la regia del film, che l'attore napoletano voleva affidare a terzi, e da garantire egli stesso il guadagno alle sale nel caso di mancato incasso. Era una scommessa. Troisi all'epoca era già noto al grande pubblico grazie al trio comico La Smorfia - insieme a Lello Arena e Enzo Decaro - che si era fatto strada in televisione grazie a varietà come Non Stop, tra il '77 e il '79, e Luna Park, ancora nel '79. Come sempre per chi passa dalla formula breve del cabaret a quella del lungometraggio, il rischio era che gli sketch non funzionassero con altrettanta efficacia. Inoltre bisognava vincere quello scetticismo secondo cui il linguaggio di Troisi, così prossimo all'idioma napoletano, non venisse adeguatamente compreso e apprezzato a nord di Roma. Il pericolo venne evitato ricorrendo all'espediente di ripetere più volte le battute, il che funzionò bene anche come motore dell'elemento comico. Infine il film venne portato nelle sale e la sfida fu vinta. Girato in sei settimane, tra Napoli e Firenze, e costato 450 milioni di lire, Ricomincio da tre incassò 14 miliardi, ottenendo un successo senza precedenti e battendo al botteghino italiano persino Star Wars: Episodio V - L'Impero colpisce ancora. Vinse due David di Donatello, quattro Nastri d'argento e una decina di altri riconoscimenti, mise d'accordo critica e pubblico e diede nuova linfa alla commedia italiana che in quegli anni viveva un periodo di stallo. 


Nonostante l'assistenza alla regia di Umberto Angelucci, già aiuto regista per Pasolini e Petri, il film risente di una certa povertà drammaturgica e di messa in scena, i personaggi non fuggono la macchietta e i tempi sono quelli del teatro e non ancora del cinema. L'originalità del primattore tuttavia era tanta e tale da distogliere l'attenzione sulle debolezze del suo linguaggio cinematografico. Come già nella Smorfia, Troisi continua nell'opera di scardinamento degli stereotipi che gravavano sulla cultura partenopea offrendosi come rappresentante di quella Napoli  portata alla ribalta dal teatro di Annibale Ruccello, dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare e dagli altri che contribuirono in modo filologico a quest'opera di rinnovamento.

Il film segna anche l'inizio di un sodalizio artistico con Pino Daniele che, qui e in altre occasioni (Le vie del signore sono finite, Pensavo fosse amore invece era un calesse), si fa interprete di quella vena malinconica che sempre in Troisi fa da controcanto alla risata, dando alla sua comicità un segno inedito. Morando Morandini parla di «fantasia nevronapoletana e invenzioni seicentesche», Gian Piero Brunetta di «felice intergamia del Pulcinella con la maschera del Pierrot lunare». Come poeta era troppo indolente per non vedere il comico e come comico era troppo indolente per lasciar vincere la risata. La sua resta una comicità umile, ispirata e proletaria, che si rifugia nel surreale come via di fuga da una realtà che ha attraversato quasi senza toccare, ma profondamente toccandoci.
Riccardo Supino

 

TFF15 - A SIMPLE GOODBYE

A simple goodbye
di Degena Yun
con Men Tu, Liya Ai, Yingerile Ba, Degena Yun
Cina 2015
genere, drammatico
durata, 100'

Il trovarsi di fronte alla morte ed il conseguente superamento di essa è un argomento che ha raggiunto tra i picchi più alti nella letteratura – si pensi al Nick Belane del “Pulp” di Bukowski – nella pittura – si veda ad esempio l’ultimo autoritratto di Frida Kahlo – così come nel cinema. 

In quest’ottica il protagonista di “A simple goodbye”, ex-regista malato di cancro ai polmoni, si muove tra disillusione personale e non-detti con chi lo circonda – una ex moglie isterica, una figlia confusa sul proprio presente e sul proprio futuro, una sorella ossessivamente superstiziosa e una madre fin troppo accondiscendente – ritrovandosi ad essere l’unico – o perlomeno il primo –  ad aver accettato (e qui l’accettazione equivale al superamento cui facevamo cenno sopra) la propria fine.

Con una camera quasi sempre fissa sui totali, come a ritrarre le situazioni in cui il personaggio principale si ritrova e dalle quali vorrebbe sempre di più distaccarsi, la regia riesce a restituire pienamente l’elaborazione anticipata del lutto cui tutti i caratteri in scena – altissimo il livello della recitazione – sono costretti. Si tratterebbe di un’opera pressoché perfetta se non fosse per l’epilogo che, fungendo da memoriale della regista in ricordo del padre, tradisce in parte le premesse che rendono comunque “A simple goodbye” un prodotto di altissimo livello.
Antonio Romagnoli

TFF15 - JOHN FROM

John From
di João Nicolau
con Luísa Cruz, António Fonseca, Adriano Luz, Julia Palha, Leonor Silveira
Portogallo 2015
genere, commedia 
durata, 100’


Per un paradosso che non ci riesce di capire, l’unico motivo di slancio che muove l’individuo dei giorni nostri sembra essere sua maestà la Noia. Così è perlomeno per la giovane protagonista di “John From”, che decide di dare una scossa all’estate che scivolava via piatta corteggiando il vicino, fotografo molto più grande di lei e padre di una bambina.

Viaggiando di pari passo col fantasticare della ragazzina circa la relazione col dirimpettaio, il film si evolve senza forzature verso le rappresentazioni fantasmatiche della psiche di Rita – questo il nome della protagonista – che prendono il posto degli accadimenti reali. Traslazione, questa che va dalla realtà alla finzione, che oltre a condurre lo spettatore in uno stato di trance diventa una riflessione non scontata sulla funzione della narrazione cinematografica.

“John from”, tramite la propria capacità di affabulare chi guarda senza mai spezzare l’incantesimo, rappresenta un manuale – di felliniana memoria –  su come creare empatia col pubblico pur spingendo il piede sul pedale del surrealismo.
Antonio Romagnoli

giovedì, novembre 26, 2015

TFF 15 - BROOKLYN

Brooklyn
di John Crowley
con Domhnall Gleeson, Saoirse Ronan, Emily Bett Rickards, Julie Walters, Jim Broadbent
Drammatico 105’
Irlanda, Gran Bretagna 2015


Ellis è una giovane irlandese che, trovato lavoro in un grande magazzino a New York, partirà per il nuovo continente lasciando, con grande rimpianto, la sorella e la madre nella piccola realtà di paese. Dopo essersi ambientata con mille difficoltà nel contesto americano, la morte della sorella, alla quale Ellis era molto legata, farà riaffiorare nella psiche della protagonista tutti i dubbi da cui era afflitta al momento della partenza.

La trama, già di per sé melensa, viene appesantita da una  regia rigorosamente scolastica e da una colonna sonora ridondante ed onnipresente. Tutto volto a sublimare l’interpretazione  della protagonista, caratterizzata in maniera schematica oltre che prevedibile, quindi perfettamente in linea con la piega che prende il film. Come se tutto questo non bastasse, a completare la definitiva perdita di credibilità arriva un happy ending di dubbio gusto estetico ancor prima che drammaturgico. John Crowley, nel tentativo di omaggiare il cinema classico – un modo di far cinema, in ogni caso, morto su e giù più di mezzo secolo fa – ha reso “Brooklyn” un’opera che sul panorama del cinema contemporaneo rappresenta un’involuzione inspiegabile. 
Antonio Romagnoli

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI - LA FELICITA' E' UN SISTEMA COMPLESSO

La felicità è un sistema complesso
di Gianni Zanasi
con Valerio Mastandrea, Hadas Yaron, Giuseppe Battiston
Italia, 2015
genere, commedia, drammatico
durata, 117' 



Sarà per il suo modo di intendere il cinema che lo ha portato a centellinare le sue regie, sarà per il tono minimale delle storie che racconta, fatto sta che Gianni Zanasi non sembra essersi spostato di un millimetro da quella freschezza un po’ ingenua che ne aveva caratterizzato gli esordi e che ancora oggi, alla vigilia dell’uscita del suo nuovo film ci spingono ad annoverarlo tra le file degli autori del nuovo cinema italiano nonostante il regista emiliano sia attivo sin dal 1995, anno che lo vide per la prima volta sulla scena con “Nella mischia”. A conti fatti “La felicità è un sistema complesso” presentato in anteprima al festival di Torino, conferma queste premesse non solo perché a figurarvi nel ruolo del protagonista Enrico Giusti è Valerio Mastandrea che sull’understatement  e sulla spontaneità delle sue interpretazioni ha costruito l’intera carriera ma anche per la presenza di una serie di luoghi tipici del cinema di Zanasi che spingono la storia dalle parti di una leggerezza esistenziale che nei film del regista diventa l’antidoto per superare le difficoltà della vita.

Che, nel caso del film in questione sono la conseguenza di un lavoro che mette a dura prova l’equilibrio psicologico del protagonista, deciso a farsi promotore di un capitalismo etico e illuminato attraverso l’attività di intermediario tra lo studio per cui lavora e quella parte di imprenditori meno illuminati di cui si guadagna l'amicizia necessaria per convincerli a farsi da parte. A metà strada tra uno psicologo e un consulente finanziario, Enrico entra in crisi quando l’azienda gli commissiona di licenziare  Filippo e Camilla, eredi di un patrimonio industriale che i due ragazzi, rimasti improvvisamente orfani, intendono amministrare salvaguardando i diritti dei propri lavoranti.


Avendo come filo conduttore i tentativi del protagonista di guadagnarsi la fiducia dei due ragazzi, “La felicità è un sistema complesso” trova il modo di aggirare la linearità della trama allargando il suo sguardo ad un altrove scaturito dalla bellezza del paesaggio naturale, chiamato nella sua armonica purezza a fare da contrappunto al disordine esistenziale dei personaggi; oppure, affidandosi ai lunghi stacchi musicali, di trovare il modo per trasfigurare fatti e situazioni che quasi sempre finiscono per aprirsi a significati che vanno oltre la contingenza. 


Così facendo il film di Zanasi si svuota degli elementi del reale per assumere la forma di una favola filosofica e surreale in cui oltre ai dilemmi esistenziale di Enrico, chiamato a fare i conti con una passato che non riesce a lasciare andare e con un presente irrisolto e contraddittorio, entrano in gioco le motivazioni di chi gli sta accanto e di Elisa (l'attrice Hadas Yaron, già interprete di "La sposa promessa") in particolare, la ragazza del fratello a cui Enrico si ritrova a fare da balia, la cui presenza è più che altro lo stratagemma usato dalla sceneggiatura per disinnescare i mascheramenti psicologici di di cui l'uomo si serve per legittimare il suo operato. Se i conti tornano solo in parte, con personaggi che si perdono nel nulla e altri che non riescono  a diventare tali, il lungometraggio ha una tale libertà creativa e una dose di umanità così contagiosa da diventare una panacea per chi lo guarda. Per dirla con le parole del regista Pietro Marcello, "La felicità è un sistema complesso" è cinema che fa stare bene.


POINTS OF VIEW – ARIANNA - INTERVISTA A CARLO LAVAGNA


"Arianna" racconta una storia importante e originale. Può dirmi qual'è stata la genesi del film

Non sono stato io a scegliere il film ma il film a scegliere me. Questo perchè la storia di "Arianna" nasce da un sogno che feci da bambino in cui mi riconobbi in una donna di età più grande della mia. Il ricordo di quella immagine si ripresentò nel corso degli anni e insieme ad essa i ragionamenti sulla mia identità sessuale e sui perchè dell'esistenza umana. Le risposte che mi sono dato mi hanno convinto della fluidità dell'identità sessuale che alla pari delle parole utilizzate dalla poesia può assumere valenze diverse pur continuando a rimanere se stessa. Il tema dell’ermafroditismo mi dava il modo di esplorare questa sovrabbondanza di senso ed è per questo che l'ho scelto. Tra l’altro questo è un argomento che la società contemporanea non è riuscita ad assorbire come dimostrano le castrazioni messe in pratica attraverso le operazioni sempre più frequenti. Oggi comunque gli adolescenti sono diversi da quelli della mia generazione e nello specifico sono più disponibili ad avere rapporti con persone del proprio sesso; questo mi fa pensare che si stia andando verso un'apertura maggiore rispetto al passato e quindi a una migliore comprensione delle diversità, qualunque esse siano.




Quindi la gestazione del film è stata lunga.

Si in una maniera persino esagerata. La sceneggiatura è stata riscritta più volte: dapprima da me e da Carlo Salsa, poi, quando ci siamo accorti che eravamo arrivati a un punto morto e che il risultato non ci piaceva anche da Chiara Barzini. Nel frattempo avevamo perso il produttore e anche l’attrice protagonista che con il passare del tempo era diventata inadeguata al ruolo. A quel punto una mia collaboratrice mi ha proposto la figlia di un suo amico e cioè Ondina Quadri che però non aveva mai avuto esperienze cinematografiche. Sceglierla come poi ho fatto è stata una scommessa sia per me che per lei.


Da quello che ho capito il film che vediamo è diverso da quello che avevi pensato la prima volta.

Della prima stesura sullo schermo rimane poco o niente ma quello che non è cambiato è l’essenza del film. Quello che volevo dire è rimasto uguale così come l’energia che volevo trasmettere alla storia.

Il corpo inteso in senso fisico è centrale nel tuo film ma la nudità attraverso cui lo vediamo è svincolata dalla mercificazione che di solito ne fa il cinema contemporaneo. Al contempo lo sguardo che si posa su Arianna è rispettoso del pudore con cui il personaggio si mostra ai suoi coetanei. Volevo sapere quali sono stati  i limiti che ti sei imposto come regista nel offrirlo allo spettatore.

Il corpo e la sua nudità andavano affrontate perché era li che si rintracciavano i segni che definivano l’identità del personaggio. Il pudore di cui parli esiste e non è altro che il tentativo di riportare per immagini il modo con cui gli ermafroditi che abbiamo intervistato durante la fase di preparazione del film si raccontavano rispetto alle esperienze connesse con la propria peculiarità fisica. Per quanto riguarda Ondina posso dirvi che si è prestata alla telecamera in modo naturale e senza alcuna timidezza. La sua disponibilità è stata importante per riuscire a trovare il personaggio.


 A proposito di sguardo in “Arianna” riesci a trovare l’equilibrio tra le necessità di raccontare l’intimità della protagonista e come tu hai appena accennato il bisogno di rispettare il suo senso del pudore.  In termini di sguardo questo voleva dire bilanciare l’utilizzo di primi piani molto ravvicinati alla presenza di un fuori campo che proprio per quel pudore di cui parli si carica di significati decisivi. Mi potresti dire come sei riuscito ad arrivare a questa sintesi.

A volte uno si domanda in che modo servirsi delle differenze che ci sono tra uno sguardo oggettivo e quello che invece si immedesima nella realtà della protagonista. Nella scena in cui Ondina guarda il film pornografico per esempio ho scelto di non riferirmi alle immagini ma di farle vedere allo spettatore leggendole attraverso lo sguardo della protagonista. In quel caso il limite visivo  - quindi il fuori campo - diventa per me il modo di rendere materialmente lo stato d’animo della ragazza che dentro di se ha paura del sesso e che, come può constatare lo spettatore, tende a tirarsi indietro quando si tratta di farlo. In questo caso ho pensato di trasformare il limite psicologico della protagonista sottraendo allo spettatore la visione delle immagini del film pornografico.

Il fatto di raccontare la storia attraverso i ricordi della protagonista ti permetteva una grande libertà creativa, conseguente alla compresenza di diversi livelli narrativi, ma allo stesso tempo  ti esponeva al rischio  di una minore coerenza interna. Eri cosciente di questo.

Penso che la costruzione di un film dipende in massima parte dalle ragioni che ti spingono a farlo. “Arianna” nasceva da un’urgenza personale ma nel contempo affrontava un tema ben preciso e cioè quello dell’ermafroditismo. Ho pensato che raccontare la storia attraverso i ricordi della protagonista mi permetteva di inserire nella storia quello che ritenevo più interessante senza la costrizione di dover seguire una rigida cronologia dei fatti. Tra l’altro considerando che il film è un viaggio di scoperte e di conoscenze  questa forma narrativa mi permetteva una progressione più frastagliata e discontinua che rendeva bene l’alternarsi di certezze e dubbi che scandiscono la presa di coscienza di Arianna.


Il film è costato molto.

Complessivamente 380 mila euro quindi possiamo dire che è a tutti gli effetti un low budget. Se tieni conto che di questa cifra circa 180 mila sono stati assorbiti dalle tasse non è difficile immaginare quanto sia stato faticoso riuscire a stare dentro la cifra che avevamo a disposizione. Certo ho dovuto rinunciare al progetto di girare in pellicola e poi organizzare un compartimento tecnico ridotto al minimo; per risparmiare la maggior parte della troupe ha dormito all'interno della villa in cui abbiamo girato il film, il che da un certo punto di vista è stato vantaggioso ma dall'altro non mi ha permesso di staccarmi un attimo dal film con cui ho vissuto 24 su 24.



Il tuo film è molto bello da vedere e quindi ti volevo chiedere se nella composizione delle scene hai utilizzato riferimenti pittorici.

Gli unici riferimenti che ho avuto sono stati cinematografici. Certo nel corso degli anni ho sviluppato una passione per la fotografia ma quello per il cinema è stato un' amore a prima vista tanto che sin da bambino mi dilettavo a realizzare piccoli film. Senza dimenticare che da buon cinefilo ho guardato migliaia di pellicole che alla fine hanno finito anche inconsapevolmente per influenzarmi quando è giunto il momento di realizzare il mio film.

Tu sei la dimostrazione che qualcosa nel cinema italiano si sta muovendo. Quello che invece continua a mancare è un apparato capace di promuoverlo. Conosciamo molte persone che volevano vedere il film ma non ci sono riusciti perchè in molte zone d'Italia il film non era stato distribuito.

Sono d'accordo e aggiungo che questa è una consapevolezza che appartiene non solo a me. In questo senso c'è una grande volontà da parte di noi autori giovani di formare un pool di persone tra cui sono anche Alice Rohrwacher, Pietro Marcello,  capace di fare pressione sugli esercenti e sui distributori per cercare di sfondare il muro di indifferenza che circonda i prodotti meno commerciali. Vedremo come andrà a finire. Io sono fiducioso.
Adele De Blasi, Carlo Cerofolini


mercoledì, novembre 25, 2015

TFF 15 - JUST JIM

Just Jim
di Craig Roberts
con  Emile Hirsch, Craig Roberts, Aneirin Hughes, Nia Roberts, Richard Harrington
UK 2015
genere, commedia
durata, 102'

È cosa nota che il cinema si sia spesso cimentato nel tentativo di raccontare, nei più svariati modi possibili, lo stravagante mondo dell’adolescenza. In questo caso Craig Roberts, giovanissimo prodigio della recitazione, si mette contemporaneamente dietro e davanti la macchina da presa nel tentativo di descrivere l’universo complesso di Jim, sedicenne emarginato e tendente alla depressione che inizierà la propria risalita individuale grazie all’arrivo di un nuovo e misterioso vicino arrivato dall’America – interpretato da un bravissimo Emilie Hirsh, qui nei panni di mentore sui genereis e sopra le righe –.

È necessario analizzare “Just Jim” prendendo separatamente i due blocchi che compongono la pellicola: nel primo, difatti, l’incipit e lo svolgimento da black comedy sono perfetti nel lavoro drammaturgico e nella restituzione fotografica del disagio provato dal protagonista; nel secondo blocco, invece, la svolta thriller fa scendere il livello del film sia sul piano recitativo – fino a quel punto impeccabile sia da parte di Hirsh che di Craig, costretti poi ad estremizzare e denaturalizzare i caratteri come previsto dal copione – sia dal punto di vista visivo.

Anche se l’impatto iniziale viene in parte smentito dall’evoluzione narrativa, dovendo giudicare il film nella propria interezza, “Just Jim” ha comunque il pregio, pur essendo un’opera prima, di essere un prodotto comunque  sopra il livello medio delle commedie contemporanee in circolazione.
Antonio Romagnoli

TFF 15 - TE PROMETO ANARCHIA

Te Prometo Anarchia
di Julio Fernandez Cordon
con Diego Calva,  Eduardo Martinez Pena 
Messico, 2015
durata, 

Che cosa ci spinge a dire di un film come "Te prometo anarchia" del regista americano di origine messicana Julio Hernandez Cordon, di non aver confermato quanto di buono ci si poteva aspettare. Procedendo per ordine d'importanza, potremmo imputare il giudizio alla mancanza di una storia da raccontare,  a meno che non si voglia considerare tale, i pellegrinaggi dei due giovani protagonisti, due ragazzi di strada che vagano da una parte all'altra della città, in cerca di denaro facile. Oppure alla scelta di inserire la mancanza di orizzonti delle loro giornate, in un contesto sociale degradato da ogni tipo di illegalità - dal commercio del sangue a quello di vite umane - eppure incapace di incidere sul film dal punto di vista drammaturgico.  Stile e contenuti ed esibizioni di varie nudità hanno per modello il  Gus Van Sant di Paranoid Park e, in parte, la gioventù bruciata raccontata da Larry Clark. Ma anche qui, "Te prometo anarquia" non riesce a scuotersi da una programmatica imitazione che produce solo distacco e mancanza di partecipazione rispetto alle sorti degli amici amanti protagonisti di questo film.
pubblicato su ondacinema.it

martedì, novembre 24, 2015

TFF 15 - THE ASSASSIN

The assassin
di Hou Hsiao-Hsien
con Satoshi Tsumabuki, Chen Chang, Qi Shu, Shao-Huai Chang, Nikki Hsin-Ying Hsieh
Azione, 120’
Taiwan, Cina 2015


Esiste un intero immaginario che appartiene all’estremo oriente e a cui per ovvi motivi ci è precluso accedere in maniera diretta. Di quest’immaginario, dunque, non ci resta che subirne il fascino, lo stesso che avvolge il “The assassin” di Hsiao-Hsien, nel quale si narra di alcuni governatori corrotti che minacciano l’età aurea del Paese.

Con un prologo tra i più belli della storia del cinema, girato in bianco e nero e col formato 4:3, si passa ai colori accesi degli interni sfarzosi delle corti alternati con quelli pallidi delle foreste, tutti ambienti nella quale la protagonista combatterà contro gli avversari e soprattutto contro sé stessa nello scegliere tra il sentimento o la ragion di spada (da traslare, in caso di lettura sul piano moderno, nell’espressione ragion di Stato) intraprendendo combattimenti – questi girati divinamente – chiusi senza esito.

Sempre in bilico tra ricordi di antichi splendori e parallelismi con la contemporaneità – vedasi tutt’oggi la relazione complessa tra Cina e Taiwan –  “The assassin” è un’opera sublimata da una ritualizzazione del rigore estetico che contribuisce a renderla un capolavoro senza tempo.
Antonio Romagnoli

TFF 15 - LES LOUPS

Les Loups
di Sophie Deraspe
con Evelyne Brochu, Louise Portal, Benoît Gouin, Augustin Le Grand, Gilbert Sicotte
Drammatico, 107’
Canada, Francia 2015


Ambientato in un villaggio di pescatori nel nord dell’atlantico – in particolar modo di cacciatori di foche – “Les loups” narra di una giovane studentessa che cercherà di ambientarsi nella comunità per motivi inizialmente non noti.

Se viene quasi da subito svelato il mistero, in verità tematica trita e ritrita, della ricerca del padre mai conosciuto e della conseguente ricerche delle origini in un luogo dove a regnare sono la pratica – che qualcuno potrebbe giudicare atroce – dell’uccisione dei cuccioli di foca ed in particolar modo le infinite distese di ghiaccio che fanno da teatro. Mentre il principale motivo d’interesse è appunto il legame tra una ragazza occidentalizzata – quindi moralizzata all’estremo –  ed una realtà atavica che pone le proprie basi economiche e sociali proprio su quella che agli occhi della protagonista appare una barbarie ingiusta, la piattezza della narrazione mette subito da parte questi presupposti rendendo “Les loups” un film che, per non scadere nell’uso di epiteti peggiori, appare senza infamia e senza lode.
Antonio Romagnoli

lunedì, novembre 23, 2015

TFF15 - COUPE DE CHAUD

Coup de chaud
di Raphae¨l Jacoulot
con Jean-Pierre Darroussin, Grégory Gadebois, Karim Leklou, Carole Franck, Isabelle Sadoyan
Drammatico 102’
Francia 2015


Il colpo di calore che dà vita al titolo fa riferimento alla siccità che, colpendo un piccolo paesino di provincia basato su una micro-economia a sfondo per lo più agreste, aumenterà la tensione tra gli abitanti messi in ginocchio dalla situazione. Josef, ragazzo appartenente ad una famiglia rom e affetto da un problema di carattere psicologico/comportamentale aggravato dalla tendenza alla cleptomania, di questa situazione diventerà il capro espiatorio perfetto.

Le intuizioni visive, con una regia sempre accorta nel sovrapporre il disagio ambientale a quello psicologico, vanno a plasmarsi con la costruzione di uno script perfettamente bilanciato tra dramma esistenziale – in particolare quello specifico di Josef, caratterizzato da tic nevrotici e dall’ossessione per la musica frenchcore, eterno incompreso interpretato in maniera disarmante da Karim Leklou – e thriller/poliziesco.

Nonostante il volgere a conclusione diventi scontato dai tre quarti di film in poi, il versante drammatico continua a funzionare, specie nella riproposizione – tema centrale della pellicola – di un imperituro quanto insensato/improduttivo/inquietante scontro tra miserabili.
Antonio Romagnoli

HUNGER GAMES: IL CANTO DELLA RIVOLTA - PARTE 2

Hunger Games: il canto della rivolta - parte 2
di Francis Lawrence
con Jennifer Lawrence, Julian Moore, Philip Seymour Hoffman
Usa, 2015
genere, fantascienza, azione
durata, 137'



Nel giungere alla fine della saga l’ultimo capitolo di “Hunger Games: il canto della rivolta – parte 2” era chiamato a un’impresa complicata perché il compito di chiudere le fila dei vari filoni narrativi sviluppati nell’arco della sua lunga storia era sorpassato dalla necessità di realizzare una conclusione che fosse all’altezza della sua fama e in particolare che riuscisse a riscattare l’opacità degli episodi precedenti, soprattutto l’ultimo ma anche il secondo, risultati ben al di sotto degli standard qualitativi raggiunti dal film che aveva aperto la serie. Si trattava in pratica di riparare al difetto di fabbrica connaturato a un modello produttivo preconfezionato, in cui il bisogno di diluire la storia attraverso un numero prestabilito di lungometraggi aveva la priorità rispetto a eventuali problemi di coerenza narrativa e soprattutto del rispetto dei canoni di genere, gli uni e gli altri costretti a subire l’empasse provocato dall’eccessiva estensione del minutaggio.


Di fronte a questi svantaggi il nuovo “Hunger Games” risponde cercando di accelerare le fila del discorso, arrivando alla resa dei conti e quindi al confronto tra la beniamina della rivoluzione Katniss Everdeen e il perfido governatore di Capitol City, il presidente Snow, tenendo ben deste le inquietudini sentimentali della sua eroina, sempre più divisa tra l’amore per Peeta, che dopo le torture subite dal perfido Snow fatica a ritrovare se stesso, e i sentimenti nei confronti di Gale, il compagno d'armi che nel frattempo si è innamorato di lei. 


Quello che ne esce fuori è un film più adulto e meno propenso a dispensare quelle caratteristiche ludiche e spettacolari fornite a suo tempo dalla competizione relativa i giochi da cui il film prende il nome, sostituiti in questa fase da una dimensione della realtà più cupa e conflittuale, filmata da Francis Lawrence con un gigantismo apocalittico che, come sempre succede nelle vicende degli universi distopici, fa da preludio alla palingenesi finale. Jennifer Lawrence che del film è la vera star se la cava con intelligenza, facendo coincidere la propria crescità artistica e anagrafica a quella del suo personaggio, a cui dona una spessore e una consapevolezza in grado di dare senso all'espressione perennemente imbronciata assegnatagli dal copione. Per il resto "Hunger Games: il canto della rivolta - parte 2" è cinema d'azione con molta routine e qualche sequenza da ricordare: come quella dello scontro con gli Ibridi che se non fosse per le fattezze antropomorfe delle terribili creature semprerebbe prelevata da un classico della fantascienza come "Aliens" di James Cameron.

TFF15 - CEMETERY OF A SPLENDOUR

Cemetery of a splendour
di Apichatpong Weerasethakul
con Jenjira Pongpes, Banlop Lomnoi
Thailandia, UK, Germania 2015
genere, drammatico, 
durata, 115’


Ambientato in una piccola realtà della Thailandia, “Cemetery of splendour” racconta di un gruppo di soldati che, colpiti da una non ben definibile malattia del sonno, vengono ricoverati in una scuola elementare abbandonata allestita a mo’ di ospedale. Jenjira Widnes si offrirà volontaria nel prendersi cura dei militari, in particolar modo del giovane Itta, che non ha mai ricevuto visite né da parenti né da chicchessia.

Nonostante a volte la sceneggiatura pecchi di didascalismi accentuati e di incostanze ritmiche sparse, l’effetto di straniamento tende a funzionare, specie quando ci si immedesima nei volteggi onirici della protagonista. A convincere, in particolare, è l’estremo uso di un approccio visivo tipicamente orientale – inquadrature fisse curatissime nei dettagli; il continuo soffermarsi sugli oggetti; ancora, il cadenzato utilizzo dei silenzi narrativi – che va a contrapporsi con l’occidentalizzazione – al contempo invadente ma desiderata – che impietosa profana una cultura – luce dell’est – che ha ritualizzato la sacralità dell’esistenza. Chissà se i re sotterranei di cui si narra –  nell’altro regno della morte (vedi T.S. Elliot) – non stiano combattendo un’infinita guerra contro il sogno dell’oggetto.
Antonio Romagnoli

domenica, novembre 22, 2015

LA FOTO DELLA SETTIMANA


 Lost in Translation, di Sofia Coppola (Usa, 2003)

TFF 15 - PAULINA

Paulina
di Santiago Mitre
Drammatico
con Dolores Fonzi, Oscar Martinez
Argentina, Brasile, Francia 2015
durata, 103'



Rifuggire dallo stereotipo e dalla conseguente componente macchiettistica che da esso deriva diventa una necessità dal momento in cui bisogna andare a delineare i binari psicologici e/o ideologici sui quali si muoveranno i personaggi. Procedimento, questo, estraneo a buona parte del peggior cinema "all'italiana" e che invece sembra essere svolto molto accuratamente da Santiago Mitre nel suo "Paulina", come già si può intuire dal dialogo di apertura che avviene tra la protagonista - giovane e brillante avvocatessa che vuole abbandonare Buenos Aires per tornare nel paese natio a fare la maestra in un quartiere povero - ed il padre - giudice che la figlia definirà a più riprese finto-progressista/reazionario/classista -.

La volontà di potenza della protagonista diventa la chiave di volta che regge interamente il discorso drammaturgico prima - con una sceneggiatura che evita "l'ovvio" proprio grazie alla caratterizzazione ed alle scelte del personaggio, splendidamente interpretato da Dolores Fonzi - e quello visivo poi, con la camera sempre incentrata a cogliere il mutare fisiognomico della protagonista. 

Così come Woody Allen aveva affidato l'intero peso del film sulle spalle di Cate Blanchett - nel caso di "Blue Jasmine" il risultato era stato però meno esaltante - anche Mitre sembra aver composto un film "personaggiocentrico", sensazione confermata ulteriormente dal lunghissimo piano-sequenza, con l'inquadratura stretta sul volto di Paulina, che accompagna i titoli di coda.
Antonio Romagnoli

sabato, novembre 21, 2015

PAN


Pan
di Joe Wright
con Garret Hedlund,  Hugh Jackman, Rooney Mara
Usa, Uk, Australia
avventura, fantastico
durata, 111'


Il romanzo di J.M. Barrie, pubblicato per la prima volta nel 1902, ha ispirato svariate trasposizioni, negli ambiti più disparati: teatro, musical, animazione e, in larga scala, ovviamente, il cinema.
Il film diretto da Joe Wright e scritto da Jason Fuchs si prefigge di raccontare le origini, inventate, di Peter Pan, di Capitan Uncino e di introdurre l’Isola che non c’è, così come l’immaginario popolare la conosce. Personaggio chiave è lo spietato pirata Barbanera, che rapisce piccoli orfani per portarli, con la propria nave volante, proprio sull’Isola, da lui dominata. Tutto cambia quando tra quei bambini si troverà proprio Peter, abbandonato misteriosamente quando era in fasce. Dopo aver fatto la conoscenza del disilluso Uncino, il ragazzo muoverà la ribellione contro la tirannia di Barbanera, aiutato dagli indiani di Giglio Tigrato, portando a compimento un’antica profezia che lo riguarda.

In questo film, il villain un po' alternativo è Hugh Jackman, che interpreta Barbanera, sfruttando anche le proprie doti canore in un paio di scene. È apprezzabile che il doppiatore italiano sia il medesimo degli altri suoi film, fatto, questo, che ne facilita l'immediato riconoscimento. Rooney Mara ricorda poco una guerriera di una tribù indigena. Garret Hedlund è un Uncino atipico, nel ruolo forse più stravolto rispetto al romanzo di Barrie: qui amico e compagno di avventura di Peter Pan, a sua volta interpretato dall’esordiente e giovanissimo Levi Miller: un enfant prodige, dalle straordinarie doti recitative. Nomi di una certa attrattiva compaiono anche tra le comparse: Amanda Seyfried e Cara Delevingne. Wright, che, finora, si era cimentato con film in costume (Espiazione, Anna Karenina), è alla sua prima prova in un blockbuster hollywoodiano.



Non tutto è apprezzabile nel film. La reinterpretazione di “Smells Like Teen Spirit” dei Nirvana delude: è solo il primo elemento che appare fuori luogo. Tutta la componente dell’intrattenimento, infatti, si basa su dialoghi poco credibili e caratterizzazioni arrangiate se non stereotipate. Peter Pan appare come un predestinato, Uncino come un co-protagonista positivo, fino a una Giglio Tigrato messa lì quasi solo per usufruire del casting di Rooney Mara.

In questa trasposizione c’è, probabilmente, più grandiosità e finzione di ogni altra vista prima: effetti speciali realizzati con le più innovative tecniche 3D e sequenze bellissime, dai paesaggi mozzafiato, accompagnano lo spettatore durante tutto il film. Eppure, nel film manca il senso di meraviglia di un ragazzino che vola e combatte con i pirati. La mitologia celebre e immortale del coccodrillo, dei bimbi perduti, delle fate e delle sirene viene semplicemente omaggiata. Al termine della pellicola, non si comprende perché Peter Pan diventi il ragazzo che non vuole crescere.

Da sottolineare la notevole attenzione del regista nei confronti degli spettatori più piccoli, in quanto ha reso questo film adatto a tutta la famiglia. Ha rinunciato all’inserimento di scene cruente, sostituendo al sangue nuvole di colore, per rappresentare la morte dei vari personaggi. È un film adatto agli amanti del fantasy e di Peter Pan.
Riccardo Supino



venerdì, novembre 20, 2015

10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - DOBBIAMO PARLARE

Dobbiamo parlare
di Sergio Rubini
con Sergio Rubini, Isabella Ragonese, Fabrizio Bentovoglio, Maria Pia Calzone
Italia, 2015
genere, drammatico, commedia
durata, 98'



All'inizio degli anni 90 la critica italiana per sottolineare i difetti della nostra cinematografia coniò un espressione "cinema da due camere e cucina" che ironizzava sulla tendenza di registi e sceneggiatori di collocare le proprie storie in ambienti casalinghi modesti e  angusti, che finivano per diventare il simbolo della  mancanza di prospettive e di una certa forma di indulgenza che caratterizzava le produzioni di quel periodo. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di un cinema che, nel tentativo di scrollarsi di dosso i fantasmi del suo glorioso passato finiva inesorabilmente per ripiegarsi su se stesso. Ebbene, questa boutade c'è tornata in mente durante la visione del nuovo film di Sergio Rubini che il regista e attore pugliese ha presentato al festival di Roma in una proiezione presieduta dal direttore della manifestazione Antonio Monda, garante della qualità di un'opera che attraverso i suoi collaboratori aveva in qualche modo contribuito a selezionare. In un primo momento pensavamo che a motivarne l'idea fosse stata appunto l'ambientazione della storia, girata interamente all'interno di un attico romano affacciato sul centro di Roma, e poi il soggetto della vicenda, centrato sullo scontro verbale che si scatena tra due coppie d'amici che si amano e si odiano nell'arco di una nottata trascorsa a rinfacciarsi tradimenti e ipocrisie.




E a poco era servito, nel tentativo di sconfessare questa sensazione, il paragone lusinghiero - in termini di intenti e aspirazioni - con il "Carnage" del grande Roman Polanski; perché, pur nella corrispondenza dei temi e della struttura narrativa, il film di Rubini purtroppo non possedeva la capacità di sublimazione che aveva permesso al cineasta polacco di superare la pesantezza del testo con quel sarcasmo e quell'cattiveria  che nel lungometraggio di Rubini si trasformano nel compiaciuto riconoscimento della propria intelligenza e perspicacia. A mente fredda, si fanno strada  più modestamente titoli come "Maldamore" di Angelo Longoni e "In nome del figlio" di Francesca Archibugi che di "Dobbiamo parlare" sembrano una sorta di anticipazione e che, nella continuità di luogo, situazione e personagg,i finiscono per alimentare la sensazione di un ritorno a quei difetti del cinema italiano che i critici si divertivano a prendere in giro con l'espressione di cui parlavamo in apertura. Fortunatamente, non è così, perché come abbiamo avuto modo di constatare proprio qui a Roma con il film di Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot), ultimo arrivato di una nuova generazione di registi, le prospettive del nostro movimento sono tutt'altro che malvagie. Eppure dispiace che sia proprio sia proprio Rubini a fornire il destro per rammentarci di quanto ancora ci sia da lavorare per disfarsi di ciò che non funziona, perché il regista pugliese si era ritagliato un posto di rilievo tra gli autori della sua generazione in virtù di una serie di titoli (da "La terra" a "L'amore ritorna" al bellissimo e sottovalutato "Colpo d'occhio") tanto personali quanto moderni nel ritratto della nevrosi dell'uomo contemporaneo.

A tradire la riuscita di "Dobbiamo parlare", per quanto possono valere questo tipo di distinzioni, non sono i personaggi e con loro, le interpretazioni che ne danno Maria Pia Calzone (una rivelazione qui e altrove) Isabella Ragonese, Fabrizio Bentivoglio (che nel suo accento romano però risulta un poco sopra le righe) e lo stesso Rubini che dopo "Colpo d'occhio" si ritaglia un altro ruolo di artista e intellettuale; quanto piuttosto le forzature che riguardano sia il meccanismo narrativo che da vita al valzer di contrapposizioni e punti di vista orchestrati per l'allucinato rendez vous , troppo scoperto e calcolato per risultare credibile, sia la sceneggiatura, che nel voler essere la cartina di tornasole della complessità politica sociale ed economica della nazione finisce per darne un ritratto stereotipato. La conseguenza più evidente è quella di azzerare il fuori campo a cui vorrebbero rimandare i costumi e la mentalità dei personaggi: quel mondo così poco sommerso di cui ogni giorno leggiamo e che l'opera ambisce a ritrarre con esattezza. Ipse dixit: ciò che rimane è ancora una volta la dimensione ristretta due camere e cucina del succitato tormentone.
(pubblicato su ondacinema.it)

giovedì, novembre 19, 2015

68 FESTIVAL DEL FILM DI LOCARNO: BELLA E PERDUTA


Bella e perduta
di Pietro Marcello
Italia, 2015
genere, documentario
durata, 88'
Negli ultimi anni il festival di Locarno si è distinto per dare voce alle espressioni più radicali e innovative del nuovo cinema italiano, diventando, grazie alla lungimiranza dei vari direttori, una sorta di isola felice per le libertà del nostro - e non solo - cinema d'autore. Pensiamo a certi titoli rimasti nella memoria per l'intransigenza dei loro contenuti e, senza andare troppo indietro, a film come "Sangue" di Pippo Delbono, e a "Pays Barbare" di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, capaci di guardare all'Italia e alla sue tradizioni senza alcun tipo di filtro e di compromesso rispetto alla verità delle cose. Della stessa radicalità ma con toni decisamente più poetici, si nutre il film italiano in concorso in questa edizione del festival, perché "Bella e perduta" del regista e documentarista Pietro Marcello contiene, all'interno delle sue molteplici stratificazioni, una visione altrettanto chiara e consapevole della realtà del nostro paese. Marcello per raccontare l'Italia contemporanea e, in particolare, quella del territorio che circoscrive la provincia casertana, dove egli è nato, parte da un personaggio reale, il pastore Tommaso Castrone che decise di occuparsi della reggia di Carditello nel tentativo di salvarla dal degrado in cui lo Stato l'ha lasciata; fondendo tale racconto alla cronaca dei nostri giorni, quella che si riferisce alle problematiche legate alla cosiddetta Terra dei fuochi, l'autore dà vita a una sorta di fiaba moderna, in cui il viaggio di Pulcinella e del bufalo Sarchiapone diventano il modo scelto dal regista per recuperare la bellezza dimenticata e ancora oggi rintracciabile nel nostro territorio. Un atto a dir poco eversivo, se pensiamo che Marcello, come di consuetudine, costruisce la sua storia privandola di quelle convenzioni narrative più tradizionali, che si identificano nello sviluppo lineare della trama e nella necessità di protagonisti dalle motivazioni chiaramente delineate. 
Al contrario, il regista casertano non solo si adopera per privare i caratteri della centralità che normalmente spetterebbero loro ma, in una sorta di staffetta cinematografica, decide di spostare continuamente il punto di vista da un personaggio all'altro, costruendo un coro di voci, di sensazioni e soprattutto di sguardi che, nel complesso, compiono una vera e propria riscoperta del paesaggio italiano, deturpato e offeso dalle barbarie degli uomini, e in questo caso, invece, collocato con tutta la sua bellezza dentro il cuore del film. 

Consegnando all'intervista realizzata con il regista, il compito di raccontare al lettore le vicissitudini intercorse durante la lavorazione della pellicola e del conseguente stravolgimento dell'idea iniziale dell'opera, quello che preme sottolineare in questa sede è innanzitutto la continuità che "Bella e Perduta" stabilisce con il resto della filmografia di Marcello. Perchè a partire dai personaggi della vicenda, tutti, compreso Pulcinella - condannato al suo ruolo di maschera e di tramite tra i vivi e i morti - sono ascrivibili a quella schiera di umiliati e offesi, di cui il cinema del regista si prende la briga di mostrare nel loro epico eroismo (basti pensare al bufalo Sarchiapone condannato in anticipo dal solo fatto di non poter fornire alcun beneficio ai suoi possessori), per continuare con il desiderio di riscoperta e valorizzazione del territorio (dal casertano la vicenda arriverà a toccare le pendici della Tuscia) e della sua storia, "Bella e perduta" è contaminato dai germi di quel cinema poetico e sociale che Marcello aveva rappresentato attraverso opere come "Il passaggio della linea" (2007) e "La bocca del lupo" (2009). 
E sempre per restare in tema di analogie, come non citare il montaggio della fedele Sara Fgaier, qui anche in veste di produttrice, per il modo in cui durante il film valorizza gli echi di quei contrasti tra natura e civiltà che erano stati al centro dell'opera di quel Artavazd Pelešjan, il grande regista armeno che Marcello aveva incontrato ne "Il silenzio di Pelajan", presentato al festival di Venezia del 2011 e poi letteralmente nascosto agli occhi dello spettatore. Ora, se consideriamo la colonizzazione culturale compiuta dalla televisione negli ultimi vent'anni, il film di Pietro Marcello potrebbe apparire come un'opera fuori dal tempo e a dir poco presuntuosa nella sua evidente diversità. Se, al contrario, ragioniamo in termini di investimento culturale, e in questo caso non possiamo non citare l'indispensabilità di Paola Malanga che dopo "L'infinta fabbrica del Duomo" ritroviamo in veste di produttrice, allora "Bella e perduta" diventa qualcosa da conservare con cura e da far vedere al cinema e nelle scuole, per risvegliare le coscienze e per guarire il nostro modo di vedere.
(pubblicata su ondacinema.it/speciale 68 festival del film di Locarno)