mercoledì, settembre 02, 2015

68 FESTIVAL DEL FILM DI LOCARNO: SOUTHPAW - L'ULTIMA SFIDA

Southpaw
di Antoine Fuqua
con Jake Gyllenhall, Rachel MacAdams, Forest Whitaker
Usa, 2015
genere, drammatico
durata, 122'

Non è più novità annoverare Antoine Fuqua tra quegli autori di cui si può pensare tutto e il contrario di tutto. A favore del regista americano gioca l'effetto boomerang provocato dal successo di un film come "Training Day", entrato nella storia del cinema contemporaneo per aver consentito a Denzel Washington di vincere un Oscar (come miglior protagonista) che, a quasi 40 anni dalla storica vittoria di Sidney Poitier (I gigli nel campo, 1963) tornava a premiare un attore di colore. Forte di quel credito e, diciamolo pure, di un risultato finale che si distingueva dalle altre pellicole della sua categoria per l'energia della messinscena e la sfrontatezza dei contenuti, Fuqua non è riuscito a confermare le credibiltà conquistata con il film in questione, infilandosi in una serie di progetti di dubbia qualità, e viziati, prima ancora di iniziare a girare, dalla mancanza di una scrittura in grado di giustificarne la produzione. Così, la carenza che, in parte, era stata la causa della parziale riuscita di "Equalizer", si ripresenta ancora più forte in un film come Southpaw, obbligato, indipendentemente dalla sua validità, a svincolarsi dal pregiudizio che lo voleva come l'ennesimo epigono di "Rocky", che il film di Fuqua ricorda, sia nel mestiere del protagonista Bobby Hope, anch'egli boxer come già lo era stato il personaggio interpretato da Sylvester Stallone; sia nella sostanza nell'impianto narrativo che, alla vicenda di una rinascita sportiva coronata dalla vittoria del titolo mondiale, aggiungeva un percorso di emancipazione personale ottenuta appunto, attraverso il sacrificio degli allenamenti necessari per il raggiungimento del primato. Nella sostanza "Southpaw" fa poco o niente per screditare le accuse che gli vengono avanzate perché, dopo un inizio incoraggiante, che può contare sulla presenza di Rachel McAdams, a rappresentare la variabile femminile necessaria a contrastare la massiccia dose di muscoli e testosterone già in dote alla storia, il film di Fuqua segue la falsariga del canovaccio del modello di riferimento.  E quindi, si divide equamente tra i sensi di colpa di Hope, che si sente responsabile della morte della moglie e che rischia di perdere la figlia a causa delle sue molte intemperanze, e le fasi di avvicinamento all'incontro decisivo che, come sempre accade, costituirà il viatico per il definitivo riscatto del nostro campione.


Se a un regista come Fuqua non si poteva chiedere di cambiare le sorti di un simile copione, certamente il suo ingaggio era stato determinato dalla possibilità dell'autore di imprimere alla storia quelle caratteristiche di spettacolo e di energia di cui abbiamo accennato poc'anzi. E invece, non solo il regista si appiattisce in un allestimento di routine, con le scene di box costruite senza nessuna inventiva e sulla falsariga di un già visto da prodotto televisivo (il totale dell'arena straripante seguita dallo stacco sui volti dei pugili sistematicamente utilizzato per introdurre i vari combattimenti), ma estende tale trattamento alla gestione degli attori, che dopo l'uscita di scena della MacAdams - a conferma della tendenza misogena del cinema di Fuqua - risulta deficitaria, soprattutto per quanto riguarda la resa di Jake Gyllenhall, muscolato a dovere ma piuttosto impacciato quando si tratta di rendere l'adrenalina del combattimeno; con quello che ne consegue in termini di enfasi facciale e sofferenze corporali, davvero troppo esagerate anche per un viaggio di espiazione come quello compiuto da Hope. Il coinvolgimnento viene meno e, alla fine, si rimane con in mano un pugno di mosche e con la sensazione di un regista che non riesce ancora a ritrovarsi.
 (pubblicato su ondacinema.it/speciale 68 festival di Locarno)


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