venerdì, aprile 10, 2015

ROBERT CAPA – FRA CINEMA E FOTOGRAFIA: THE JOURNEY/HOMME QUI VOULAIT CROIRE A SA LEGEND

The Journey
di Robert Capa


The Journey è un film di Robert Capa, unica testimonianza del miglior reporter di guerra del XX secolo dietro la macchina da presa non in veste di fotografo ma di regista.
Il mediometraggio é stato fortemente voluto dal neonato stato d'Israele per favorire la raccolta di fondi a favore dei sopravvissuti alla Shoah che, una volta approdati nel porto di Haifa, sarebbero divenuti cittadini israeliani.  A metà strada fra il documentario e il filmato propagandistico della prima metà del secolo —in questo senso é da notare l'utilizzo di un'immagine intrisa di retorica politica—, l'opera si sviluppa secondo una rapida successione di immagini che paiono cartoline in movimento più che estratti cinematografici. Le inquadrature, ad altezza d'uomo, sono strutturate in composizioni certamente non ricercate o raffinate, ma immediatamente fruibili e indagabili dell'occhio del possibile fruitore, in accordo con le finalità politico-sociale che animano il film. La telecamera si sofferma sulla fisionomia dei suoi attori, di cui indaga, tra le rughe d'espressione e impercettibili movimenti facciali, emozioni e sentimenti che confermano le parole entusiastiche con cui una voce fuori campo descrive la nascita dello Stato d'Israele. Il film è dichiaratamente incompleto perché la storia d'Israele deve ancora essere scritta, questo il messaggio che Capa nel lontano 1950 ha lasciato ai posteri. Le scene successive sono state redatte, nel bene o nel male, da noi, e il giudizio su questo operata non sarà sottoposto a critici impietosi ma al ben più severo tribunale della coscienza politica internazionale.




Homme qui voulait croire à sa légende
di Patrick Jeudy


Merito di Jeudy è quello di universalizzare la portata dell'affaire Capa, spostare l'indagine sullo statuto della professione del reporter di guerra. Come lo stesso Capa appuntó nel suo diario, egli venne tacciato da un soldato che lo colse nell'atto di fotografare un compagno morto, di essere un avvoltoio. È innegabile che il suo successo derivi dall'essere stato capace di danzare con la morte così vicino da riuscire ad immortalarla durante ben cinque conflitti bellici. È moralmente accettabile, si chiede fra le righe il regista, che l'estro di Capa sia stato riconosciuto in tutto il mondo grazie ad una fotografia, come la celebre del combattente spagnolo, o innumerevoli altre di donne incinta coperte di sangue, corpi di bambini morti o anziani che piangono i figli? Se col suo operato ha fatto conoscere a tutto il mondo le nefandezze della guerra, il suo successo è innegabilmente macchiato del sangue di altri, senza il quale non sarebbe mai stato possibile. Coraggiosamente L’Homme qui voulait croire à sa légende scava nel l'interiorità del personaggio che Endre Ernő Friedmann ha costruito e a cui ha malvolentieri obbedito, come l'abuso di alcol e una vita continuamente al limite dimostrano.
Il documentario, non molto velatamente, fornisce un'immagine di Capa vicina a quella dell'artista maledetto, e, senza fornire alcuna risposta palese, mette la pulce nell'orecchio dello spettatore, spingendolo a interrogarsi  sul motivo per cui alcune delle sue fotografie —inutile dire che fra queste si trova quella del miliziano— siano state rivendicate dal fratello Cornell e dalla Magnum, che ora ne possiede interamente i diritti.





La guerra per l'indipendenza d'Israele è stato il conflitto più intimamente vissuto e partecipato da Capa, ungherese d'origine ebraiche, come mostrato in L’Homme qui voulait croire à sa légende. Nel documentario, Patrick Jeudy, oltre ad affrontare l'annoso problema dell'autenticità della sua più celebre foto —quella del miliziano spagnolo colpito a morte e immortalato nell'attimo che congiunge vita e morte—,  getta nuova luce sul personaggio-Capa, sdoganandolo dai comodi topoi dall'opinione comune, che lo ha oramai posto nel novero dei più grandi artisti dello scorso secolo.

Erica Belluzzi

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