giovedì, aprile 30, 2015

CAKE

Cake
di Daniel Barnz
con Jennifer Aniston, Anna Hendrick, Sam Wortingthon
Usa, 2015
genere, drammatico
durata, 102'


Il modello americano, ormai da tempo, è l’unità di misura che l’intera cultura occidentale ha adottato come convenzione per riferirsi a qualsiasi aspetto sociale e/o individuale che la tiene ancora miracolosamente in vita. Accade dunque che in un film come “Cake”  Claire, una ricca bianca - così 

viene definita da un farmacista di Tijuana -, provando a ri/sincoronizzarsi con ciò che la circonda in seguito ad un incidente ed all’affiorare dei vari fantasmi che emergeranno col proseguire della narrazione - si veda la scena in cui la protagonista, stesa sui binari del treno, nomina le patatine del Mc Donald’s  nel rievocare il figlio morto -, sia l’efficace rappresentazione del nonnulla celato dalla luccicante illusione made in U.S.A.

Elemento interessante e qui ben decodificato, in primo luogo, è quello dell’utilizzo di uno sguardo femminile - con meno fortuna, tra titoli recenti, lo stesso tentativo s’era fatto con “Wilde” e “Still Alice” -, che ben sopperisce alla mancanza della soggettiva solitamente maschilista del mezzo cinematografico e che fornisce a chi guarda nuovi punti di vista. È altresì fondamentale il disagio che la protagonista vive parallelamente al fruitore, con l’handicap fisico di Claire che si evolve o involve parallelamente al proprio stato mentale - sotto questo aspetto sono eloquenti le difficoltà vissute nel rapporto sessuale o nel viaggiare in macchina -.

Cake” - grazie anche ad una straordinaria quanto inaspettata interpretazione da parte di Jennifer Aniston, il cui volto sempre sull’orlo della disperazione è continuamente cercato e preso spesso in primo piano dalla mdp -, nonostante non sia un film esente da difetti e l’intravisto ottimismo finale,  è un’opera  in grado di restituire impazientemente le contraddizioni della propria epoca e dei propri luoghi.
Antonio Romagnoli

VERGINE GIURATA

Vergine giurata
di Laura Bispuri
con Alba Rohrwacher, Flonja Kodheli, Emily Ferratello, Lars Eidinger
Italia, 2015
genere, drammatico
durata, 90'


Abituato a raccontarsi all'interno dei confini nazionali, il cinema italiano negli ultimi anni è attraversato da una necessità di cambiamento che interessa tanto il sistema produttivo, con progetti nati sulla scia di nuove forme di sovvenzionamento e di distribuzione (pensiamo allo streaming on demand e al crowdfunding), quanto la sua genesi narrativa, sempre più propensa a occuparsi di storie che enfatizzano la trasformazione attraverso continue fughe dalla terra natia. Soffermandosi su quest'ultimo aspetto e tralasciando gli esempi, peraltro numerosissimi, riconducibili alla commedia italiana più recente che ha fatto del "movimento logistico" il volano di ogni intreccio ("Sei mai stata sulla luna?" ne è solo il modello più recente) la ricerca di nuovi spazi vitali ha dato vita a una sorta di osmosi geografica e antropologica, resa tale dai movimenti da e verso il nostro paese. Se la fuga dall'Italia coincide quasi sempre con motivi di ordine esistenziale, come accade in "Un giorno devi andare" di Giorgio Diritti e in parte in un film "leggero" come "Viaggio da sola" di Maria Sole Tognazzi, la presenza straniera nella nostra penisola nasce molto spesso da vicissitudini di tipo economico, legate al fenomeno migratorio che ha investito l'intero continente.

In un contesto che abbraccia entrambe le possibilità si inserisce "Vergine giurata", dell'esordiente Laura Bispuri che, rifacendosi all'omonimo libro di Elvira Dones, narra le vicende di una ragazza albanese (Alba Rohrwacher), costretta dalla legge del Kanun -praticata nelle zone più remote di quel paese- , a rinunciare alla propria femminilità per acquisire gli stessi diritti della compagine maschile. E, contemporaneamente, dopo la morte dei genitori adottivi, della decisione di Hana (diventata nel frattempo Mark) di trasferirsi in Italia per ritrovare la sorella e forse se stessa.


La Bispuri, pur assegnando alla sua protagonista una condizione di sofferenza e di subordinazione appartenente alla maggior parte dei clandestini che sbarcano ogni giorno sulle nostre coste, evita di consegnarsi alla scelta più facile e remunerativa dal punto di vista empatico. Così, benché la regista non risparmi nulla degli aspetti più crudi della cultura albanese, arrivando a toccare momenti di puro cinema antropologico nella scena del funerale, con le donne in secondo piano e gli anziani del villaggio a guidare la cerimonia, a ribadire l'assoluta supremazia della componente maschile, "Vergine giurata" evita di stigmatizzare quelle usanze ed anzi, attraverso il rispetto di Mark nei confronti del padre padrone, si accosta a quel mondo in punta di piedi e con una delicatezza che stempera in qualche modo la violenza di quei comportamenti. Ma non solo, perché liberando il film da qualsiasi tipo di ricatto terzomondista, e lasciando che a parlare sia la fisicità dei suoi protagonisti, la regista riesce a trasformare l'intera vicenda in qualcosa di diverso ed eccezionale. Da una lato, esplorando la realtà con "un'estraneità" derivata in parte dall'adozione del punto di vista di Mark/Hana, in parte dalla scelta di precludere l'ambiente italiano a una riconoscibilità topografica e folkloristica; dall'altra, trasformando "Vergine giurata" in un percorso di liberazione tutto al femminile, che coinvolge in una sorta di reciproco soccorso anche Iolanda, la figlia italiana di Lila, la sorella di Mark, a testimonianza di una condizione, quella della donna, che è universale e non legata ad alcun particolarismo.


La Bispuri utilizza una tecnica mista, che prende molto dal cinema del reale (oltre allo stile di ripresa e al rispetto delle location, efficace e coraggiosa è la scelta di far parlare Mark in lingua albanese), senza rinunciare a momenti di lirismo che prendono forza dall'assoluta veridicità di ciò che vediamo. A cominciare dalle suggestioni indotte dagli inserti dedicati al rapporto tra la protagonista e il ragazzo conosciuto in piscina, in cui l'istintualità violenta e rapace dei personaggi sottolinea la volontà di liberarsi da qualsiasi tipo di condizionamento o sovrastruttura. Oppure, nelle due scene, quella delle ragazze che urlano di gioia, schiamazzando sotto i portici, e nella ripresa subacquea, con la soggettiva sulle gambe in movimento delle atlete di nuoto sincronizzato, in cui le pulsioni sessuali di Mark vengono anticipate dalla spontaneità di quelle esternazioni. Contribuisce al risultato una straordinaria Alba Rohrwacher, capace di calarsi nel ruolo con immedesimazione da Actors Studio. Il resto del cast, formato anche da attori alla prima esperienza non gli e' da meno, a conferma di una bontà complessiva davvero sopra la medi.
(pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, aprile 29, 2015

RITORNO AL MARIGOLD HOTEL

Ritorno al Marigold Hotel
di John Madden
con Maggie Smith, Judi Dench, Dev Patel
Usa, 2015
genere, commedia, romantica
durata, 122'


Il senso della vita connesso con la presenza di un altrove geografico sono alla base di questo nuovo episodio dedicato al Marigold Hotel, il residence indiano che abbiamo imparato a conoscere attraverso le avventure della pittoresca comunità, raccontata nel primo dei due film diretti da John Madden. La particolarità di quel soggiorno, è bene ricordarlo, consisteva nel fatto che la clientela dell’hotel vi abitava in pianta stabile, alla maniera di un buen retiro in cui passare il resto della vita. Salvo eccezioni che, nel caso di questo “Ritorno al Marigold Hotel”, comprendono tra le altre, la temporanea new entry di Richard Gere, chiamato a prestare fascino e carisma all’aspirante scrittore che si innamora della madre di Sonny (il Dev Patel di "The Millionaire"), nel frattempo impegnato a trovare investitori in grado di sponsorizzare la costruzione di un nuovo albergo. La presenza del divo americano però, non è solo l’espediente narrativo necessario a movimentare l’esistenza della pittoresca comunità, perché l’interprete di “Pretty Woman”, per stile di vita e background filosofico, costituisce quel surplus di credibilità in grado di legittimare i sentimenti di armonia e di condivisione che stanno alla base di questa nuova storia. 


Per il resto "Ritorno a Marigold Hotel" segue il canovaccio del suo predecessore, con l'esotismo dell’ambientazione e i clichè tipici delle storie dedicate alla terza età, ravvivati dagli sequenze dedicate ai preparativi di nozze di Sonny e della sua bella fidanzata, inserite ad arte per riprodurre la vitalità festosa e colorata del cinema bollywoodiano, ripreso nelle cadenze musicali e nelle scene di ballo in cui si cimentano i giovani innamorati. John Madden, regista di belle speranze poi vanificate da una serie di scelte poco fortunate, si mette a disposizione della storia con una regia convenzionale e però attenta ad adeguarsi alla sobrietà dei suoi interpreti  (tra cui ricordiamo Maggie Smith e Judi Dench), capaci di supplire agli stereotipi della sceneggiatura con l’understatement tipico di chi non ha più nulla da dimostrare.   

martedì, aprile 28, 2015

CHILD 44- IL BAMBINO NUMERO 44

Child 44
di Daniel Espinosa
con Tom Hardy, Naomi Rapace, Gary Oldman, Vincent Cassell
Usa, 2014
genere, thriller, drammatico
durata, 137'
 
 
Non molto tempo fa tra gli slogan utilizzati per demonizzare le storture del regime sovietico ce n’era uno che alludeva alla presunta antropofagia dei militanti comunisti, accusati di cibarsi di carne umana e in particolare di quella dei bambini. L’affermazione, ovviamente priva di alcuna verità storica, era la conseguenza dello scalpore suscitato dal caso di Andrei Chikatilo, il cosiddetto mostro di Rostov che negli anni della Perestrojka venne riconosciuto colpevole di aver ucciso più di cinquanta tra donne e bambini. A quegli avvenimenti guarda “Child 44”, per raccontare la versione romanzata dell’indagine che portò all’individuazione e alla cattura di Chikatilo da parte dell’ufficiale incaricato di seguirne il caso. Trattandosi di un prodotto hollywoodiano, il film esaspera l’ego dei caratteri, escludendo dal cast la presenza di attori autoctoni e assegnando i ruoli principali ad alcuni degli interpreti più vista e apprezzati del panorama internazionale. Una scelta che finisce per influire sugli esiti del film nei modi di cui parleremo, non prima di aver puntualizzato che “Child 44”, soffermandosi sulla progressiva presa di coscienza di Leo Demidov (Tom Hardy), eroe di guerra e ufficiale della polizia segreta che ad un certo punto si ritrova vittima del sistema di cui egli stesso era fautore, stabilisce un profondo legame - narrativo e drammaturgico- tra la mostruosità degli atti di cui si macchia lo spietato assassino e le nefandezze commesse in nome dell’ideologia comunista. Una soluzione che spinge lo spettatore all’interno di un’indagine a doppio filo che vede da una parte, il dispiegarsi del processo investigativo messo in atto per catturare l’assassino e dall’altra, l’inesorabile disvelamento dei meccanismi del potere e dell’oppressione perpetrato dagli sgherri del regime.
 
Per questo motivo Daniel Espinosa, nel tentativo di tenere insieme i filoni della storia, sottopone il film a una continua serie di sbilanciamenti che finiscono per slabbrarne il tessuto narrativo. A perdersi per strada sono i nessi logici, la continuità dell'intreccio come pure le psicologie dei personaggi costretti a brancolare nel buio per mancanza di motivazioni plausibili. Un marasma generale che crea contraddizioni (per esempio negli atteggiamenti di Raisa, la moglie di Leo, innamorata ad intermittenza del proprio marito), azzera la tensione (condizionata da una caccia all'uomo del tutto casuale) e spinge gli attori ad occupare ciò che manca con una caratterizzazione che risulta eccessiva e, nel caso di Hardy, completamente monocorde.

lunedì, aprile 27, 2015

SAMBA

Samba
di Eric Toledano e Oliver Nakache
con Omar Sy,Charlotte Gainsbourg, Tahar Rahim
Francia, 2014
genere, commedia
durata, 116'
 

Pronti e via. Eric Toledano e Oliver Nakache non sono tipi che la prendono alla larga e così, nel raccontare l’incontro di mondi diversi e lontani, come possono esserlo quello di un immigrato senegalese (Samba) in odore di espulsione e di una single borghese e un pò depressa (Alice), decidono di fissarne gli antipodi in modo inequivocabile. Nella prima scena, ambientata in un locale parigino, assistiamo a un piano sequenza che, dal centro della sala, imbandita a festa e immersa nei ritmi scatenati di una musica demodè, inizia un percorso a ritroso attraverso le stanze e i corridoi che conducono nella cucina in cui Samba sbarca il lunario lavorando come lavapiatti. Una sequenza che va oltre la descrizione d’ambiente, per restituire in senso fisico la distanza che separa l’esistenza degli altri, da quella del protagonista. Una dimensione di isolamento che il film ribadisce anche sul piano dei contenuti, nella scena in cui Alice, in congedo forzato e al suo primo giorno di volontariato presso l'associazione incaricata di seguire il caso di Samba, viene messa più volte in guardia sulla necessità di mantenere le distanze rispetto ai problemi dei suoi assistiti.


La storia del film in pratica si ferma qui, perché quello che segue da qui in avanti è lo sviluppo per tappe successive di un percorso di avvicinamento, equamente diviso tra scene di vita privata, dedicate al rapporto affettivo e poi sentimentale tra Samba e Alice, e altre di carattere pubblico e collettivo, in cui le implicazioni sociali e pure politiche, legate al fenomeno dell'immigrazione (i riferimenti alla disumanità delle leggi volute dal governo Sarkozy è sottintesa) fanno da sfondo alle peripezie quotidiane di Samba, costretto a una vita da clandestino pur di evitare il definitivo rimpatrio. 


Schema che Toledano e Nakache applicano all'insegna di una correttezza politica che nasconde gli aspetti più crudi della questione, sostituiti da una serie di carinerie e di dolcezze che strizzano l'occhio all'intrattenimento made in Hollywood, con balletti e One Man Show in cui Omar Sy e Tahar Rahim (nelle sale con l'ultimo film di Fatih Akim) si esibiscono in tutta la loro simpatica disinvoltura. Quando invece si tratta di fare sul serio, a trapelare è un imbarazzo che diventa cinematografico, nella sequenza del drammatico incontro tra Samba e un ex compagno di detenzione, realizzata con una messinscena incoerente e confusa; oppure di tipo morale, laddove il film, con uno stacco improvviso, quanto ingiustificato per l'importanza che ha quel momento nel percorso emotivo dei protagonisti, preferisce glissare sul preludio amoroso degli amanti, restituendoli "senza piacere" alla rassicurante mondanità dei loro affanni quotidiani. Nel caso di "Samba" la leggerezza di "Quasi amici" diventa la scusa per piacere a tutti costi. Con il paradosso di appesantire il gusto di apprezzare un'attrice del calibro di Charlotte Gainsbourg, tra le poche in grado di giustificare la visione di un film gradevole ma non eccelso come è appunto "Samba"

domenica, aprile 26, 2015

"Turner. O dei mugugni premonitori di un genio riluttante" (II)


Non sorprende, conseguentemente a quanto detto, l'attenzione riservata dal direttore della fotografia Dick Pope ("Reflecting skin", di P.Ridley; "The way of the gun", di C.McQuarrie; "The illusionist", di N.Burger, ad integrare il lungo sodalizio con Leigh) nella scelta delle fonti luminose, dei punti di vista, dei chiarori improvvisi e delle morbidezze pulviscolari, degli spiragli incerti o delle perentorietà degli spazi aperti: i rimandi alla pittura di Turner nelle varie fasi della sua vita, gli echi dei suoi stati d'animo, degli studi, dei ritagli di socialità, si delineano e s'intrecciano in un campionario di opzioni in corrispondenza diretta con la ricerca prodotta durante l'arco di una singolare vocazione (e tralasciando qui - ad esempio e giocoforza - digressioni possibili circa la consistenza drammatica delle ombre, delle generiche oscurità, approcci, percorsi e soluzioni che l'uomo di Covent Garden condivide forse solo con Caravaggio e Rembrandt). Fasci di luce radente proveniente dalle grandi finestre dello studio raccontano, allora, gl'istanti in cui il metodo cerca lo stesso ritmo dell'estro; sottili raggi convogliati a dovere in ragione di esperimenti sulla scomposizione del prisma nei cromatismi fondamentali, suggeriscono la curiosità intellettuale che fruga tra le pieghe di strutture di pensiero consolidate; stasi dorate accompagnano la giovialità discreta e i brandelli di un umorismo burbero come pure pugnace: pallori, semioscurità, cupezze incombenti, sottolineano incomprensioni, rigidità, chiusure et...
Stati d'animo, dunque, mano mano arricchiti d'interrogativi e pazientemente circostanziati - tanto nel quotidiano, quanto nell'opera (e nel film) - al cospetto di tempi che prendono ad accelerare con una frequenza che non conoscerà mai più incertezze e che Turner presentisce e comincia a constatare sulla propria pelle riversandone il portato emotivo e spirituale in numerose tele (in specie ad olio). Leigh stesso si sofferma su quello che e' lo spartiacque decisivo della Storia Moderna, stringendo il campo sugli occhi di prassi semi-serrati del pittore intento a seguire il passaggio di un treno sulla linea ferroviaria che collega Londra a Reading. La Rivoluzione Industriale si presenta, così, sotto le spoglie di una possente locomotiva che sbuffa, penetra i recessi silenziosi della campagna, mentre cumuli di vapore niveo si fanno strada fra le geometrie indolenti di alberi e cespugli: per lunghi istanti Macchina e Natura sembrano sciogliersi l'una nell'altra, ingaggiando per la prima volta quel braccio di ferro che tuttora le impegna, a oltre duecentotrent'anni di distanza. Turner, immobile, appare irretito e al tempo turbato, come uno che avverte/sospetta/intuisce di essere stato ammesso alla presenza di uno di quei rari eventi che, spezzando il ripetersi di equilibri ciclici dati per immutabili, separa in modo inequivocabile un prima da un dopo, non a caso, quest'ultimo, da subito catturato e a breve riproposto in un'opera dal titolo quantomai esplicito di "Pioggia, vapore e velocità. La grande ferrovia occidentale", (1844).
Nel dipinto, la locomotiva corre in direzione di chi guarda (mentre nel film se ne allontana) a sancire - certo - l'ineluttabilità dei tempi nuovi ma pure a pungolare la necessita' di adeguare ad essi la percezione, al fine di non esserne travolti o non limitarsi a subirli (come la minuscola lepre che attraversa i binari, a conferma dell'imminente/quasi avvenuto superamento del meccanismo inanimato a scapito dell'ordo rerum). Che Turner si sia trovato a vivere a ridosso dell'instaurazione dell'era-delle-macchine e', banalmente, un caso. Meno banale e' il suo farsi interessante al momento di constatare la nient'affatto prevedibile circostanza per cui esso favorisce, in colui che ci s'imbatte facendone parte, movimenti di pensiero in grado di oltrepassarne il mero riscontro, alimentando una dialettica che insiste nel rilanciarlo in una dimensione che osa prefigurare quello che non c'è ancora. E ciò che non c'è ancora - e non ci sarà più - e', fra l'altro, il rapporto esclusivo, perché senza filtri, tra l'artista e il mondo che gli si dipana attorno. Medesima legge a cui dovrà attenersi, per elementare inferenza, il frutto del di lui (e di chiunque altro) ingegno, nella, come si dirà, "epoca della sua riproducibilità tecnica". Come infatti ci ha spiegato Benjamin, "nel giro di lunghi periodi storici, insieme con le forme complessive di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale. Il modo e il genere secondo cui si organizza la percezione sensoriale umana - il medium in cui essa ha luogo - e' condizionato non soltanto in senso naturale, bensì anche in senso storico... Con i vari metodi di riproduzione tecnica dell'opera d'arte, la sua esponibilita' e' cresciuta in una misura così poderosa, che la discrepanza quantitativa tra i suoi due poli (cultuale e espositivo) si e' trasformata, analogamente a quanto e' avvenuto nella preistoria, in un cambiamento qualitativo della sua natura. Come infatti nella preistoria l'opera d'arte, attraverso il peso assoluto che risiede nel suo valore cultuale, era diventata principalmente uno strumento della magia, che soltanto più tardi viene riconosciuto in certo modo quale opera d'arte, oggi, attraverso il peso assoluto che risiede nel suo valore di esponibilita', l'opera d'arte si trasforma in un'opera con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, ossia quella artistica, si profila come quella che più avanti si può riconoscere come quella marginale" (W.Benjamin, "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica"). L'atteggiamento a meta' fra curiosità mugugnante e diffidenza presaga tenuto da Turner di fronte ad un simile rivolgimento e' vieppiù testimoniato da un lascito come "La valorosa Temeraire trainata all'ultimo ancoraggio per essere demolita", del 1838, in cui la leggendaria imbarcazione dell'Ammiraglio Nelson,
oramai versione spettrale della splendida nave da guerra trionfatrice a Trafalgar, viene mestamente condotta alla distruzione da un natante a vapore, incarnazione del Progresso che travolge il Passato (esemplarmente la scena si svolge al tramonto, con questo che cattura quasi i due terzi dell'intera opera) e con esso lo spirito di un'epoca che pareva persuaso - almeno in un certo milieu sociale - della propria relativa inattaccabilità: pensiamo, per dire, a gran parte dell'aristocrazia terriera (alcuni esponenti della quale Turner stesso frequenta a diverse riprese e al modo di lunghi e sofisticati incontri salottieri, sovente conditi di sottigliezze cavillose che egli con stoicismo ascolta e alle quali talvolta intercala una replica per puro - e terapeutico - spirito di contraddizione o come opposizione in limine alla carezza soporifera dello cherry) geneticamente disposta ad illudersi di poter eternare se stessa in una sorta di tempo-senza-tempo puntellato da privilegi immensi.

Considerazioni sociologiche a parte, resta ineludibile, nel ragionamento intorno al rapporto che vincola l'uomo/l'artista al mondo naturale, alle maniere in cui tale rapporto viene percepito, meditato e restituito/espresso, il ruolo delle mutazioni - spesso radicali - che le società subiscono in quei cent'anni scarsi a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e che, nel caso particolare, sollecitano l'immaginazione di un uomo oltremodo perspicace, depositandosi entro un'opera sempre più testardamente orientata a re-imparare a vedere ciò che fino a quel momento ci si e', in gran parte, accontentati di guardare. In tale prospettiva, tornano di nuovo utili - a mo' di griglia in cui contestualizzare gli scarti e le provocazioni di un artista curioso e perciò stesso incontentabile - alcune tesi di fondo proposte dallo storico C.M.Cipolla e contenute nella sua "Storia economica dell'Europa pre-industriale". Osserva, tra l'altro, Cipolla: "Un'essenziale continuità caratterizzo' il mondo pre-industriale pur attraverso rivolgimenti grandiosi, quali lo sviluppo e la decadenza dell'Impero Romano, il trionfo e il declino dell'Islam, i cicli dinastici cinesi. Come e' stato scritto (da qui si cita C.H.Waddington, "The ethical animal"), se un antico romano fosse stato trasportato diciotto secoli avanti nel tempo, egli si sarebbe trovato in una società che avrebbe imparato a capire senza eccessiva difficoltà. Orazio non si sarebbe sentito fuori posto come ospite di Walpole e Catullo si sarebbe sentito di casa tra le carrozze, le donnine e le torce illuminanti della Londra notturna del Settecento. Questa continuità fu rotta tra il 1780 e il 1850. Alla fine del secolo XIX se un generale studia l'ordinamento militare romano, se un medico si occupa di Ippocrate e Galeno, se un agronomo legge Columella, lo fa per puro interesse storico o per gioco d'erudizione. Anche nella lontana e immobile Cina appare evidente ai più illuminati tra i burocrati-letterati del Celeste Impero che gli antichi testi classici che avevano dato continuità alla storia cinese attraverso invasioni e cicli dinastici non hanno più valore per la sopravvivenza nel mondo contemporaneo".
Nella stessa direzione concettuale procede anche la sequenza del film di Leigh che mostra Turner/Spall cautamente incuriosito dalla nuova frontiera dell'immagine: la fotografia. Sebbene ritroso, il pittore si lascia alla fine convincere a posare per un dagherrotipo (ad una seduta simile, in seguito, deciderà di sottoporre anche la Sig.ra Booth), in un misto di timore e sconcerto che ricorda e mima il ben noto stereotipo a due voci con l'uomo bianco, da un lato, a far mostra delle proprie meraviglie e il buon selvaggio, dall'altro, a stupirsene o a ritrarsene atterrito. Ancora Benjamin: "Nella fotografia il valore di esponibilita' comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. Quest'ultimo, pero', non arretra senza opporre resistenza. Occupa un'ultima trincea e questa e' il volto umano. Niente affatto casualmente il ritratto e' al centro delle prime fotografie. Nel culto del ricordo dei cari lontani o defunti il valore cultuale dell'immagine trova il suo ultimo rifugio. Nell'espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emana per l'ultima volta l'aura. E' questo che ne costituisce la malinconia e incomparabile bellezza. Dove pero' l'uomo scompare dalla fotografia, la' per la prima volta il valore espositivo prevale sul valore cultuale" - W.Benjamin, op. cit. -. Da questo momento in poi, in generale e in altre parole, l'artista non potrà più aprire il gioco nel do ut des della rappresentazione. Non solo: la riproduzione in teoria innumerabile di un singolo dato esperienziale, nonché la simmetrica moltiplicazione dei punti di vista possibili, farà registrare, allo stesso tempo, l'aprirsi di una frattura netta fra l'occhio che indaga il mondo - ossia gli aspetti di questo che ne compongono il campo di ricerca - e l'ispessirsi, lento ma sistematico, di una specie di membrana fatta di nuove e sempre più numerose immagini, in presenza delle quali il medesimo occhio finirà via via con lo smarrirsi in un intrico di rimandi suggestivi ma spesso contraddittori, al punto da erodere un grano alla volta l'esemplarità di un gesto che l'Arte per come s'era imposta fino a quel momento postulava irripetibile, così come la fatalità della sua meraviglia, e quindi il mistero, l'incanto, unica via secondo Turner ("Avrei voluto vedere il magnifico spettacolo delle cascate del Niagara", dice, mentre attende di essere immortalato nella prima di alcune sue foto; alla notizia di un giovane corpo di donna restituito dal mare, si precipita - già malato - in veste da notte e scalzo, con taccuino e matita, gridando: "Devo vedere ! Devo disegnare !") per cogliere persino nel sensus finis i bagliori della Città dell'Oro.


TFK

- fine -

sabato, aprile 25, 2015

SHORT SKIN

Short Skin
di Duccio Chiarini
con Bianca Nappi, Crisula Stafida, Matteo Creatini
Italia, 2015
genere, commedia
durata, 1'26'



“Short skin” - il titolo si riferisce alla pelle corta  del prepuzio  che non permette al giovane protagonista di approcciarsi serenamente alla sessualità - narra di Edoardo e del proprio essere emotivamente scombussolato a causa del problema al pene - secondo il padre l’organo genitale maschile è la parte più importante di un uomo -; problema che inizia a diventare sempre più motivo di inquietudine interiore dal momento in cui nessuno, genitori compresi, ne è messo al corrente.

Duccio Chiarini, alla sua opera d’esordio, decide di raccontare da un punto di vista solo apparentemente  insolito i dubbi che riempiono le menti della maggior parte degli adolescenti. Da definire insolito solo all’apparenza poiché l’idea di partenza, nonostante sia molto interessante la scelta di usare corpi imperfetti riflettenti tutte le incertezze che in quella fascia d’età sono ordinaria amministrazione - se i corpi delle ragazze vengono mostrati cellulitici o caratterizzati con petti tutt’altro che generosi, la magrezza eccessiva di Edoardo, quasi rachitico, è vista come rappresentazione della mancanza di virilità comportata dal deficit fisico -, viene demolita dagli sviluppi narrativi che, procedendo, fanno venire in superficie tutti i difetti di una scrittura che non sembra curarsi troppo della propria efficienza ma appare più concentrata sul tentativo, ampiamente fallito, di creare un’innaturale empatia col personaggio - nella stessa direzione provano a convergere regia, fotografia e colonna sonora, tutti elementi che vorrebbero restituire toni delicati ma finiscono col costruire un film semplicemente poco incisivo -.

Come troppo spesso accade nel cinema leggero italiano, anche “Short skin” - non avendo arricchito in alcun modo né il linguaggio cinematografico né la dialettica riguardanti le angosce adolescenziali - si va ad aggiungere a quei titoli il cui sviluppo non rende alcuna giustizia all’ottimo spunto iniziale.
Antonio Romagnoli

N-CAPACE: un'installazione cinematografica. Intervista a ELEONORA DANCO



Ci eravamo lasciati a dicembre con Eleonora Danco, felice del successo di critica ricevuto al TFF e forte della promessa di una distribuzione nelle sale che rassicura sul fatto che in Italia c'è ancora spazio per il cinema di qualità.  Perché dopo la visione di "N-Capace", la considerazioni sulla qualità dell'opera si accompagnano alla consapevolezza di essersi stati testimoni e contemporaneamente pazienti di un film terapeutico per la capacità di lavorare sul nostro stato d'animo.
 
Qualcosa di vivo è proprio questo film, che ha il pregio di incarnare la quintessenza della funzione della tragedia greca per l’effetto catartico da cui, come spettatori del viaggio di “Anima in Pena”- la protagonista del film interpretata dalla stessa Danco - e delle confessioni intime dei suoi compagni di viaggio, veniamo improvvisamente investiti, intenti a godere delle contrapposizioni divertite e divertenti generate dalla serietà delle domande e dalla spontaneità delle risposte; incantati da una narrazione fluida e solo in apparenza semplice, ricca di ironia, ad alto grado di lirismo ed emotivamente molto coinvolgente, ci ritroviamo a ridere e a commuoverci, ecco che ribolliamo di una catarsi che annulla la distanza tra sala e schermo, accorgendoci che il film sta parlando di noi individualmente, e di noi come umanità. Meravigliosa creatura, "N-Capace" vive di vita propria dal primo secondo di proiezione, opera che è insieme teatro e cinema, performance e taumaturgia.


L'Artista Eleonora Danco, regista, autrice, attrice, performer dell'universo Teatro, sta correndo alla sua lezione di danza quando risponde alla prima domanda che riguarda il finale del film, dopo i titoli di coda, dove il papà di Anima in Pena ed un altro personaggio - Danco fa notare trattarsi de "l'unico momento del film in cui nell'inquadratura coesistono due personaggi parlanti, al contrario di tutto il resto della narrazione in cui ogni personaggio appare individualmente" - riportano alla memoria testimonianze dirette di licantropia, ricordi della loro giovinezza in cui durante i pleniluni alcune persone si aggiravano intorno alle fontane e ai corsi d'acqua, sofferenti e urlanti come in preda ad una crisi da lupo mannaro - che il papà di Anima in Pena attribuisce ad un disagio neurologico.
D: è un inserto volutamente ironico al termine del film per fare un po' il verso al trend "twilight"?
R:"
No. é tutto vero. Gli stessi racconti sono comuni nella zona di Perugia e dei Colli Albani, mi sono stati riportati episodi identici a quelli raccontati da mio padre, di persone che addirittura raschiavano con le unghie sulle porte. L'inserimento di questa scena, nella sua delirante serietà, è fatto apposta, anche se inizialmente era rimasta fuori, ma dopo il finale altamente lirico del film, ripreso da un palazzo sul porto romano di Terracina, con i fuochi d'artificio sul mare e la gente che correndo dalla spiaggia si riversa in acqua - inaspettatamente, perché non sapevo che sarebbe successo ed è stato un regalo meraviglioso - l'ho voluta inserire per rompere il film, per dissacrare."

Un esempio del forte dualismo che rappresenta quest'opera in cui coesistono tante anime, sia di forma che di contenuti, in splendido equilibrio lungo una trama emozionale, una dialettica ricorrente e dinamica tra l'interiorità espressa dalla performance e dalla fisicità, dalla composizione della scena della forma teatrale - mezzo elettivo che viene portato al cinema - e lo sguardo gettato all'esterno, l'apertura verso gli altri espressa con le forme del cinema, con le interviste, le sequenze di immagini del mondo circostante, un dualismo armonizzato dalla voce fuori campo di Anima in Pena che è insieme pura poesia e collante di due mondi.

D: Le confessioni di tutti i personaggi sembrano fornite spontaneamente, non preparate, non provate. Cosa c'è di script nelle loro risposte, nel rivelarsi intimo e sofferto da parte del papà di Anima in Pena?
R: "
Non c'è niente di scritto, è verità. Tutte le interviste sono spontanee, ogni loro parola, pausa, esitazione. L'unico elemento di costruito nel film è la struttura. Potrebbe non sembrare così, ma non c'è niente di naturalistico in questo film, la realtà è una condizione artificiale, nella sua trasposizione va ricreata artificialmente. Creare una forza non è esercizio naturalistico. Voler esprimere intensità, voler esprimere la forza comporta la costruzione di una tensione che non è naturale, anzi supera il naturale per poterlo restituire. Prova a pensare all'espressione fisica di un gesto artistico come un salto di Nureyev: ciò che è "volante", leggero e forte arriva dall'esercizio di essere artificiale, da ore di allenamento e di esercizio e di struttura per arrivare ad esprimere la bellezza e la tensione di un gesto naturale. Volevo ottenere questo effetto, ho voluto ribaltare l'ordine naturale, arrivare all'essenza delle anime delle persone, partendo da qualcosa che sembra naturale come il parlare della loro vita, un pretesto volendo anche noioso, con lo scopo di giungere all'istante vero, di arrivare all'atomo delle cose, alla parte atomica della loro anima, all'estremizzazione che paradossalmente restituisce l'universalità. Volevo che il pubblico fosse sedotto, scosso, afferrato nel profondo."


Al di là dell'elaborazione intellettuale, a priori o a posteriori, il merito dell'autrice è quello di aver dato vita ad un film che si vede e va visto senza bisogno di sapere niente di struttura o di forma, perché la sincerità e l'urgenza della sua ricerca ed il suo talento regalano un racconto mai banale con un incedere imprevedibile, dove dentro il dramma si ride e dentro il comico ci si commuove. Tra le interviste ad adolescenti ed anziani sul tema della sessualità e dell'amore, un momento di grande bellezza del film è rappresentato dalla giovane adolescente innamorata che parla della propria ragazza.
D: un'ulteriore nota di originalità e di voce fuori dal coro, visto che in italia è l'omosessualità maschile ad avere il primato nel dibattito, mentre il termine lesbica è ancora un insulto e l'omosessualità femminile tabù - perché hai scelto questa ragazza?
R: "
Era la cosa più bella che avevo. Le parole per me non contano quasi nulla. Ho cercato per tutto il tempo del film qualcosa di intimo, e lei era così bella... Rilanciava e ribaltava tutto, le etichette, le generalizzazioni, i preconcetti, le opinioni, i luoghi comuni, la cronaca, riportando tutto sulla Bellezza e sull'Amore. In questo modo, toglie il problema, di cosa stiamo parlando in fondo? Non è solo grevità, lei ha un'essenza nel suo sorriso, struggente, il modo in cui descrive la sua ragazza, con una luce negli occhi che è disarmante, in cui ci si riconosce, tutti".

D: L'autoironia con cui affronti il senso di inadeguatezza mi fa ricordare mostri sacri come Woody Allen, l'urgenza del tuo raccontare mi riporta al Moretti di Bianca, ma nell'ecletticità dell'espressione ritrovo anche la freschezza di Amanda July, quindi un po' di sensibilità femminile con una certa irruenza maschile. Ti ci ritrovi?
R: "
non sento di avere una sessualità specifica quando mi esprimo, in quel momento forse non mi sento né donna né uomo, mi esprimo e basta. Mi riconosco una sensibilità adolescenziale, e forse potrei dire di considerarmi virile in un corpo etereo."
La vasca da bagno che nell'immaginario alimentato da cinema e letteratura è luogo di tragedie per la maggior parte delle Anime in Pena, qui diventa un momento di grande ironia e ci sarebbe piaciuto sapere di più sulla scelta di riempirla di biscotti ma non c'è stato tempo. La lezione di danza incombe ed Eleonora è già in ritardo. Ci piacerebbe anche sapere se il film parteciperà ad altri festival in giro per l'Europa. Nel frattempo vi consigliamo vivamente l'esperienza della visione di N-Capace al Sacher di Roma, all'Apollo di Milano e al cinema Massimo di Torino.

Parsec

giovedì, aprile 23, 2015

SARA' IL MIO TIPO?

Non è il mio tipo
di Luca Belvaux
con Emilie Duquenne, Loic Corbery
Francia, 2014
genere, dramedy
durata, 111'



Per filmare la vita il cinema non deve necessariamente armarsi di telecamera a spalla, facce sconosciute e dosi infinite di santa pazienza. Esiste ancora la possibilità e “Sarà il mio tipo?” ne è la dimostrazione, di filmare l’esistenza facendola tracimare dalle parole di una sceneggiatura ben scritta e dalla naturale propensione degli attori di metterle in scena. Nel film di Luca Belvaux queste caratteristiche si trasformano nella storia dell’incontro improbabile tra un professore di filosofia parigino e una parrucchiera di Arras, cittadina in cui l’uomo è costretto temporaneamente ad insegnare. Sulla carta l’espediente utilizzato da Belvaux è di quelli che non riservano sorprese, perché l’attrazione degli opposti (caratteriali) è il dogma su cui da sempre la commedia pone le basi per il suo successo. Al contrario, Belvaux riesce a sorprendere, affidando al divario culturale tra i due protagonisti il compito di scatenare l'alchimia sentimentale in altre parti devoluta alle divergenze dell’imprinting sessuale. E poi realizzando quel mix di agrodolce che deriva dalla convergenza tra il mood parigino di Clement, abituato ad anteporre la ragione al sentimento e la contaggiosa dolcezza di Jennifer, ragazza madre con la passione per il karaoke e i gossip giornalistici. 

 A guadagnarci è soprattutto la qualità del film che, pur mantenendo momenti di assoluta leggerezza, ricavati dall'incontro delle rispettive inadeguatezze, è in grado di arrivare al nocciolo della questione, e cioè di verificare la compatibilità coniugale tra Clement e Jennifer, senza perdere la percezione di una verosimiglianza che spinge lo spettatore nella braccia dei personaggi. Aggiungiamo il merito di Belvaux, capace di coinvolgere Emilie Duquenne, l'indimenticabile "Rosetta" dei Dardenne, disposta a lasciare il suo ruolo di mamma a tempo pieno pur di contribuire al progetto. Il film come pure l'intesa con Loic Corbery se ne giovano fino all'ultimo fotogramma.

mercoledì, aprile 22, 2015

CITIZENFOUR


Citizenfour
di Laura Poitras
con Edward Snowden, Gleen Greenwald
USA, 2014
genere, documentario
durata, 113'
 
Si è discusso più volte di quanto le immagini dell'11 Settembre, con lo shock provocato dal crollo delle torri gemelle, abbiano depauperato la verosimiglianza del cinema di finzione, costretto a competere con il bisogno di verità ereditato dai fotogrammi di quella tragica visione. Sul piano artistico la conseguenza più evidente è stata il ritorno a un genere, il documentario, ripescato dall'embargo a cui l'aveva costretto l'edonismo di un'industria cinematografica intenzionata a soddisfare le richieste di un mercato affamato di verità. Non ci si può stupire, quindi, se un personaggio come Edward Snowden, passato agli annali della cronaca per lo scandalo del Datagate, si sia rivolto a una documentarista militante come Laura Poitras, e, attraverso di le, a Gleen Greenwald, il reporter del Guardian che, nel marzo del 2013, tramite una serie di articoli e di interviste televisive, rivelò al mondo il sistema di sorveglianza (e i relativi programmi di intelligence) per mezzo del quale gli Stati Uniti spiavano i propri cittadini e quelli degli altre nazioni. Una violazione della privacy e della libertà dell'individuo che, di fatto, estendeva i contenuti del Patriot Act - promulgato da George W. Bush per prevenire eventuali attacchi terroristici - a tutti i cittadini ritenuti in qualche modo oggetto di interesse da parte dei servizi segreti americani. Un sistema di acquisizione "passiva" o, se volete, una versione contemporanea del grande fratello Orwelliano, capace di intercettare ogni sorta di comunicazione (con email, motori di ricerca e servizi online utilizzati come fonte primaria d'informazione) e in grado di ricostruire, attraverso la messa a sistema dei singoli dati (i cosiddetti "metadati"), abitudini e stile di vita dei "ricercati". "Citizenfour", dal nome in codice utilizzato da Snowden per agganciare la Poitras, spiega, analizza, fornisce numeri e, soprattutto, conferma la validità dell'assunto, catapultando lo spettatore all'interno di una cospirazione di cui egli stesso è potenziale vittima. Nel farlo la regista tiene fede alla volontà di Snowden, fin dal principio intenzionato a evitare che l'interesse sulla sua persona potesse togliere spazio all'importanza del messaggio. In questo modo più che approfondire il privato del personaggio, preso in considerazione solo per quanto riguarda le ragioni di una scelta imputata alla salvaguardia del bene collettivo, "Citizenfour" si sofferma sulle anomalie del sistema, individuate nel tradimento dell'amministrazione Obama che del ridimensionamento del Patriot Act aveva fatto uno dei suoi cavalli di battaglia e sulla cospirazione dei suoi bracci armati, rappresentati dai vertici delle massime agenzie investigative (CIA, FBI) e di sicurezza nazionale (NSA).


Ma il valore di "Citizenfour" non si ferma all'importanza dei contenuti, paragonabili a quelli che a suo tempo fecero la fortuna di Michael Moore e del suo "Fahreneith 9/11", perchè il lavoro della Poitras, con il suo essere parte in causa degli avvenimenti raccontati e, nel modo in cui gli spettatori avranno modo di vedere, "complice" dello stesso Snowden, rappresenta una cesura, almeno a questi livelli di fama (il film ha vinto l'Oscar 2015 come miglior documentario) e di visibilità con tutto ciò che lo ha preceduto, facendo dell'opera un atto politico rivolto non solo al pubblico pagante ma all'intero ecumenato. E se questo ancora non bastasse a definirlo un capolavoro, aiuta ad affermarlo il fatto che "Citizenfour", nel suo essere il work in progress di un Most Wanted Man, si propone come il prototipo di una nuova forma di romanzo criminale che, nella sua purezza fenomenologica, si contamina di riferimenti in cui trovano posto reminiscenze di film come "Tutti gli uomini del presidente", "Syriana" (prodotto da Soderbergh, anche qui presente nelle stesse vesti) e, per citare l'ultimo arrivato, di "Blackhat". Con i ringraziamenti rivolti a Edward Snowden per il contributo tecnologico che ha permesso alla Poitras di depistare le ricerche dell'intelligence, e quindi, di realizzare il film, a fornire un'ulteriore testimonianza della splendida anomalia che "Citizenfour" rappresenta nel panorama del mercato cinematografico.
(pubblicato su ondacinema.it)

martedì, aprile 21, 2015

MIA MADRE

Mia madre
di Nanni Moretti
con Margherita Buy, Nanni Moretti, John Turturro
genere, drammatico
Italia, 2015

La creazione di intrecci umani che -per quanto orbitanti attorno a un tema portante- compongano storie dalla forte china intimista e trascendano la mera archetipizzazione è forse uno dei tratti più pregevoli e caratterizzanti del cinema di Moretti. Storie in cui la trama retroceda, lasciando ampio respiro alle evoluzioni di personaggi che spesso non sono altro che ingranaggi umani -a volte, come in questo caso, corredati di frammentarie e frammentate rifrazioni metafilmiche del Moretti regista- mossi per sostenere il tema e la riflessione corale del film.
Margherita (Margherita Buy) è una regista alle prese con un film d'attualità, un film sui giovani e sul lavoro e sul mondo moderno, un film che la assorbe completamente mentre la madre -assistita dall'onnipresente fratello Giovanni (Moretti)- spende in ospedale i suoi ultimi giorni. Un intreccio quanto mai semplice che racchiude un variegato universo umano, scandagliato attraverso scene e atmosfere oniriche -registicamente inscindibili dalla narrazione- che possono essere comprese appieno solo attraverso una lettura spiccatamente psicanalitico-simbolica.

La morte, il tempo, l'imprescindibilità dei rapporti umani e contemporaneamente l'immane difficoltà degli stessi, la completa e dolorosa impotenza di fronte al lutto annunciato. E una serie di considerazioni e riflessioni che scaturiscono da un autobiografismo che fa dell'autoreferenzialità un pregio e un leitmotiv, legandola a filo doppio -un filo che è anche l'inestricabile intreccio di personaggi dalle visioni antitetiche finanche complementari- a una vicenda fin troppo umana che forse, temendo di esprimere ciò che -più ermeticamente- vorrebbe suggerire attraverso le singole scene, rischia di fare lo sbaglio opposto, lasciando spazio a dispersive frammentazioni che rischiano di allontanare lo spettatore (massimo esempio ne sono i siparietti di John Turturro).
Michelangelo Franchini

lunedì, aprile 20, 2015

THE FIGHTERS-ADDESTRAMENTO DI VITA


Les Combattants
di Mathieu Cailley
con Adele Haenel, Kévin Azaïs, Antoine Laurent
Francia 2014
genere, commedia, drammatico


Per restare dalle parti dell'attualità più stringente, non si può fare a meno di notare la coincidenza tra la presentazione del programma del festival di Cannes e l'uscita nelle sale, a più di anno di distanza dalla sua presentazione alla croisette di "The Fighters - addestramento di vita" (Les Combattants), esordio alla regia di Thomas Cailley. In quell'occasione il regista francese aveva posto le basi per un'ascesa esplosa con i premi ottenuti alla Quinzane des Realisateurs e poi confermata ai massimi livelli nella notte degli Oscar francesi dove il film aveva impedito a "Timbucktu" di monopolizzare l'intero palmares. Al di là dei riconoscimenti il festival transalpino, con la sua visibilità, torna utile per rivelare un passaggio di consegne, tutto interno al cinema francese, che rinforza la tradizione di un movimento da sempre attento alle vicissitudini dell'età giovanile. "Les Combattants" si inserisce sulla scia tracciata dodici mesi prima da un altro lungometraggio che raccontava l'iniziazione alla vita attraverso l'avventura di un amore giovanile. La storia di Arnaud e Madeleine, i protagonisti di "Les Combattants" assomiglia infatti a quella di Adele ed Emma, le protagoniste de "La vita di Adele", non solo in termini di genere e per il fatto di presentare due coppie fuori dagli schemi ( per stili di vita e gusti sessuali) ma più che altro in una voglia di vivere che si manifesta a dispetto di qualsiasi tipo di paura; un atteggiamento che potrebbe essere il manifesto di una generazione travolta dalla crisi (registrata dal film nella mancanza di lavoro che obbliga l'amico di Arnaud a cercare lavoro all'estero), e che, con la dose d'incoscienza tipica dell'età giovanile, ce la mette tutta per riuscire a sopravvivere. Come testimonia la scelta di Madelaine di vendere cara la pelle, frequentando il corso di preparazione che la dovrà abilitare all'arruolamento nelle forze speciali e in seconda battuta, quella del timido Arnaud, caratterialmente distante dal temperamento degli uomini in divisa, eppure disposto a mettere in discussione le sicurezze casalinghe pur di assecondare il suo sogno d'amore. Audacia che Cailley trasforma in una voglia di fare in grado di segnare lo svolgersi del film, sospinto da una struttura narrativa che non perde occasione per rilanciare le aspirazioni dei protagonisti: dapprima togliendoli dalla mancanza di orizzonti del villaggio natio, ospitale e sicuro ma incapace di offrire prospettive, e poi reagendo con altrettanta determinazione alle frustrazioni che i nostri subiscono, e durante giorni dell'addestramento militare, segnati dalla delusioni di una mentalità da cui non c'è niente da imparare, e nel momento in cui, finalmente liberi dalle responsabilità derivate dal contesto famigliare, Arnaud e Madeleine sono costretti a rinunciare al loro Aleph personale per cause di forza maggiore.

Seguendo le premesse poste in essere nella natura agonistica dei suoi personaggi e deciso a imitare la vita secondo una visione dialettica delle sue componenti, Cailley lavora sui contenuti del film: da una lato affidando alla tenzone amorosa il compito di replicare le conflittualità dell'esistenza umana, dall'altro ricorrendo all'espediente dell'opzione militare per enfatizzare la tenacia dei nostri eroi, determinati a lottare con ogni mezzo contro le forze che si oppongono all'affermazione delle loro aspirazioni. E poi operando sulla forma, che diventa un contenitore capace di far coesistere generi e registri: tra i primi abbiamo già parlato di quello sentimentale, a cui si affianca un lato più avventuroso, derivato dal confronto con l'ignoto, che i nostri si troveranno ad affrontare nel percorso di conoscenza e di sopravvivenza innescato dalla precarietà di quel viaggio. Nei secondi, in cui si alternano momenti da commedia ad altri decisamente più drammatici, si segnalano invece dosi di sottile umorismo che Cailley fa scaturire dal non sense di situazioni dove l'assoluta serietà dei personaggi, pronti ad attribuire importanza ad ogni singolo gesto fa da contraltare all'ordinaria banalità di momenti come quelli, e ce ne sono molti durante la vita di caserma, in cui la realtà sembra prendersi gioco di ogni ragionevolezza.


Un eclettismo che "Les Combattants" fa valere anche in zone più specificatamente cinematografiche, come lo è l'attenzione dedicata al montaggio, decisivo nei suoi stacchi netti e improvvisi a restituire l'irrequietezza propria dell'età giovanile, oppure come avviene nella parte centrale del film a sottolineare il cambio di direzione della storia -siamo alla vigilia della partenza di Madeleine - annunciato dalla discontinuità tra l'euforia della sequenza ambientata in discoteca, caratterizzata dal frastuono della musica e dal vitalismo dei protagonisti pronti a scatenarsi al centro della pista e quella successiva, che subentra in maniera brusca ad interrompere la festa con il buio della notte sin troppo evocativo del tempo che verrà. E ancora nell'utilizzo della colonna sonora, surplus energetico, che nella pulizia del sound elettronico composto dal trio Lionel Flairs, Benoît Rault e Philippe Deshaies (non campionata ma suonata dal "vivo) riproduce la dimensione di purezza in cui si muovono storia e personaggi. Romantico e antiretorico, "Les Combattants" è uno di quegli esordi che lascia a bocca aperta e che autorizza a pensare alla nascita di un grande autore.
(pubblicato su ondacinema.it)

sabato, aprile 18, 2015

FORMULA 1: UNO SPORT AL QUALE LA SETTIMA ARTE NON HA RESO GIUSTIZIA





Il cinema americano, senza distinzione tra quello mainstream e quello indipendente o comunque d'autore, è forse quello che più necessita di attingere dalle proprie risorse e/o condizioni culturali. Tale constatazione, di fatto, è resa palese da un lato con la presenza di opere ed autori che attraverso il proprio contributo sono fondamentali per la lubrificazione degli ingranaggi della macchina cinema, dall'altro con la presa di coscienza che, così facendo, ci si preclude automaticamente la possibilità di far propri e quindi di rielaborare determinati argomenti - che siano momenti storici, opere letterarie o, come nel nostro caso, sport -.

Accade dunque che se una disciplina come la boxe - si vedano i successi, seppur diametralmente opposti, di "Rocky" e "Raging Bull" - o un argomento come le corse d'auto clandestine - si veda la piega poco motoristica che ha preso il franchise  di "Fast 'n' Furious" - si sono prestati con successo alle necessità hollywoodiane, quando s'è trattato di trasporre sullo schermo uno sport come la Formula 1, da sempre tradizione europea, le pellicole venute fuori non hanno lasciato il segno. Si pensi all'operazione - voluta da Sylvester Stallone, inoltre resosi autore della sceneggiatura - che ha portato alla realizzazione di "Driven" (2001), film che diviene sintesi perfetta di quanto s'accennava in apertura. Gli elementi che conducono in questa direzione sono, oltre che evidenti, molteplici: in primo luogo, le informazioni tecniche fornite durante la visione - ad esempio attraverso la telecronaca dei gran premi - apparirebbero come dati di fatto anche al più distratto spettatore europeo; tali indicazioni - come lo zigzagare nel giro di ricognizione per riscaldare le gomme, il prendere la scia per effettuare un sorpasso, etc. - vengono proposte come novità che, probabilmente, per il fruitore americano è necessario apprendere in una maniera che a noi risulta invece goffamente enciclopedica -. Secondariamente, la mancata metabolizzazione culturale s'evidenzia dai riempitivi forzati tipicamente hollywoodiani inseriti all'interno dello script (si veda la predominanza degli intrecci amorosi; gli incidenti spettacolari contro ogni limite imposto dalla fisica; gli inseguimenti con le monoposto da corsa in mezzo al traffico di Chicago). La penuria di titoli riguardanti la massima categoria mondiale degli sport motoristici - tra i quali ricordiamo "Un attimo, una vita" (1977) di Pollack, dove l'intimismo del personaggio di Al Pacino rende la pista poco più che un fondale d'ambientazione, e il più recente ma ugualmente poco riuscito "Rush" (2013) di Ron Howard - è ulteriore sintomo di un'evidente attrito con lo sguardo d'oltreoceano.

Parimenti, è impossibile non notare come invece il cinema europeo si sia tenuto alla larga dal tentare di rielaborare uno degli sport che più appartiene alla propria tradizione, con l'unica eccezione del documentario "Senna" (2010) che andando a sviluppare un nuovo linguaggio - s'elimina infatti l'elemento della voice over, costruendo la narrazione esclusivamente sulle immagini di repertorio commentate dai cronisti o dai protagonisti dell'epoca - ottiene un risultato sorprendente nel raccontare uno dei più grandi piloti che il circus abbia mai conosciuto: non a caso il film ha vinto nelle categorie "miglior documentario" e "miglior montaggio" ai premi BAFTA 2012. Ancora di più difficile spiegazione è, invece, il totale disinteresse, da parte dell'intero apparato produttivo, nei confronti della Formula 1 contemporanea, disinteresse che, visti i personaggi e le situazioni che vi appartengono/vi sono appartenute - si pensi al trionfalismo, questo sì all'americana, di uno come Michael Schumacher, o ad un personaggio "coeniano" come Fernando Alonso che, nonostante sia il pilota più talentuoso della propria generazione, è portato dagli eventi ad essere eletto come l'eterno sconfitto - non può essere giustificato dalla diminuzione dell'elemento spettacolare nella dimensione dei singoli GP.

In attesa dei due biopic, da poco annunciati, riguardanti Enzo Ferrari - uno che vedrà Robert De Niro vestire i panni del celebre costruttore,l’altro che verrà diretto da un certo Michael Mann - sembra assodato che nessuna macchina da presa (ribadiamo che l'unico audiovisivo degno di nota è il documentario "Senna") abbia ancora trovato la giusta angolazione dalla quale inquadrare uno sport sottovalutato sotto troppi punti di vista.
Antonio Romagnoli

venerdì, aprile 17, 2015

TOP OF THE LAKE

"Top of the lake".
- Il mistero del lago -

di: J.Campion, G.Davis.
con: E.Moss, P.Mullan, J.Joe, D.Wenham, H.Hunter, T.Wright, J.Ryan. K.Chapman.

Serie TV in sei puntate.
- NZ/GB/USA 2013 -



Le stilettate vibrate in disparte (non per questo meno dolorose) da Ducasse/Lautreamont, arrivano a permeare del proprio puntuto disincanto perfino gli angoli meno in vista di quel paradiso inattuale che e' la Nuova Zelanda, se "scendendo dal grande al piccolo, ogni uomo vive come un selvaggio. La grande famiglia universale degli esseri umani e' un'utopia degna della logica più mediocre". In effetti, una delle prime constatazioni possibili in merito ad un'opera come "Top of the lake" - mini-serie televisiva in sei episodi di 45 minuti circa ciascuno, scritta e co-diretta da Jane Campion assieme a Garth Davis (l'ipotesi della dilatazione delle vicende non e' comunque da considerarsi così aleatoria) - e' proprio quella in base alla quale la propensione alla convivenza dell'animale sapiens non solo risulta irrigidita in una sorta d'ipocrita e rancorosa vicinanza, modellata senza alternative sull'andirivieni degli opportunismi contingenti ma palesa a riprese 



sempre più serrate e, paradossalmente, tanto più se relata al paesaggio naturale - nell'intrecciarsi guardingo delle occhiate, come nella sfinita insofferenza dei gesti più minuti, per non parlare delle violenze più plateali e crude - le fattezze di una ritualitàartificiosa, meramente sedimentata dalle circostanze, pressoché spoglia, cioè, di ogni spontaneo trasporto o di quella che un tempo (in uno slancio che lo scomodato Ducasse avrebbe senza remissione esecrato) si sarebbe potuta definire empatia di specie.

Del resto, la stessa nomenclatura toponomastica (i fatti si svolgono nella contemporaneità in un aggregato urbano al centro di una wilderness tanto rigogliosa quanto, di fatto, inattingibile, a nome Paradise), non fa alcun mistero circa la propria essenza ambigua di luogo al tempo evocativo, quasi approdo insperato, e fucina inesauribile d'interdipendenti nefandezze secrete da un'umanità difficile dire se più inconsolabilmente afflitta o dannata in saecula saeculorum da una verminosa abiezione con venature schizoidi, tale, nel caso, da rendere addirittura palpabile il portato antifrastico del titolo originale, ribadendo, d'altro canto e con maggiore vigore, l'adagio per cui, davvero, nothing is quite what it seems.




Sulle tracce (secondo il più classico dei canovacci polizieschi, scomparsa/ricerca/ritrovamento) della tredicenne Tui/J.Joe, irresistibile carne precoce, crocevia caldo di attenzioni centripete da parte di un  microcosmo adulto votato/forzato alla sterilità rabbiosa, arranca il detective Robin Griffin/E.Moss, percorrendo in parallelo e a ritroso le stazioni di un destino analogo nella ferocia incomparabile eppure sempre uguale - Tui, violata e gravida, sparisce dopo una deposizione semi-muta alla Centrale di Polizia; Robin, in un passato neanche così remoto, viene violentata in gruppo al termine delprom sotto gli occhi non sapremo mai bene quanto sul serio inermi o ambiguamente complici del fidanzato del tempo/fiamma mai spenta a cui concedere pian piano il beneficio del dubbio, John Mitcham/T.Wright - a sancire con l'annientamento delle prerogative della giovinezza l'immersione nel cinismo ricattatorio del mondo-dei-grandi, ogni gesto in equilibrio precario sul discrimine che separa l'obiettività professionale dal coinvolgimento privato.
 Robin, ragazza la cui perspicacia e grazia poggia su un substrato ineliminabile di tristezza irreconciliata e inquietudine presaga caro a molte figure muliebri dell'universo campioniano - in particolare quelle degli albori cinematografici di "Two friends", "Sweetie" e "An angel at my table" - coglie, nel progredire del lavoro di scavo tra le pieghe di vissuti sfuggenti (incluso il suo e quello della sua famiglia), proprio i segni inequivocabili (e avvilenti) della dissoluzione dell'idea stessa di comunità, a dire il disfarsi quasi nulla fosse del suo tessuto connettivo di base - un'affettività magari superficiale ma sincera - a cui si sovrappongono, in un incistarsi patologico, succedanei o ibridi appena abbozzati, presto abortiti e, peggio, inefficaci e alla lunga deleteri: clan patriarcali puerilmente dispotici, chiusi in se stessi fino alla prevaricazione e alla demenza (Matt Mitcham, padre di John - interpretato da Peter Mullan con la consueta ma sempre impressionante aderenza fisicaprimordiale - fa e disfa i destini della piccola cittadina col piglio di un capo tribù loricato cui si deve in primis sottomissione; colleziona randagi che a capriccio o se scimmiato fredda a fucilate; apostrofa gli altri figli, Mark/J.Ryan e Luke/K.Chapman, con reiterati "Voi siete niente. 



Non avete niente, dentro", per poi scazzottarcisi; non esita a rivendicare la primazia del possesso su Tui, ennesima sua prole: "Lei e' mia. Solo mia"); istituzioni ingessate in un formalismo tanto ottuso quanto paravento d'indicibili brutture (il Serg. Al Parker/D.Wenham, impettito e salutista, coordina le ricerche con un orecchio alle direttive trasversali e interessate di Matt, un occhio bramoso alle fragilità di Robin ed entrambe le mani immerse in torbidi retroscena che pulsano sottotraccia e che, chi più chi meno, finge d'ignorare); improbabili ginecei le cui rivendicazioni libertarie e autarchiche stagnano a mollo in un'irresolutezza e un livore che e' scomodo guardare in faccia (un pugno di donne anzitempo sfiorite, a vario titolo ferite e confuse, sotto l'egida discreta ma esigente di GJ/H.Hunter - guru/fattucchiera dalla grigia capigliatura fluente e dalla fulminante persistenza di sguardo - si barcamena alle prese con un'esistenza brada, arrangiata dentro container abbandonati, fatta di frequenti abluzioni adamitiche nelle acque del lagofatale, punto di fuga fisico e congetturale di ogni intreccio; di sistematiche perorazioni/abiure/rimpianti, a mo' di collettive sedute di autocoscienza, dei propri trascorsi immancabilmente marchiati dalla mascalzonaggine maschile: e di pianti sfrenati, lunghi abbracci sororali, infinite tazze di te')...

Tui e Robin, nel diluirsi calmo di un tempo abilmente sospeso tra palese rassegnazione al presente e strisciante attesa febbrile per un evento futuro, finiscono, così, con lo specchiarsi - più stupefatte che atterrite, più esauste che avide di vendetta - nei frammenti sparsi del medesimo piccolo mondo (scoperta metafora di quello che tutti ci accoglie/sovrasta/schiaccia) che agonizza in una perdizione, tutto sommato, si' crudele ma pure idiota, di sicuro malvagia eppure non meno smidollata - così passivamente ferina com'è, irresistibilmente attratta da ammorbanti scipitezze - alla quale entrambe oppongono quella meravigliosa (e stavolta autentica) determinazione tutta femminile che non arretra di fronte al quieto vivere, all'assuefazione alla menzogna, all'eventualità di mettere a rischio la propria stessa incolumità. Atteggiamento che le pone, di diritto, verrebbe da dire, ben al di la' - e su questo lo sguardo avvertito e leale della Campion non ammette favoritismi - delle convenienze momentanee (se Robin accoglie di nuovo John e' perché decide scientemente di farlo, assumendosene gl'ipotetici rischi); delle opportunità e dell'ufficialità (Robin, come Tui dal canto suo, andrà a fondo nei risvolti di una storia che nella ragazzina oggetto-del-desiderio individua il suo elemento catalizzatore ma non l'unica pedina di una scacchiera ben più complicata); delle illusorie consolazioni (la possibilità del mondo a parte rabberciato dall'altra meta' del cielo in riva al lago e' solo un appiglio instabile come un altro, a cui neanche le spassose ovvietà diffuse con enigmatico tono oracolare da GJ - che non a caso mollerà baracca e burattini per cercare aria nuova in Islanda (!) -, tipo "La morte non esiste. Gli atomi prendono solo a rimescolarsi liberamente", possono fornire spessore superiore a quello di un'evanescente chimera).

Forse - osservano ancora Campion e Davis - e' solo nel silenzio (quel silenzio che predispone all'ascolto, come fu per Ada, la musicista muta di "The piano") che e' praticabile instradarsi verso la chiarezza (Robin assembla pezzi significativi del rompicapo criminoso dopo ampie parentesi trascorse in riflessioni solitarie); ridurre le distanze dal paesaggio/organismo vivente, divenuto ostile perché oramai estraneo nella caricatura inerte di dispensatore di materie prime (Robin insegue l'equilibrio interiore perduto per il tramite di frequenti corse nella natura selvaggia; Tui, letteralmente, torna nel ventre di Madre Terra); avvertire il presagio della bellezza, la sua misteriosa prossimità (il profilo tagliente delle montagne blu, i boschi e le felci senza tempo, acqua e cielo a completare e a contenere quelle e questi) prima di dover prendere atto che - ed e' ancora Ducasse a ricordarlo - "il corpo non e' più che un cadavere che respira... e il rasoio, aprendosi un varco attraverso il collo, proverà che nulla, infatti, e' più reale".
TFK