sabato, dicembre 06, 2014

ADIEU AU LANGAGE

di Jean-Luc Godard

con: H.Godet, R.Chevallier, K.Abdeli, C.Gregori, Z.Bruneau

FRA - 2014 - drammatico - 70 min

"Assez vu. La vision s'est rencontrée a tous les airs.
Assez eu. Rumeurs des villes, le soir, et au soleil, et toujours.
Assez connu. Les arrets de la vie. - O Rumeurs et Visions !
Départ dans l'affection et le bruit neufs !".

- A.Rimbaud, "Illuminations/Départ" -



Da sempre Godard perlustra territori preclusi ai più. "Adieu au langage" non fa eccezione. Anzi. Il più che ottantenne autore parigino insiste a rovistare alla sua maniera - ossia con curiosità, senza prendere scorciatoie, rifuggendo facili consolazioni - nelle viscere tanto aggrovigliate quanto esibite della modernità.

All'interno di un tessuto non-narrativo solo in apparenza casuale, si rincorrono giustapposizioni d'inquadrature, singoli fotogrammi, neri muti e/o sottotitolati, sovra/sotto esposizioni, ipotetici onirismi, inversioni, ripetizioni, divagazioni, grumi fieramente e caparbiamente insensati, superflui o, per contro, iper-stratificati, saccenti sul filo dello sberleffo, dello scherno dada (nel tritatutto finiscono, in ordine sparso, Melville, Artaud, Faulkner, Ellul, Conrad, Monet, London, De Stael, Sartre, Dickinson e molti altri), eppure entrambi figli della medesima "inquietudine dolorosa" e presaga circa l'impossibilità - data ormai per certa - di recuperare quel linguaggio che, heideggerianamente, parla all'uomo e non su di lui, disintegrandosi giorno dopo giorno, nel calcolare, nel catalogare, nel rievocare maldestramente o per scopi meschini, nel celiare posticcio delle chiacchiere, del calembourun tanto al chilo ("Le parole. Le parole. Non voglio più sentirne parlare"), al cui confronto i sogni di un cane - protagonista del film al pari della coppia che in modo via via sempre più sterile e arreso argomenta attorno al prosciugarsi del proprio amore - sembrano vitali e sorprendenti: lui, infatti, rimarca Godard, e' in grado di guardare-il-mondo, ossia di viverlo prendendone parte, mentre l'uomo, intrappolato nella coscienza di se', non può che interpretarlo, quindi fraintenderlo e, in definitiva, smarrirlo, decretando la sordida umiliazione di essere inutilmente senziente.


A riparo di una forma che non smette di forzare i propri limiti; diffidente nei confronti di consolidate strutture di pensiero e filosofie neglette o rimosse prima ancora di essere appieno comprese ("La bellezza e' lo splendore della verità"), come di altre, all'inverso, inveratesi nella Storia - cioè nelle carni dei singoli uomini - ben dentro l'inappellabilità di un osceno che non fa che cambiare sembianze per esigere sempre gli stessi dazi ("Hitler ha fatto tutto ciò che ha detto"), "Adieu au langage" non nasconde di essere nauseato dalla propria stessa nausea - di matrice sartriana - ; dal suo negativismo avvilito e derisorio, corroborato da cascami, da frammenti sparsi, da suggestioni incoerenti e dicotomie - Natura/Metafora; vivere o raccontare; il dissertare istituzionalizzato e agonizzante del maschile, e lo slancio incontrollabile, oltre la ragione, del femminile -: da una paccottiglia ricercatamente
intellettualistica - dalle curve di Dirac, alla congettura di Riemann con i suoi "infiniti zeri distesi sulla superficie dell'oceano"; dalla necessita' di trovare un accesso al fatto stesso di "non vedere" di Monet, al grado zero dell'egualitarismo rappresentato dall'evidenza assoluta di un pube femminile (in un'istantanea si adombra perfino Courbet) e dalla merda di reminiscenza rimbaudiana ("Merda alla realtà !", scagliava il poeta contro i privi d'immaginazione). Come pure dal suo porsi/esporsi - nell'ineludibile gioco al massacro dei fraintendimenti - al tempo, nella nudità feroce di liminale baluardo di resistenza al rumore e alla guerra senza fine (trambusti, echi di esplosioni, spari, guaiti, vagiti, alternano e spezzano fuori sincrono/fuori campo, le immagini) e nell'ennesimo singulto di "lagna d'autore", avviticchiata nell'autocommiserazione ed in una fraintesa incomprensibilità. E come - in fondo - dal suo birignao di opera radicale, da relegare ai margini del linguaggio contemporaneo il quale di essa, semplicemente, non-sa-che-farsene, in quanto inservibile secondo gli schemi dei suoi automatismi preferiti, sempre sovrabbondati, enfatici, allegramente sgrammaticati: lo spettacolo, l'intrattenimento, la comunicazione, quest'ultima adesso persino tattile- mostra e rimostra Godard - affidata com'è ai telefoni di ultima generazione.

Tutto, si noti, in questo nostro (?) pseudo/presunto presente, che quanto più si e' bramato e concorso ad edificare - fino alla disperazione, fino alle convulsioni, fino al pus - come eterno, tanto più si e' dimostrato irraggiungibile, finendo esso stesso per invocare - ed e' il più atroce paradosso - un rifiuto che più che i contorni di un anatema palesa le fattezze di un grido soffocato, l'ultimo forse, prima del nero assoluto: "Mi disgustate, voi tutti, con la vostra felicita'. Io sono qui per qualcos'altro. Io sono qui per dire no... e per morire. Io sono qui per dire no... e per morire".

TFK

4 commenti:

Ivan Paio ha detto...

Curioso: ho visto il film più volte, ma non ho memoria dell'inquadratura "69". In quale segmento si trova, "1. La natura" o "2. La metafora"?

tfk ha detto...

D'accordo con te, Ivan. Diciamo che siamo presenza di una 'licenza poetica' operata dall''ufficio impaginazione e stampa'.

Ivan Paio ha detto...

Trattandosi di Godard, tutto sommato non mi sembra un'eresia omaggiarlo con una recensione-collage... Comunque ho scoperto di che film si tratta: è Plemya di Miroslav Slaboshpitsky!

tfk ha detto...

Di nuovo d'accordo. L'immagine e' 'sfasata' ma come omaggio ci può stare. Grazie, Ivan. E grazie Slaboshpytskiy.