martedì, dicembre 30, 2014

OBVIOUS CHILD

Obvious Child
di Gillian Robespierre
con Jenny Slate, Jake Lacy, Gaby Hoffmann
Usa, 2014
genere, commedia
durata, 90'

Ragionando sulla filmografia di Woody Allen e in particolare sull'ultima parte della sua produzione ci si trova spesso a parlare di un cinema che ha perso smalto e a cui rimane solo la proverbiale leggerezza. Un giudizio riduttivo, soprattutto se si confronta la predetta levità con la complicata macchinosità dei tanti epigoni del regista newyorkese. Un discreto gruppo di proseliti a cui possiamo aggiungere Gillian Robespierre, regista di "Obvious Child", storia tragicomica di una ragazza che si ritrova in mezzo al guado dopo aver perso il lavoro ed essere stata scaricata dal ragazzo che l'ha lasciata per andare a vivere con la sua migliore amica. 

Ambientato nella grande mela, il film ricalca per filo e per segno gli stilemi alleniani nella preferenza degli ambienti  radical chic, nella nevrosi ciarliera e politicamente scorretta della protagonista, nell'importanza dei legami umani, soppesati in equal misura indipendentemente dal loro grado di parentela (anche se quello della protagonista con la strana coppia di genitori ha come al solito un posto privilegiato) come pure nella scelta di un genere, la commedia, che rappresenta da sempre il palcoscenico più adatto a raffreddare le caustiche scorribande dell'umorismo di matrice Yiddish


Nell'album dei ricordi rimangono l'effervescente simpatia di Jenny Slate, efficace nel trasformare la goffa irriverenza del suo personaggio nel fascino di chi non può essere altro che se stessa, e poi i sipariettì di varia umanità che servono al film per creare una sorta di coro greco a una vicenda che altrimenti rischierebbe di diventare un pesante e ombelicale soliloquio.

domenica, dicembre 28, 2014

MR NOBODY

Mr Nobody
di Jaco Van Dormel
con Jared Leto, Diane Kruger, Sarah Polley
Canada, Belgio, Francia, Germania, 2009
genere, fantascienza
durata, 138'


Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, ma "Mr Nobody" –terzo lungometraggio di Jaco Van Dormael–, non è ancora uscito in Italia, sebbene sia stato accolto più che positivamente dalla critica internazionale –ha vinto ben sei premi Magritte e il premio Osella–  e dal pubblico, –che lo ha premiato con la vittoria agli European Film Awards–.
‏Grazie ad una serie infinita di virtuosismi registici ed esercizi di bravura –talvolta quasi barocchi–, la pellicola vive in bilico fra generi di natura assai differenti –drammatico, fantascienza, sentimentale–, divertendosi a interrogare e sconcertare lo spettatore su questioni filosofiche e ontologiche.

‏Abilità di Van Dormael (a cui si devono regia, soggetto e sceneggiatura) è stata l’aver saputo affrontare tematiche profonde in un’opera scevra di qualsiasi intento pedagogico e didascalico. Traguardo notevole, specie considerando che la stesura del progetto, durata ben sei anni, è stata influenzata da teorie fisiche e scientifiche –più o meno accreditate–, come la teoria del caos, l’effetto farfalla, il piccione di Skinner e il continuum spazio-temporale. Tra queste, protagonista è l’interpretazione a molti mondi –uno dei più fortunati esiti filosofici della meccanica quantistica–, cui viene ricondotta la vicenda del protagonista, e in accordo con la quale la storia si sviluppa seguendo percorsi paralleli e contingenti.



Nel lontano 2092 Nemo Nobody (James Leto) ha 117 anni ed è l’ultimo essere rimasto sulla terra dopo che la razza umana ha raggiunto l'immortalità.
‏Dopo esser stato ipnotizzato dal dottor Feldheim, l'uomo ripercorre le proprie esistenze, focalizzandosi in particolare su tre momenti cardine di ciascuna di esse: i nove, i quindici e i trentaquattro anni, quando cioè si trovò a dover fare i conti con la separazione dei genitori, col primo amore e con la vita adulta.
‏Per uno strano scherzo del destino Nemo viene al mondo conscio dei possibili esiti di ogni sua scelta, illustrata con viva chiarezza in una melodica polifonia visiva.
‏Per ogni vita una donna, e per ciascuna donna, un colore. A Jeanne (Linh Dan Pham) è associato il giallo, cromia del lusso che accompagna la ricerca di indipendenza di uno dei possibili Nemo, a Elise (Sarah Polley), altra eventuale compagna di vita, il blu, colore che ben caratterizza la depressione di cui la donna soffre e la disperazione con cui Nemo si trova quindi a dover convivere, mentre la dolce Anna (Diane Kruger) è il rosso: la passione, l’amore vero.
‏Tanto alla nascita quanto sul letto di morte Nemo si trova in un ambiente candido, in una sorta di mondo latteo, simbolicamente indicante le infinite possibilità coloristiche contenute nello spettro visibile del bianco.




‏Sebbene non rispettoso di un'ortodossa scansione temporale, la bellezza di Mr Nobody sta nell'originalità dei messaggi delicatamente suggeriti.
‏Anche per questo motivo non sarebbe del tutto erroneo definirlo una saga: non solo la durata –141 minuti–, ma anche la presenza di immagini e temi ricorrenti lo suggeriscono.
‏Più che di un novello Sliding doors l’opera in questione ha un sapore pirandelliano, con Nemo, (nessuno in latino), che è al contempo uno, nessuno e centomila.

‏La polifonia narrativa della pellicola è emblematica della considerazione del cinema più volte palesata da Jaco Van Dormael: strumento che incarna in sé le infinite possibilità contenute solo in potenza in ogni attimo della nostra vita.
Ogni singola esistenza è caratterizzata da elementi suoi propri che la differenziano dalle altre, senza che ciò intacchi una fluida coerenza visiva d'insieme.
Erica Belluzzi

I ORIGINS



I Origins
di Mike Cahill
con Michael Pitt, Brit Marling
Usa, 2014
genere, drammatico
durata, 106'
 
 
Liberaci dal male. Potrebbe essere questala frase più sintetica per riassumere il tema più urgente del cinema di Mike Cahill. autore di nicchia assurto al successo con una di quelle opere a basso budget di cui ogni tanto ci si stupisce per la capacità di fare tanto con molto poco. Stiamo parlando di cinema realizzato con pochi spiccioli e molte idee e comunque capace di ritagliarsi uno spazio adeguato nel panorama del cinema mondiale. "Another Earth" infatti pur lambendo la fantascienza con una trama che immaginando la possibile esistenza di una "controterra", vero e proprio doppione di quella già esistente , esplorava il dolore della perdita e del senso di colpa, spogliando il concetto di esistenza dai vincoli dell'esperienza e della ragione. In quel caso la protagonista cercava di venire a patti con il rimorso di aver provocato la morte della moglie e del figlio di un famoso compositore musicale. "I Origins" continua a percorrere la strada già tracciata del film che lo ha preceduto attraverso la dicotomia tra scienza e fede, che Ian, un ricercatore medico specializzato nello studio degli occhi, cerca di confermare sforzandosi di trovare una spiegazione scientifica all'incognito che normalmente appartiene al sacro e allo spirituale. Anche in questo caso c'è di mezzo un'amore spezzato e l'inaccettabilità della morte, come pure la predominza del caso, qui come allora ingrediente principale per scatenare il cortocircuito che annulla certezze e rimette tutto in discussione. 
 


Homo Faber del set cinematografico per la poliedrica applicazione del proprio talento (dalla sceneggiatura alla fotografia fino agli effetti speciali) Cahill si addentra nel territorio del dubbio tornandone con risposte quasi definitive - "I Origins" parte dalla teoria sull'origine della specie per arrivare a parlare di metempsicosi e di vite precedenti) - sulle verità della vita. Se il confronto tra i massimi sistemi ricalca schemi e situazioni già viste, e se in alcuni passaggi la narrazione fatica a costruire situazioni che siamo all'altezza dei suoi contenuti, è pur vero che Cahill comferma la capacità di scrutare tra i silenzi e i non detti di cui gli attori si fanno carico.


Visione affascinante di espression e volti ripresi con la partecipazione di chi ne condivide il sentire. E se Brit marling è un habituè del regista (era lei la protagonista di "Another Earth"), non dispiace Michael Pitt alle prese con un ruolo -insolitamente per lui - equilibrato.

sabato, dicembre 27, 2014

POSH


Posh
di Scherfig
con Max Irons, Sam Clafin
Uk, 2014
genere, drammatico
durata, 107'
 
 
E' davvero curioso vedere in che modo il cinema si avvicini ai luoghi del sapere e dell'apprendimento. Quasi mai interessata ai processi della conoscenza - fatte salve eccezioni di assoluto come per esempio "Essere e avere" di Nicholas Philibert - la letteratura cinematografica che se ne è occupata ha utilizzato i territori della cultura e del sapere per esaltare il cameratismo goliardico e irriverente di una gioventù vitellona (da "Animal House" in poi) oppure nella sua versione più drammatica come palestra di vita per le generazioni impegnate a emanciparsi dalla famiglia e dal mondo.
Una linea d'ombra che Lone Sherfig aveva gia affrontato con il precedente "An Education", e che pure ritorna in "Posh", il suo nuovo film ambientato negli ambienti mestosi e austeri dell'università di Oxford, dove le vicissitudini di un gruppo di matricole rischiano di trasformarsi in tragedia quando alcool e frustrazione si sfogano sul padrone del locale in cui gli studenti stanno festeggiando il loro senso do appartenenza.  Un climax emotivo a cui il regista arriva per gradi, attribuendo ai vari personaggi tipologie esemplari -introdotte dagli aggettivi usati nel materiale promozionale - che alla maniera dei rispettivi americani si incontrano e si scontrano nel tentativo di affermare il proprio ego.

 
Usi e costumi di una società elitaria (Posh) e tribale che la regista mette in scena nel rispetto di canoni cinematografici da tempo consolidati e che pescano in egual misura da un classico come "Another Country", preso in prestito quando si tratta di far entrare in dialettica le ambiguità dell'animo umano con la rigida convenzionalità dell'istituto Oxfordiano, così come da certo cinema giovanilistico più spinto e laterale, sul genere de "Le regole dell'attrazione", presente soprattutto in un approccio più diretto e stintivo nei confronti dei personaggi. 

In questo caso però la sostanza del film rimane allo stato larvale perchè la sceneggiatura invece di scavare nelle psicologie dei personaggi preferisce farla derivare dall'insistita rappresentazione dei riti comunitari. Un'associazione che produce fenomenologie didascaliche e ombelicali, soprattutto quando, nella seconda parte della storia, si tratta di far uscire allo scoperto i volti dei vari giocatori. Molta confezione, poco sostanza.

giovedì, dicembre 25, 2014

VACANZE DI NATALE

Vacanze di Natale
di Carlo Vanzina
con Christian De Sica, Jerry Calà, Claudio Amendola, Karina Huff
Italia, 1983
genere, commedia
durata, 97'


"Vacanze di natale" è il primo vero cine panettone italiano ma anche l'ultimo. Il film, prodotto nel 1983 e scritto e diretto dai fratelli Vanzina fu ideato dopo il successo del filone riconducibile al clclo iniziato con "Sapore di mare" , con gli anni 80 al posto dei 60 ma con la medesima voglia di cogliere l'essenza di un'epoca di Yuppies, di
risveglio economico e di un ottimismo che reagiva al flagello dei cosidetti anni di piombo. Impossibile non ricordare almeno il cast di attori che hanno fatto di questo film un vero e proprio cult: da Jerry cala a Christian De sica , da Stefania Sandrelli ,al mitico Mario Brega , fino a Claudio Amendola e, addirittura, in un piccolo cameo, la prorompente Moana Pozzi.

La storia del film, interamente ambientata nella splendida cornice naturale di Cortina d'Ampezzo è caratterizzato dalle gag tipiche del filone della commedia all'italiana con equivoci, doppi sensi e scene veramente esilaranti. Ma è la colonna sonora che rende il film indimenticabile, con pezzi italiani e stranieri che rappresentano  come "I like Chopin" di gazebo,  "Moonlight  Shadow" di Mike Oldfield  ed ancora "Vita spericolata" di Vasco Rossi ed altri ancora. Veri e propri tormentoni che fanno da sfondo a una vicenda che ripropone il classico scontro tra ricchi e poveri e, in particolare la lotta di classe tra il proletario Amendola e la sua famiglia e gli altri protagonisti del film, appartenenti alla classe abbiente. Memorabile è poi la scena in cui De sica viene scoperto a letto con il maestro di sci, considerando che nel periodo in cui il film fu girato l'omosessualità era ancora fonte di grande imbarazzo. Per tutti questi motivi "Vacanze di Natale" si può da considerare il primo e ultimo esempio di cinepanettone, nonostante un numero infinito di sequel, che non sono mai riusciti a eguagliarne l'energia, la freschezza, la novità, e una modernità che lo rende un classico del periodo natalizio, con siti dedicati al film, rievocazioni e visite guidate nei locali in cui la pellicola fu ambientata. Come a dire che il primo amore non si scorda mai.
Paolo Donà

mercoledì, dicembre 24, 2014

Film in sala da Giovedì 25 Dicembre 2014

PADDINGTON
di Paul King
con Ben Whishaw, Nicole Kidman, Sally Hawkins, Hugh Bonneville
2014 CAN/FRA/GB - Commedia - 95 min

CENERENTOLA (Gioacchino Rossini)
di Carlo Verdone
2014 ITA - Musicale - 120 min

EVERYDAY REBELLION

 Everyday Rebellion
Arman T. Riahi, Arash T. Riahi
Svizzera, Germania, Austria, 2013
genere, doc
durata, 118'


Un uomo che non si interessa allo Stato
 noi non lo consideriamo innocuo,
ma inutile
(Pericle, Discorso agli  Ateniesi ,461 a.C)






 Everyday Rebellion è uscito nelle sale italiane l’11 settembre 2014. Una data purtroppo sanguinante di significato, quanto mai emblematica per una riflessione sulle infinite forme di rivolte violente che dilagano ovunque sebbene i media e i regimi di tutto il mondo facciano l’impossibile per tamponare le ferite e zittire le urla.

Peccato che la pellicola sia stata distribuita in sole 15 copie, notizia che si commenta da sola.

Arash e Arman Riahi, coppia di fratelli  iraniani costretti a lasciare il loro paese, propongono un film-documentario sulla vita di diversi movimenti di rivoluzione non violenta, gli Indignados in Spagna, Occupy Wall Street a New York, le Femen, la dissidenza di The Yes Man, le proteste contro il governo in Egitto, il movimento democratico iraniano, di cui indagano le connessioni, le similarità e le vicinanze strategiche.
Sembrano esperienze frammentate, ma sono invece tessere di un unico mosaico, ben riassumibile nelle parole del serbo Srđa Popović (fondatore di Otpor, movimento che ha contribuito a far cadere Milošević): “Se devi gareggiare con Tyson è meglio che lo sfidi a una partita a scacchi”, insomma l’eterno duello tra Davide e Golia.
I registi sono entrati in contatto con gli attivisti e le menti creative di movimenti di protesta di varia natura, per comprendere le dinamiche sottese alle loro scelte d’azione.
Come il voice-over iniziale sussurra nell’orecchio dello spettatore, sono tutte persone normali e comuni, gente che ha famiglia e amici, che si sveglia la mattina per studiare, lavorare o cercare un lavoro. Ma tutti sono accumunati da qualcosa, un profondo sdegno per il repellente panorama politico, economico e sociale che li circonda.

E’ tempo di metterci in cammino e costruire insieme una società migliore: questo il leit-motiv che spinge ogni giorno centinaia e migliaia di persone che sono stufe di stare a guardare, a cercare modi non violenti di combattere.
Ecco quindi che le due ore di documentario dei fratelli Riahi si colorano del volantinaggio creativo in Siria, del contributo dei graffitisti, del vocabolario non verbale utilizzato durante i movimenti di piazza.
Il film stesso d’altronde, in piena armonia con il contenuto proposto, non è che una piccola parte di un più ampio progetto crossmediale che combina il cinema, il digitale e i social per condividere le storie degli attivisti di tutto il mondo e fornire un luogo liquido -al tempo stesso il non-luogo per eccellenza-, che consenta a tutti di conoscersi e uscire dal’abulia e dallo sterile brontolio oramai tanto di moda.



Più che un progetto cinematografico è quindi una dichiarazione politica atemporale e universale che riguarda tutti, perché lo sdegno e la speranza abitano ogni città.
Everyday rebellion mostra come la rivoluzione non sia –sempre che mai lo sia stata – un’operazione verticale, gerarchica o piramidale, bensì orizzontale, basata sul contributo di tutti.
Al posto delle armi vediamo ora palloncini colorati che contengono messaggi di speranza, nessuno scudo anti-uomo ma corpi nudi e silenziosi coperti con scritte sul petto, nessun proiettile ma palline colorate, centinaia di palline che rimbalzano lungo le strade di una città massacrata dai conflitti.
Scopo dei registi era proprio quello di regalare ai fruitori un’esperienza gioiosa, facendo capire che è possibile cambiare le cose semplicemente uscendo dalle nostre solitudini e aiutandoci a vicenda. È anche questa un’esperienza viscerale e intimissima.
Erica Belluzzi

lunedì, dicembre 22, 2014

I DOLORI DEL GIOVANE LARS

Oramai ci siamo abituati e le sue dichiarazioni, seppur altisonanti, lasciano sempre meno traccia. L'ultima di una lunga serie e'quella che riguarderebbe un'annosa dipendenza da alcool e droga, risolta  a discapito dell'estro artistico, ingabbiato e ridotto all'impotenza da lunghe sedute sul lettino dello psicanalista. A dichiararlo qualche giorno fa e' stato l'immarcescibile Lars Von Trier, tornato ciarlero dopo il silenzio a cui è stato costretto dopo le scandalose dichiarazioni rilasciate al festival di Cannes in occasione della presentazione di "Melancolia",  dapprima accreditato di una possibile vittoria e poi travolto dalle polemiche scatenate dalle incaute parole del regista.

Di certo il cineasta danese conosce bene la materia e sa anche come usarla, se è vero che in ogni occasione le conseguenze del suo dire lo hanno premiato con picchi di visibilità che neanche i suoi film più famosi sono riusciti a fargli ottenere. L'elenco degli argomenti usati è lungo e variegato, e comprende perle di saggezza come quelle pronunciate a favore del nazismo di cui abbiamo accennato in apertura, oppure  estrosità artistiche utilizzate per scrivere le regole dogmatiche contenute all'interno del manifesto del movimento da lui fondato- il Dogma-  fino ad arrivare alle confessioni pubbliche che di volta in volta hanno riguardato una presunta conversione al cristianesimo e l'avvenuta guarigione da una pesante forma di depressione. Ed ancora resoconti dettagliati di set infuocati, con dovizie di particolari su attori sottoposti a ogni tipo di stress e costretti  a performance al limite del consentito.
 

Appurato che la personalità del nostro è quantomeno eccentrica e che i tormenti del giovane "Lars" sono lungi dall'essere una semplice invenzione, appare pur vero che nel suo caso non tutto sembra nascere da una forma di semplice autolesionismo o dalla voglia di apparire a tutti i costi. Il sospetto è quello di un modo di fare tutt'altro che incosciente, bensì perfettamente organizzato per creare il caso e poi sfruttarlo per tenere desta l'attenzione. D'altronde  sin dai tempi di "Le onde del destino" e di "Idioti" si è spesso parlato del regista danese come di un grande affabulatore, capace di orchestrare meccanismi cinematografici in bilico tra serio e faceto, lesti a prendersi gioco dello spettatore trascinandolo in un tourbillion di emozioni calcolate a freddo. La pratica rimane aperta così come la curiosità di vedere se il prossimo film di Von Trier pagherà qualche dazio alla serenità finalmente ritrovata.

sabato, dicembre 20, 2014

WIDE SHUT FINCHER

  
Senza voler peccare di lesa maestà nei confronti di uno dei grandi cineasti del nostro temo, e  consapevoli del rischio che certi paragoni possono creare in termini di pressapochismo e superficialità, non possiamo fa a meno di notare li punti di contatto tra il capolavoro postumo di Stanley Kubrick, quell'"Eyes Wide Shut" che a suo tempo aveva fatto molto discutere per motivi estetici (il montaggio ultimato da Steven Spielberg dopo l'improvvisa morte del regista) e pettegolezzi di bottega (la fine del matrimonio tra Tom Cruise e Nicole Kidman, logorato dalla forzata convivenza nel set di lavorazione interminabile) e "Gone GIrl", il lungometraggio di David Fincher campione d'incassi e di dibattiti, provocati dagli scottanti contenuti della sua storia.


Radiografato fino all'ultimo fotogramma, di "Eyes Wide Shut" sappiamo quasi tutto (perche quando si parla del genio americano l'imponderabile è sempre dietro l'angolo) a cominciare dalla sua derivazione letteraria (Arthur Schnitzler) per continuare con le implicazioni di un discorso che attraverso un viaggio reale e metaforico, pone una pietra tombale sui rapporti di coppia e sull'istituzione matrimoniale, esplorata attraverso la rappresentazione del desiderio e della sessualità. Di "Gone Girl" invece comimciamo solo adesso a ragionare ma tanto basta per azzardare un minimo di analisi. Per approcciarlo con coerenza, il film e chi lo ha diretto, è bene disfarsi del concetto d'autore così come lo si intende dalle nostre parti. Fincher lo è almeno dai tempi di "Zodiac" e "Fight Club", nonostante le accuse (oramai scemate) di realizzare un cinema di "seconda mano", viziato secondo alcuni, da eccessi di virtuosismo visivo, - ora considerato rigoroso dagli ex detrattori - da un gusto oltremodo legato al cinema di genere, e per ultimo dal fatto di non essere titolare della sceneggiatura dei suoi lavori; particolare che non ha impedito a gente come Alfred Hitchcok e Martin Scorsese di diventare figure assolutamente imprescidili. Solo partendo da questa premessa e considerando perciò "Gone Girl" il risultato di un'arte altrettanto leggittima è possibile accostare il lavoro del discepolo a quello del maestro. 

Così, fatte salve dovute differenze che riguardano innanzitutto il linguaggio - il film del 1999 procedeva per astrazioni e descriveva l'eccezionalità del quotidiano, quello di oggi è discorsivo e talmente immerso nel contingente da utilizzare i media, e in particolare la televisione come cartina di tornasole dei comportamenti umani - e la forma, laddove Fincher spinge l'acceleratore sui codici di genere, con l'onniscenza della voce over, modulata sull'esempio dei grandi classici del noir, l'evidenza dei punti in comune va oltre la superficie della storia. In entrambi i casi infatti la vicenda è caratterizzata da due coppie modello che improvvisamente perdono stabilità (con Fincher ancora una volta attaccato alla cronaca quando fa scaturire il malessere esistenziale da quello economico). e unione, per ritrovarsi separati e soli, ad inseguire i rispettivi fantasmi attraverso una serie di eventi misteriosi drammatici. 


Ma di tutto ciò non sarebbe sufficiente a scomodare simili paragoni se non fosse che in entrambi i casi il "viaggio" dei protagonisti mette in scena il disvelamento di una mistificazione (individuale e collettiva) e insieme la sua inevitabile accettazione, con le scene conclusive ambientate in luoghi tipici della mondanità, a sancire il ritorno dei transfughi in un alveolo di conclamata normalità. 

Un gioco di specchi tra realtà e apparenza e soprattutto- In Gone Girl- tra bene e male, di volta in volta individuato dalla cangiante personalità dei personaggi. In questo senso i Bill e Alice di "Eyes Wide Shut" come pure Nick e Amy del film di Fincher sono talmente esemplari nell'intercettare gli umori del proprio tempo da diventare una sorta di nuovi Adamo ed Eva, uniti dalla complicità di un peccato, compiuto, oppure, ma fa lo stesso, soltanto desiderato.

venerdì, dicembre 19, 2014

"Into my way of things: the Curtis' division".

- a margine di "Control" di A.Corbijn -


"Can you stay for these days ?"
- Joy Division -


L'esistenza, allora, che importanza ha? Io esisto al meglio che posso. Il passato e' parte del mio futuro, ora. Il presente e' inaccessibile" - Heart and Soul - Versi/riflessioni, questi, sullo scabro crinale tra desolato bilancio intimo e lucida affermazione di una poetica, che Ian Curtis - voce e autore delle liriche dei brani dei Joy Division - elabora durante l'estremo interludio creativo precedente la sua morte (a nemmeno ventiquattro anni, un giorno di mezzo Maggio del 1980: morte a lungo evocata in innumerevoli allusioni, ed infine trovata nella cucina della moglie Deborah - dal cui testo "Touching from a distance" il film di Corbijn e' in parte tratto - nella foggia di una corda con cui impiccarsi) e che scandiscono le prime immagini di un'opera contrassegnata dallo sconforto, da un silenzio coriaceo, da una sorta di afflitta inesorabilità vocata all'annichilimento: impossibilita' fatta materia di liberarsi dalla solitudine e dal disgusto; persino inetta a produrre il tentativo di lenirli condividendoli. Soprattutto - e per l'esattezza - caratterizzata dalla distanza, a dire da quella condizione dello spirito che guarda al mondo con l'impassibilità inquieta che si riserva alla contemplazione di un reperto di archeologia avveniristica.

Distanza dalle prospettive, innanzitutto (l'ambiente retrogrado e conformista della provincia britannica della meta' degli anni '60 - Macclesfield, quasi un tiro di schioppo da Manchester - su cui sarebbe tornato, altrettanto sconsolato, altrettanto impietoso, Morrissey qualche anno dopo -: crogiolo logoro a misura di destini diluiti in lavori umili, spesso mal pagati, a loro volta passaporti esenti da timbro per vite mediocri, invisibili, le luci già accese in casa in piena mattina...). E distanza da orizzonti non necessariamente angusti e intrinsecamente violenti ("L'ampia distesa di villette a schiera posta dietro la stazione ferroviaria di Macclesfield venne demolita nei tardi anni '60 per fare spazio ad un nuovo complesso di case popolari. Ciascun edificio era identico agli altri. Con quei lunghi ballatoi in comune e le squallide scale, quei palazzi erano destinati a diventare luoghi ancora più malsani delle abitazioni che avevano sostituito" - D.Curtis, op.cit.: descrizione sovrapponibile quasi alla lettera ai "quartieri sinistri come obitori" del Laforgue più inconsolabile e con puntualità annotata dallo stesso Ian, a testimoniare, al tempo, l'intollerabilità di una condizione nella sua indifferente evidenza senza scampo e il sospetto, altrettanto pacifico quanto tendenzialmente rassegnato, circa il suo riproporsi nel futuro immediato in forme ancor più radicali e spietate: "Ci si può aspettare che si materializzi altro che panico dell'era moderna dietro colline lontane, in città violente, paesi quieti e case di proprietà ?" - I.Curtis, appunti - come pure "Looked beyond the day in hand/There's nothing there at all" - Twenty-four hours -). Più nel profondo, distanza dalle aspirazioni e dai sentimenti (il timbro cupo, mai disteso o ingenuamente assecondato, che marchia il rapporto - almeno quello di Curtis - con il successo: consacrazione di una propria via all'espressione artistica, da un canto, e malattia diffusa, perverso rapporto parassitario con platee di sconosciuti a volte adoranti, di certo voraci/insaziabili, dall'altro; l'ambiguità interiore e la croce del senso di colpa - di qui la moglie Deborah; di la' Annik Honore', giornalista belga scomparsa nel Luglio scorso, tra l'altro ferma nel ribadire il carattere essenzialmente platonico della sua relazione con Ian - come poli opposti ma di uguale intensità di un animo acerbo, quindi confuso, di per se' tagliato sull'insoddisfazione e indirizzato anzitempo verso lo scoraggiamento); dal gelo secreto dalla prematura coscienza della propria anomalia (dall'epilessia resa solo più evidente), spinta oltre le soglie di un insistito autolesionismo : "Empty station/Too long waiting/In a hurry to get somewhere/Divorced from anythng so early/All a waste of nothing really/You were never there, always out of touch" - Out of touch -


D'altra parte, proprio uno sguardo attonito e lontano s'irradia dal viso chiaro di Curtis - come dall'indagine silenziosa ma perentoria di Corbijn: prevalenza d'inquadrature frontali con scarso movimento al loro interno; sfuggenti squarci di paesaggio rurale od urbano, a mattino inoltrato o sul far della sera; piani piuttosto stretti sui corpi e su volti poco propensi al dialogo o come per mezzo di quello distolti da un più serrato lavorio interiore - nel tentativo (e con la speranza) d'individuare una via di fuga praticabile dai ben presidiati possedimenti dell'omologazione e del grigiore, e col persistente rovello che, forse, anche la grande illusione incarnata dalla Musica cela al suo interno compartimentazioni e trappole non dissimili da quelle da cui già quasi pare impossibile stare alla larga ("You've been seen things, in the darkness, not in learning/Hope the truth will pass" - No love lost -), gettando sulla vicenda e sui destini in essa coinvolti ulteriori sprazzi di una luce avvilita, per niente indulgente, in grado cioè di aggiungere separazione a separazione e, che, nella tavolozza di "Control" (a proposito: non può darsi alcun controllo visto che, oltre lo smarrimento e la stessa patologia - l'epilessia, come accennato - testimoniata e patita, ciò che e' dato arranca "On the wasteline/Heartbreak, mainline.../All a waste of nothing really/Arrive too late - don't you know you're out of touch ? - Out of touch -) assume i toni di un b/n solo in apparenza tale (Corbijn viene dalla fotografia), in realtà di continuo mutevole in un gioco d'ombre fatto di chiaroscuri in cui i grigi spesso sbiadiscono entro bianchi opachi e i neri perdono profondità adagiandosi in oscurità indecise, spalancate su qualunque esito ("This is the hour when mysteries emerge/A strangeness so hard to reflect" - Komakino - tra l'altro, ennesimo sentiero interrotto dei Division, questo; percorso di straziante attualità nella sua amalgama di idealismo masochista e preveggenza senza conforto, sul tappeto di un illusorio moto perpetuo dall'ordito di danza giapponese)...


Come si suole dire, una delle caratteristiche della vera arte e'/dovrebbe essere quella di precorrere i tempi o quanto meno di leggere le fratture nel suo tessuto al momento in cui esse si aprono e restano, sovente, perlopiu', nella considerazione generale, ignorate o fraintese. E' noto che le vicende umane prevedono, nella loro relativa circolarità, l'alternarsi di periodi di stabilita' - e magari di benessere - ad altri di tensioni e contrasti: alle propaggini di ognuno di questi intervalli, prendono forma, spesso come estenuazione di uno dei due estremi, più o meno lunghi interludi che - a volte rabbiosi, non e' detto intrisi di fiducia, comunque ambivalenti - traghettano speranze, illusioni, interrogativi, da un contesto logoro, come che sia sperimentato a fondo, ad uno in ogni caso vergine, nel senso di esente da controprove. La seconda meta' degli anni '70 rappresenta proprio uno di questi spartiacque, e la musica dei Joy Division - per ciò che attiene la cultura giovanile o, genericamente, la cultura di massa - ne e' stata una delle testimonianze, sebbene laterali e circoscritta entro un intermezzo fugace, tra le più chiaroveggenti oltreché sofferte ("All the noise in too much/And tue seeds that are sown /Are no longer your own... Thousand words are spoken loud/Reach the dumb to fool the crowd" - Leaders of men - ).
L'incedere percussivo secco e profondo di Hook (basso) e Morris (batteria); i fendenti gelidi della chitarra di Sumner; il semi-recitativo baritonale di Curtis, tacendo il lavoro oculatissimo di sperimentazione sonora elaborato per il gruppo da Martin Hannett, parlano già, infatti e a freddo, verrebbe da dire, di tempi - i famosi/famigerati anni '80 - che non solo sono ancora intorno a noi ma nei decenni abbiamo ampiamente interiorizzato a colpi di atteggiamenti, di riflessi condizionati, di aspettative più o meno consce, passibili - queste e quelli - di mere trasformazioni quantitative, sul doppio registro della loro sistematica velocizzazione, da un lato, e dall'accumulazione/sostituzione, dall'altro ("Left to blind destruction/Waiting for our sight" - Transmission - ). Come intendere, altrimenti, la meraviglia desolata del ritornello di "The only mistake", con la voce cavernosa di Curtis a snocciolare versi come da una cabina telefonica sistemata chissà dove, di sicuro ben lontano dal-centro-dell'Impero: "Strain, take the strain/These days we love". Stesso discorso per l'ultima strofa di "These days" (ancora questi giorni, di la' da venire, in teoria ma in un certo qual modo già visti - se non vissuti - senza trasporto, senza desiderio): "We'll drift through it all/it's the modern age"; brano la cui tensione interna prelude, di fatto, all'instaurazione di un nuovo ordine - i New Order, appunto, dopo l'uscita di scena di Curtis, lo smarrimento iniziale e il tentativo di opporsi alla frustrazione da parte dei tre superstiti - proprio allo scopo di sollevare questioni nuove a fronte di scenari inediti.


La presa e la stretta di una morsa dalla quale non e' chiaro se e come riusciremo ad affrancarci ("Looking ahead in the grip of each fear/Recalls the life that we knew" - Komakino - ), abile come e' stata a capovolgere completamente l'assillo di un disagio ampio e doloroso che dalle sollecitazioni degli anni '60 s'era andato via via - di delusione in delusione, e' leale ribadirlo - sedimentando nelle incognite di un conflitto psicologico segnato da pulsioni di disgusto e conseguente distacco dalla realtà con annesse nemmeno tanto striscianti tentazioni autodistruttive, nell'assunzione passiva quanto compiaciuta di un ventaglio limitato di comportamenti fondati su un superficiale piacere/-rsi, sulla priorità del superfluo, su una sorta di soffice oblio placebo, percorre in lungo e in largo il lavoro di Corbijn. L'iconografia stessa dei Joy Division, del resto, compiuta nella sua essenzialità fin dagli esordi e ben restituita dal regista/fotografo olandese - abiti dimessi neri o comunque scuri, dal taglio anonimo o démodé, al limite di una crepuscolare trasandatezza; il frasario laconico e le pose raccolte e silenziose; i rari sorrisi, spesso solo accennati - retrospettivamente si staglia con ancora maggiore nitidezza sullo sfondo di questo contesto quasi destinato ad imporsi e che, nel concreto, pressoché senza colpo ferire, nel volgere di qualche stagione, ha, per così dire, ritorto il furore disordinato e programmaticamente senza speranza del punk - dal quale, bene o male, i Division avevano attinto per rinvigorire di energia residua la fibra scoperta delle loro melodie tenute insieme dalla prostrazione - traendone un languore innocuo, colorato e senza pensieri, sostanziato da un ottimismo che per la sua parte migliore era più una reazione alle sistematiche e cocenti sconfitte dell'immaginazione negli anni precedenti che l'affermarsi di un autentico - perché reale, operante e significativo - nuovo-spirito-dei-tempi ("The things that we've learnt are no longer enough/No language, just sound/That's all we need to know/To synchronise hearts to the beat of the show" - Transmission - ). L'abbraccio, progressivo ma inesorabile, di una spensieratezza mani e piedi ben salda alle luccicanti zavorre del consumo e del disimpegno, favorita anche dal cambiamento del quadro economico e oggi come oggi data per scontata e senza alternative da milioni di persone, alla luce di un'esperienza bruciante e travagliata come quella di Curtis e soci - alla fin fine,
quest'ultima, quasi struggente dato il suo modo tragico ma austero di ritirarsi nel buio un attimo prima che questo prenda il sopravvento mascherandosi da evidenza tanto abbagliante da impedire di vedere il solco che andava aprendosi tra due mondi, uno dei quali, a bagliori scemati, sarebbe sprofondato di colpo nel passato - racconta e riafferma, così, quella distanza da cui siamo partiti, evidenziando altri punti di vista possibili: ad esempio l'impotenza, frammista a senso d'inutilità e ansia per il futuro, che impedisce di aggrapparsi ancora a modelli e riferimenti crollati una volta chiamati a misurarsi con la Storia (non a caso il primo mini-EP dei Division reca il titolo, che e' già un'istanza, di "An Ideal for living", e siamo a cavallo tra il '77 e il '78); o anche la constatazione in base a cui il disfarsi di quei paradigmi concorre a favorire l'affermarsi di una frammentazione sociale - che e' sempre, innanzitutto, ricordiamolo, un fatto privato che interessa l'individuo, i suoi propositi, i suoi sogni, le sue disperazioni ("Guess your dreams always end/They don't rise up just descend/But I don't care anymore/I've lost the will to want more" - Insight - ) - da intendersi in primis come il venire meno degli stimoli ad indagare la natura delle metamorfosi che essa subisce, ripulendo, certo, l'orizzonte dai rottami delle ideologie e dei massimalismi ma pure aprendo la strada ad una convivenza che sempre più somiglia ad un'asettica sommatoria di monadi isolate, perplesse, disorientate, di fatto abbandonate a se stesse al cospetto del Mercato: derive anguste e spersonalizzanti che i Joy Division e Curtis in particolare sembrano aver preannunciato o, quantomeno, messo in conto, al punto da arrendersi in un giorno di Maggio all'illusione che bastasse anche solo una corda per arginarle. "All the conflicts inside/all the problems beside/As the questions arise/and the answers don't fit/Into my way of things/Into my way of things... (Komakino).

TFK

Film in sala da Giovedì 18 Dicembre 2014

LO HOBBIT: LA BATTAGLIA DELLE CINQUE ARMATE
The Hobbit: the battle of the five armies
di Peter Jackson
con Martin Freeman, Ian McKellen, Elijah Wood, Billy Connolly,
Evangeline Lilly, Cate Blanchett, Hugo Weaving,
Christopher Lee, Benedict Cumberbatch
2014 NEW ZEL/USA - Fantasy- 144 min

JIMMY'S HALL
di Ken Loach
con Barry Ward, Andrew Scott, Simone Kirby
2014 FRA/GB/IRL - Drammatico- 106 min

L'AMORE BUGIARDO
GONE GIRL
di David Fincher
con Ben Affleck, Rosamund Pike, Missi Pyle, Neil Patrick Harris
2014 USA - Drammatico - 149 min

IL RAGAZZO INVISIBILE
di Gabriele Salvatores
con Ludovico Girardello, Valeria Golino, Fabrizio Bentivoglio, Kseniya Rappoport
2014 FRA/ITA/IRL - Fantasy - 149 min

ST.VINCENT
di Theodore Melfi
con Bill Murray, Naomi Watts, Melissa McCarthy, Jaeden Lieberher
2014 USA - Commedia - 102 min

UN NATALE STUPEFACENTE
di Volfango De Biasi
con Lillo, Greg, Paola Minaccioni, Paolo Calabresi, Ambra Angiolini
2014 ITA - Commedia - 100 min

BIG HERO 6
di Don Hall, Chris Williams
2014 USA - Animazione - 102 min

UN GATTO A PARIGI
Une Vie de Chat
di Jean-Loup Felicioli, Alain Gagnol
2014 BEL/SVI/FRA/OLA - Animazione - 64 min

mercoledì, dicembre 17, 2014

9 FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA: GONE GIRL


Festival del cinema di Roma - 5 giornata
Gone Girl
di David Fincher
Usa, 2014
durata, 145′

L’Occidente, visto dagli occhi di David Fincher, altro non è che un grattacielo fatiscente costruito su fondamenta fatte d’illusione e di menzogna.
Protagonisti della storia sono Nick Dunne e la moglie Amy che, a dispetto di un matrimonio apparentemente idilliaco, scompare in circostanze misteriose il giorno del quinto anniversario di matrimonio.
Un mescolamento di generi, quello adoperato da Fincher, che spazia dalla commedia al thriller (si citano, tra gli altri, “La guerra dei Roses” e “Basic Instinct”), scivolando in una ritmica narrativa che non perde mai colpi – 145 minuti volano via come se nulla fosse -. La scelta di utilizzare Ben Affleck, che col suo fare perennemente inebetito incarna a perfezione il personaggio, risulta non solo azzeccata ma addirittura oculatamente premeditata (un’operazione simile venne fatta da Cronenberg scegliendo Robert Pattinson per “Cosmpolis”). A finire di confezionare il tutto, una fotografia sincronizzata con una regia definitivamente matura e dal tocco più che riconoscibile.
L’illusione e la menzogna, cui facevamo cenno in apertura, trovano riscontro, su una base più superficiale, nella pochezza grottesca del mezzo mediatico. Andando a scavare, poco più a fondo, nel microcosmo dettagliato descritto in “Gone girl”, l’amara conclusione che Fincher trae, e di cui tutti, ci piaccia o no, dovremmo convincerci, è la seguente: non è natura dell’uomo vivere con gli altri.
Abbiamo fallito.
Antonio Romagnoli (voto *****)

lunedì, dicembre 15, 2014

BELLUSCONE-UNA STORIA SICILIANA

Belluscone- Una storia siciliana
di Franco Maresco
Italia, 2014
genere, documentario
durata, 94'


Affermare che nel cinema ci sono film più importanti di altri potrebbe apparire retorico se non superfluo. Ciò non toglie che il ritorno  sugli schermi di Franco Maresco non è cosa da poco. A dirlo e' la personalità dell'uomo, raramente rintracciabile nei gironi delle consorterie e dei salotti che contano ma soprattutto una filmografia così fuori dagli schemi da riuscire nell'intento di scomodare i vertici del sistema, pronti a reagire con anatemi  e scomuniche all'intransigenza del regista siciliano. Oltre a questo il fatto che "Belluscone, una storia siciliana " rappresenta anche la prima volta (ove si escluda "Tony Scott..") di Maresco senza Daniele Ciprì, il sodale di sempre, nel frattempo affermatosi come uno dei migliori direttori della fotografia, ed autore egli stesso di due film dalle alterne fortune.

Ma la scelta di legare tale progetto alla figura politica italiana più significativa degli ultimi 20 anni non e' casuale, perché il cavaliere oltre ad essere un animale politico di prima fascia, rappresenta anche lo zenith di una materia cinematografica che,  per forza di cose, e seppur  indirettamente, con lui ha dovuto confrontarsi. Com'è accaduto a Maresco quando si è trattato, per esempio, di considerare le conseguenze antropologiche e sociali del suo operato attraverso le istantanee grottesche  e dissacranti di "Cinico Tv", contraltare brutto sporco e cattivo di un paese abituato a deformità di senso opposto.


In questo caso però Berlusconi, seppur apertamente citato con immagini di repertorio o attraverso il resoconto di chi lo ha conosciuto da vicino (Marcello Dell'Utri) appare piuttosto come un falso scopo, necessario a catalizzare l'attenzione dei media ma soprattutto a tenere insieme in maniera organica i frammenti di un discorso altrimenti impossibile da contenere per la frammentazione del tessuto narrativo. E invece, partendo dalla figura dell'illustre politico, e dalla città, Palermo, che meglio ne rappresenta il consenso elettorale in terra di Sicilia, Maresco ci conduce alla scoperta di una serie di figure umane che sembrano la quintessenza di una mentalità tutta italiana, con "ammuine", malaffare e molto opportunismo, mirabilmente sintetizzati dall'impresario di cantanti neomelodici Ciccio Mira, antesignano dell'Enzo Castagna di "Enzo, domani a Palermo", film a cui almeno nella struttura narrativa e nel rapporto tra realtà e finzione "Belluscone, una storia siciliana"  deve molto.


Ed è proprio la natura tragicomica di quest'ultimo  personaggio - peraltro realmente esistente-, alla pari di quella degli improbabili cantanti, maldestramente sospesa tra legalità e malaffare, a creare il cortocircuito con il modello berlusconiano, altrettanto pittoresco e surreale, e quindi, e qui sta il punto, compromesso con il tessuto psicologico e sociale di cui è riferimento. Ci sarebbe poi da parlare della forma  mockumentary del film, del significato ultimo di una vicenda che in fondo racconta di una pellicola mai conclusa, e che per questo diventa la testimonianza della precarietà che da sempre accompagna il percorso artistico ed esistenziale dell'autore siciliano. A testimonianza di un'opera al tempo stesso complessa ma diretta, che ha avuto l'onere di rappresentare il nostro cinema all'ultima edizione del festival di Venezia, dove è stata selezionata nel concorso ufficiale. 

sabato, dicembre 13, 2014

LO HOBBIT: LA BATTAGLIA DELLE CINQUE ARMATE

Lo Hobbit: La battaglia delle Cinque Armate
di Peter Jackson
con Martin Freeman,  Ian McKellen, Elijah Wood, Billy Connolly, Cate Blanchett, Evangeline Lilly    
Nuova Zelanda, Usa
durata, 144'

  
Già un anno fa, su queste pagine, avevamo affermato che, per dare un giudizio definitivo a proposito della nuova trilogia firmata da Peter Jackson, bisognava aspettare l'uscita dell'ultimo capitolo. E, in effetti, "La battaglia delle cinque armate" conferma che i tre capitoli componenti "Lo hobbit" non possano non essere visti come frammenti di un' unica - mastodontica - opera. Accade, quindi, che tutti i timori ed i (pre)giudizi, derivanti in particolar modo da "La desolazione di Smaug" - e comunque già in parte ritirati presa visione dell' extended version, che attendiamo anche per "La battaglia..." - vengano, abbastanza velocemente, a cadere. 

Nonostante l'ambientazione, i toni, le interpretazioni ed alcuni svolgimenti siano a favore, peraltro giustamente, di una resa fiabesca - ricordiamo che il film è stato girato a 48 fps -, a conti fatti, Peter Jackson ha modellato materia ancora grezza - il romanzo era stato scritto da Tolkien molti anni prima che lo stesso concepisse "Il signore degli anelli" - con la consapevolezza ed i mezzi per poter restituire all'opera originale una densità d'infrastrutture che obbiettivamente al libro mancavano.  A tutto ciò si aggiunge - e non è cosa di poco conto - un'alta dose di intrattenimento, laddove le scene di battaglia - sia tra eserciti che tra i singoli eroi ed antagonisti - tengono testa, essendo girate divinamente, a quelle leggendarie del fosso di Helm/dei campi del Pelennor/etc. S'aggiunge, a tutte queste ottime impressioni, grande accortezza all'evoluzione psicologica dei personaggi - anche di quelli che poi saranno presenti dopo il ritrovamento "dell'unico anello" -, accuratezza che trova il suo massimo punto d'espressione nella follia di Thorin.

Tutte le aggiunte apportate in sceneggiatura - oltre ad arricchire, come dicevamo sopra, il testo - si rivelano perfettamente congegnate per far combaciare "The hobbit" con "The lord of the rings", restituendo alla Terra di Mezzo, ancora una volta, epicità, dolcezza, poesia.
Antonio Romagnoli

venerdì, dicembre 12, 2014

IL RICCO, IL POVERO E IL MAGGIORDOMO

Il ricco, il povero e il maggiordomo
di Aldo, Giovanni e Giacomo, Morgan Bertacca
con Aldo, Giovanni e Giacomo
Italia, 2014
genere, commedia
durata, 102'



Dopo diciassette anni di onorata carriera cinematografica e otto lungometraggi alle spalle, Aldo Giovanni e Giacomo tornano sul grande schermo con Il ricco il povero e il maggiordomo.
Era da quattro natali che il trio milanese lasciava a bocca asciutta i suoi ammiratori, fatto salvo per la pièce teatrale Ammutta Muddica e per un'interminabile serie di spot pubblicitari che li ha visti testimonial di una nota compagnia telefonica.

Forse la "pausa sabbatica" non ha contribuito a tenere i tre sotto allenamento, o forse vendersi alla televisione nella sua forma più becera, la pubblicità, non è esattamente quello che dovrebbe fare un buon comico, ma certo è che le aspettative dei fan non possono dirsi appagate dal loro ultimo lavoro.
Nel lontano 1997 l'approdo al cinema con Tre uomini e una gamba era stato un vero e proprio miracolo —oltre che di botteghino— di consensi fra pubblico e critica, grazie a sketch ben riusciti tali da distinguersi nel panorama comico italiano per una narrazione semplice e una sceneggiatura quasi abbozzata, in grado di esaltare la verve istrionica dei tre ed enfatizzare la portata comica della battuta.
Ora invece Aldo, Giovanni, Giacomo e Paolo Guerra (alla produzione), lungi dal cercare qualcosa di fresco e brioso, ripropongono sempre lo stesso repertorio in una vera e propria fiera del trito e ritrito, come era accaduto con La Banda dei babbi natali —inspiegabilmente  campione d'incassi—.

Il film narra le vicende di tre individui di differente estrazione sociale (un ricco imprenditore senza scrupoli, un cinico maggiordomo e un semplice venditore abusivo col sogno d'ottenere la licenza) che, in un momento di grande difficoltà, si trovano d'improvviso a condividere la quotidianità aiutandosi a vicenda, come si conviene sia il plot di una bella storiella morale. Non occorre dilungarsi sulle evoluzioni psicologiche e caratteriali cui andranno incontro i personaggi, dato che ci troviamo di fronte all'eterno ritorno di temi e cliché tipici della produzione cinematografica degli ultimi anni, quando il buonismo e l'happy ending regnano sovrani.
Ciononostante, il tentativo di dispensare insegnamenti morali buonisti e bulimicamente sfruttati sotto Natale è inficiato anch'esso dalla mancata consapevolezza che i tempi e la natura delle gag in teatro sono profondamente diversi da quelli del grande schermo.


In Il ricco il povero e il maggiordomo, i tre non solo continuano a chiamarsi coi loro veri nomi, ma perpetrano anche nel ruolo che per anni hanno avuto, tanto che non c'è quasi bisogno di dire chi avrà la parte del cinico, chi del presuntuoso e chi del sempliciotto di buoni sentimenti. Oltre a questo espediente stilistico —forse apprezzabile per l'onestà intellettuale con cui i tre rinnovano il patto attore-spettatore—, a reiterarsi senza soluzione di continuità sono anche gag banali quanto ovvie (palline da golf che colpiscono astanti ignari, ciabatte che volano, dita e mani incastrate dove capita), che caratterizzano il prodotto per un certo appiattimento qualitativo e una papabile involuzione registico-attoriale.

Il generi e i centri propulsivi dell'azione si accavallano e sovrappongono in un accozzaglio che perde acqua da tutte le parti, creando un'infinità di sottostorie che si allontanano dal centro propulsivo della narrazione in un pericoloso moto centrifugo che travolge lo spettatore, incapace di restare ancorato a un qualche coerenza logica.
Il fine pare essere quello di portare a compimento una sorta di parabola morale che obbedisce all' imperativo dell' omnia vincit amor (anche al tempo della crisi).
Inutile dire come tutto questo sentimentalismo e buonismo natalizio sia già stato visto molte e forse troppe volte negli ultimi anni.


Se non altro la comicità che i tre propongono non è mai volgare o fastidiosa —specie se confrontata con gli schiaffi in faccia che la nostra commedia all'italiana riceve ogni anno in questo maledetto periodo—, ma comunque non riesce a stimolare. I tre paiono stanchi e sterili di idee, tanto da darsi al citazionismo, ma, si sa, come disse Guy Debord, le  citazioni sono utili in periodi di ignoranza o di oscure credenze.

A salvare Il ricco il povero e il maggiordomo è forse la presenza di due grandi del teatro e del cinema italiano, Massimo Popozio e Giuliana Lojodice, nella parti rispettivamente di un padre parrocchiale e della madre di Aldo.
Erica Belluzzi

mercoledì, dicembre 10, 2014

IL RICCO, IL POVERO E IL MAGGIORDOMO: CONFERENZA STAMPA


Mercoledì 10 Dicembre presso The Space Cinema Odeon di Milano, dopo l'anteprima de Il ricco, il
povero e il maggiordomo, la troupe si é presentata a una sala colma e ancora divertita dalla
comicità del trio più celebre del cinema italiano degli ultimi decenni.
Oltre ad Aldo Giovanni e Giacomo (che interpretano rispettivamente il povero, il maggiordomo e
il ricco) erano presenti il regista Morgan Bertacca, l'attrice Guadalupe Lancho (nel ruolo di una
sanguigna cameriera sudamericana), Sara D'Amario (ancora una volta moglie di Giacomo sugli schermi) e Paolo Guerra per la produzione.


 
Per la velocità di contenuto e la purezza d'immagine, il film ricorda i vostri primi lavori, mentre a livello contenutistico é palese l'eco della situazione in cui attualmente versa il paese: parlate di crisi dipingendo un fedele ritratto dell'Italia in un momento di grande difficoltà. Pregio del film è utilizzare la crisi come elemento che livella e riporta tutti sullo stesso piano.

Quale è il significato del denaro in Il ricco il povero e il maggiordomo?


Giacomo: tengo a precisare che questo non è un film solo sulla crisi. Certo, é innegabile che siamo stati suggestionati da ciò che sta avvenendo nel nostro paese e più in generale in Europa e nel mondo, ma a modo nostro abbiamo voluto raccontare le vicende dell'uomo preso nella sua singolarità. In particolare ci siamo concentrati sull'avidità che, se non viene contenuta e morigerata, crea vere e proprie catastrofi.  Come nostro solito abbiamo optato per una narrazione tragicomica in grado di evidenziare come, a seguito di un momento difficile, le prospettive possono cambiare...in meglio.

Giovanni: La collaborazione e la solidarietà nel disastro possono creare qualcosa che pare andato perduto, questo credo sia il tema centrale del film. 
Aldo: Incontrare e conoscere persone che provengono da un universo economico e socialedifferente può portarci ad acquisire valori diversi e a considerare le cose da un nuovo punto di
vista. Nel film per esempio, dopo varie peripezie Giacomo esce povero economicamente ma ricco di sentimenti. La collaborazione può creare qualcosa di nuovo.

 
Guadalupe Lancho ė alla sua prima esperienza recitativa col trio, mentre lo stesso non si può dire per Sara D'Amario...

Guadalupe: esatto, non solo questa è la mio primo lavoro col trio, ma è la mia prima esperienza nel mondo del cinema italiano. Confesso che avevo un pochino di paura soprattutto perché in Spagna Aldo Giovanni e Giacomo non sono molto conosciuti. Ciononostante mi sono divertita moltissimo, come una spagnola pazza direi. Il massimo che si può chiedere dalla vita è lavorare divertendosi e loro mi hanno fatto questo grande regalo.  
D'Amario: questa è la mia terza esperienza come moglie di Giacomo (con la sua vera moglie ci
vogliamo bene e stimiamo reciprocamente). Ogni volta che Giacomo mi telefona e mi chiede se voglio essere sua moglie —sullo schermo— so che sto andando incontro a una grande avventura: Aldo Giovanni e Giacomo sono veri attori. Quando iniziai a lavorare con loro a conquistarmi non fu
a battuta facile o la parolaccia, ma un eloquio pronto e mai scontato, così come il ritmo della recitazione, brioso e veloce.

Come si sono conosciuti Giacomo e la sua moglie —al cinema—? 
D'Amario: Giacomo mi ha scoperta qualche anno fa, quasi per caso, mentre recitavo a teatro un ruolo tragico in Spingendo la notte più in lá, da un testo di Mario Calabresi, per la regia di Luca Zingaretti. Fu così che vide in me delle potenzialità comiche.. E non smetterò mai di ringraziarlo per le opportunità che mi ha dato.

Come si inserisce questo film nella vostra produzione?

 
Giacomo: Per noi ogni progetto è sempre una novità, una mondo nuovo. Certo, non è oro tutto quel che brilla e anche questo ha i suoi lati negativi, come per esempio l'impegno che ogni volta dobbiamo mettere nel fronteggiare un testo diverso.. Ma anche in "Il ricco il povero e il maggiordomo" lo scontro è stato più che positivo. Il destino del film è ora in mano al pubblico... Personalmente lo ricorderò come una delle lavorazioni più belle e feconde.

E la produzione è soddisfatta?

Guerra: Se dopo 25 anni siamo ancora insieme direi che la produzione è più che soddisfatta. Oramai siamo così affiatati che le riprese sono durate solo dieci settimane. Credo che questo film sia bellissimo, sicuramente uno dei migliori, paragonabile forse a Chiedimi se sono felice. Abbiamo investito molto su questo lavoro —sarà distribuito in circa 600 sale— perché in esso vi è qualcosa in più rispetto al passato, è attuale, si parla di persone che vivono i nostri stessi problemi e possono comprendere le peripezie dei protagonisti. Il nostro intento era quello di offrire a tutti gli italiani un momento di evasione e di consentire loro di riderci sopra e non di piangersi addosso.

Come sono stati scritti i rapporti sentimentali fra i tre personaggi?

Bertacca: sono onorato di dire che questo film è il mio esordio alla regia cinematografica. Forse per questo la scelta dei percorsi da intraprendere non è stata affatto semplice. La scrittura è fondamentale e con mia grande fortuna anche Aldo Giovanni e Giacomo, che mi hanno affiancato per la regia, dedicano molta a attenzione tempo a questa fase, sono precisi e meticolosi. Abbiamo cercato di non ricorrere a cliché — o se è successo non è stato certo consapevolmente—mora mai abusati nella commedia italiana. Ogni singola scelta è frutto di un work in progress che dura mesi e mesi. Più precisamente, Non riesco a ricordare come è nata l'idea che Aldo sarebbe stato un tombeur de
emmes all'incontrario —non consuma mai, ma scappa sempre dalle donne—. 
Giacomo: non si sa come si arriva alla fine, è un percorso tortuoso quello della realizzazione di un film.Le donne hanno un peso molto importante in Il ricco il povero e il maggiordomo: oltre alle compagne dei protagonisti molto spazio ė dedicato anche a Giuliana Lojodice, madre  di

Aldo. Calcedonia, Dolores e Camilla sono donne dominanti...

Aldo: Questo è un elemento di novità per la continuità stilistica che ha sempre caratterizzato la nostra produzione. Sono donne che manifestano anche una certa sessualità, penso per esempio all'offerta esplicita e quasi caricaturale della moglie di Giacomo.Certo questa scena spicca molto nell'ambito di un film molto casto —come sempre sono i nostri poi— da famiglia, quasi cartone animato.Calcedonia inoltre, il nome di mia madre nel film, è anche il nome anche della mia vera mamma..
Erica Belluzzi

MOMMY

 Mommy
di Xavier Dolan
con Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément
Francia, Canada, 2014
genere, drammatico
durata, 140' 


Dopo "I Killed my mother", Anne Dorval —ormai consacrata al ruolo genitoriale femminile per il regista canadese Xavier Dolan—  interpreta Diane Déspres, madre vedova di Steve (Antoine-Olivier Pilon), adolescente affetto da deficit di attenzione (ADHD) e da un iperattivismo che non gli consente di limitare e frenare la propria potenza, portandolo spesso a compiere azioni di cui finisce poi, riacquisita la lucidità, per pentirsi.
Come Diane spiega, la vita con Steve è un salto nel vuoto: non si sa mai se si cadrà in piedi o ci si sfracellerà al suolo; farlo significa vivere con la consapevolezza che è solo questione di tempo, sapendo che presto combinerà qualcosa di veramente grave.

Lui, carismatico e manipolativo, violento e sessualmente provocatorio, protegge la madre, che è al tempo stesso il suo mondo, la sua donna, porta di accesso all'universo e fonte di infinita protezione.
Lei, volgare e vitale come il figlio,  lavorativamente — e non solo— disagiata, passa le sue giornate pulendo case altrui e traducendo libri per bambini.
Sotto quintali di cipria e vestiti imbarazzantemente volgari si nasconde una donna forte e temprata dalle disavventure che la vita ha sempre in serbo per lei, come un incidente d'auto nella prima scena del film ci fa intendere.
Persi nel loro amore i due vivono in una dimensione tutta loro, impenetrabile agli "altri", codificata da un vocabolario e una liturgia del quotidiano che difficilmente potrebbe essere compresa da terzi.
Della loro Versailles —come Die definisce la catapecchia tutta carta da parati in cui vivono— i due sono i regnanti e il mondo, con le sue regole e la sua politically correctness, è loro nemico.
Si odiano e si amano, sono l'uno vittima e carnefice dell'altro.

A liberare temporaneamente i due da questo lento gioco al massacro sarà Kyla (Suzanne Clément), dirimpettaia balbuziente in anno sabbatico per motivi che ci sono solo lasciati intuire —una depressione forse?— che avrà su Steve un effetto calmante e palliativo.
Presto fra i tre verrà a crearsi un'inaspettata alchimia che consentirà loro di liberarsi dalle proprie catene e passare insieme momenti di ordinaria follia.

Come la scritta bianca su sfondo nero —ordinata e precisa come nulla nel corso della pellicola— all'inizio del film spiega, in un distopico Canada una nuova legge promulgata dal sistema sanitario nazionale offre alle famiglie di ragazzi "difficili" con gravi disturbi l'opportunità di rinchiuderli in una sorta di ospedale psichiatrico anti-Basaglia -ma non così diverso, ahimè, da come funzionano le cose anche nei nostri "moderni" ospedali psichiatrici- .
La situazione inizierà presto a complicarsi, e Die si vedrà costretta a prendere in considerazione questa possibilità, indossando i panni di Giuda.
Ma sarebbe sbagliato credere che così facendo Dolan abbia voluto renderci il ritratto di una madre passiva e incapace di dominare il figlio.
Come egli stesso disse in occasione della presentazione del film alla sessantasettesima edizione del festival di Cannes (in cui si è aggiudicato il premio della giuria ex aequo con Godard), "I don't see the point in making film about losers".
La scelta che la madre compie, latente possibilità fin dal primo frame del film, non è dettata dalla disperazione o dalla rassegnazione ma dalla speranza che un domani il figlio possa stare bene, essere guarito e condurre una vita migliore.

 

La pellicola, perturbante e rabbiosa, come il giovane Steve quando in un raptus quasi soffoca la madre, mette in discussione il sistema e le facile scappatoie che utilizziamo per relazionarci a chi è diverso da noi, specie quando l'alteritá prende la forme della "malattia" mentale : l'esclusione, l'isolamento, la pillola facile.

 

La maniacale codipendenza dei due protagonisti –una regia sopraffina non permette al complesso di Edipo di far da padrone alla scena— è resa anche grazie ad un'immagine (alla fotografia André Turpin) in formato 1:1 per la maggior parte del tempo, in cui i protagonisti sono schiacciati e sbattuti l'uno contro l'altro senza possibilità di fuga.
In quei pochi momenti in cui lo schermo si allarga, anche le possibilità diventano maggiori, gli orizzonti si ingigantiscono, e la speranza galoppa veloce fino a quando le sbarre nere chiudono a sinistra e a destra dello schermo i miserabili nella loro prigione quotidiana.
Oltre alle scene compresse che buttano la madre contro il figlio accendendo la miccia del conflitto, ottima è anche la scelta —in continuità con le pellicole precedenti del regista canadese— di cucire le immagini con un collage vintage di tracce pop e classiche, spesso e volentieri in slow motion o ad un volume così alto da infastidire, perturbare, riuscendo così a essere conturbante anche solo nella scelta musicale.

Erica Belluzzi

lunedì, dicembre 08, 2014

LA METAMORFOSI DEL MALE

La metamorfosi del male
di William Brent Bell
con AJ Cook, Brian Scott O Connor
Usa, 2013
genere, horror
durata, 89'

Nella storia del cinema più recente ed in particolare in quella riguardante  il genere horror non c'è dubbio che il film di John Landis "Un lupo mannaro americano a Londra" rappresenti una sorta di pietra miliare per quando riguarda le storie di licantropia, sottogenere mai passato di moda - basti pensare ad un mainstream come "The Wolfman" con Benicio Del Toro, datato 2010 ma anche ad un BMovie come "Licantropia Evolution" diventato poi una trilogia- e che proprio questa settimana trova spazio sui nostri schermi con un film, "La metamorfosi del male", che fin dal titolo, allusivo ma generico, la dice lunga sulla sua volontà di mischiare le carte del genere in questione con soluzioni formali e stilistiche che pescano da più parti, non sempre necessariamente legate al cinema di riferimento. Un tentativo, quello del regista William Brent Bell, effettuato nell'ambito di una logica produttiva indipendente e low budget, e per questo più propensa a minare, un pò per gioco un pò per necessità, l'ortodossia del celebre filone.



Una destabilizzazione che inizia con la scelta della location in cui la storia si dipana, come quella di Landis europea, anche se in questo caso francese, e che poi continua con la struttura di un racconto che, dopo il prologo di sangue necessario a creare incipit e atmosfere, si trasforma -nella parte centrale- in un thriller legale, per assecondare i talenti di Kate Moore, avvocato americano incaricato di difendere dalla grinfie della giustizia Talan Gwynek, il presunto colpevole. Per non dire di un realismo ricercato a tutti i costi e realizzato mettendo insieme telecamera a mano, luci naturali e una certa rozzezza visiva derivata dalla volontà di trasformare la fiction in documento. Le citazioni si sprecano (da "Blair Witch Project" a "The Silence of the Lamb") cosi come le sottotrame, usate come espediente per creare la sensazione di un pantheon emotivo altrimenti ridotto al monologo tra la bella (Kate) e la bestia (Talan). A corto di effetti speciali, scarsamenti efficaci speciaimente per quanto riguarda la mutazione fisiognomica della creatura, "La metamorfosi del male" è debole proprio laddove non vorrebbe esserlo, e cioè in una naturalità che appare forzata tanto nell'assemblaggio del pot pourri citazionistico che in quello della progressione narrativa, costretta a subire  incongruenze come quella che costringe Francia e Stati Uniti ad un'alleanza - quella tra l'avvocato e la polizia- giustificata esclusivamente dal fatto che "La metamorfosi del male" è una produzione a stelle e strisce. Paura e tensione escono quasi subito dal film per lasciare il posto a routine e prevediblità.

PEREZ

Perez 
di Edoardo De Angelis
con Luca Zingaretti, Giampaolo Fabrizio, Marco D'amore, Simona Tabacco
Italia, 2014
genere, drammatico
durata, 94'

Prima di diventare un paladino della legge ed eroe del pubblico televisivo, Luca Zingaretti era stato invero una persona poco raccomandabile. Nel film che lo ha rilevato (Vite strozzate) diretto da Ricky Tognazzi, gli era toccato per l'appunto in sorte un ruolo tanto spiacevole quanto gratificante sotto il profilo delle possibilità interpretative. Sergio, il suo personaggio era nei fatti non solo poco raccomandabile dal punto di vista dell'incolumità fisica, trattandosi di un energumeno sempre pronto a tirar di mani, ma pure disprezzabile dal punto di vista morale, essendo uno strozzino violento e senza scrupoli.

Anche per questo "Perez", ultimo lungometraggio interpretato dal "commissario Montalbano" potrebbe rappresentare per la carriera dell'attore romano una sorta di di sintesi tra i due estremi comportamentali appena citati. Perez e' infatti un avvocato integerrimo costretto a venire a parti con il mondo del crimine per cercare di allontanare dalla figlia il rampollo di un boss della camorra di cui la ragazza si è innamorata.

Ambientato dalle parti di certo cinema civile per la voglia di denunciare il degrado morale e materiale delle istituzioni e di chi ne fa parte, "Perez" diventa quasi subito un noir a forti tinte, in cui a contare e' il confronto tra le diverse psicologie dei personaggi più che il dilemma morale che sta alla base della scelta del protagonista, invero risolto senza troppe titubanze.

 


Favorito da una messinscena intimista, che azzera riferimenti storici e geografici grazie all'apporto di una fotografia che avvolge gli ambienti di ombre e oscurità,  "Perez" e' una partita a scacchi di anime segnate da ineluttabile destino. Presentato fuori concorso all'ultima edizione del festival di Venezia, il film appartiene a quel tipo di cinema che ti aspetteresti di vedere in televisione al posto delle solite fiction, e che invece viene mandato allo sbaraglio nell'affollata distribuzione post festivaliera. Nulla di eccezionale ma comunque ben fatto e altrettanto recitato.

sabato, dicembre 06, 2014

ADIEU AU LANGAGE

di Jean-Luc Godard

con: H.Godet, R.Chevallier, K.Abdeli, C.Gregori, Z.Bruneau

FRA - 2014 - drammatico - 70 min

"Assez vu. La vision s'est rencontrée a tous les airs.
Assez eu. Rumeurs des villes, le soir, et au soleil, et toujours.
Assez connu. Les arrets de la vie. - O Rumeurs et Visions !
Départ dans l'affection et le bruit neufs !".

- A.Rimbaud, "Illuminations/Départ" -



Da sempre Godard perlustra territori preclusi ai più. "Adieu au langage" non fa eccezione. Anzi. Il più che ottantenne autore parigino insiste a rovistare alla sua maniera - ossia con curiosità, senza prendere scorciatoie, rifuggendo facili consolazioni - nelle viscere tanto aggrovigliate quanto esibite della modernità.

All'interno di un tessuto non-narrativo solo in apparenza casuale, si rincorrono giustapposizioni d'inquadrature, singoli fotogrammi, neri muti e/o sottotitolati, sovra/sotto esposizioni, ipotetici onirismi, inversioni, ripetizioni, divagazioni, grumi fieramente e caparbiamente insensati, superflui o, per contro, iper-stratificati, saccenti sul filo dello sberleffo, dello scherno dada (nel tritatutto finiscono, in ordine sparso, Melville, Artaud, Faulkner, Ellul, Conrad, Monet, London, De Stael, Sartre, Dickinson e molti altri), eppure entrambi figli della medesima "inquietudine dolorosa" e presaga circa l'impossibilità - data ormai per certa - di recuperare quel linguaggio che, heideggerianamente, parla all'uomo e non su di lui, disintegrandosi giorno dopo giorno, nel calcolare, nel catalogare, nel rievocare maldestramente o per scopi meschini, nel celiare posticcio delle chiacchiere, del calembourun tanto al chilo ("Le parole. Le parole. Non voglio più sentirne parlare"), al cui confronto i sogni di un cane - protagonista del film al pari della coppia che in modo via via sempre più sterile e arreso argomenta attorno al prosciugarsi del proprio amore - sembrano vitali e sorprendenti: lui, infatti, rimarca Godard, e' in grado di guardare-il-mondo, ossia di viverlo prendendone parte, mentre l'uomo, intrappolato nella coscienza di se', non può che interpretarlo, quindi fraintenderlo e, in definitiva, smarrirlo, decretando la sordida umiliazione di essere inutilmente senziente.


A riparo di una forma che non smette di forzare i propri limiti; diffidente nei confronti di consolidate strutture di pensiero e filosofie neglette o rimosse prima ancora di essere appieno comprese ("La bellezza e' lo splendore della verità"), come di altre, all'inverso, inveratesi nella Storia - cioè nelle carni dei singoli uomini - ben dentro l'inappellabilità di un osceno che non fa che cambiare sembianze per esigere sempre gli stessi dazi ("Hitler ha fatto tutto ciò che ha detto"), "Adieu au langage" non nasconde di essere nauseato dalla propria stessa nausea - di matrice sartriana - ; dal suo negativismo avvilito e derisorio, corroborato da cascami, da frammenti sparsi, da suggestioni incoerenti e dicotomie - Natura/Metafora; vivere o raccontare; il dissertare istituzionalizzato e agonizzante del maschile, e lo slancio incontrollabile, oltre la ragione, del femminile -: da una paccottiglia ricercatamente
intellettualistica - dalle curve di Dirac, alla congettura di Riemann con i suoi "infiniti zeri distesi sulla superficie dell'oceano"; dalla necessita' di trovare un accesso al fatto stesso di "non vedere" di Monet, al grado zero dell'egualitarismo rappresentato dall'evidenza assoluta di un pube femminile (in un'istantanea si adombra perfino Courbet) e dalla merda di reminiscenza rimbaudiana ("Merda alla realtà !", scagliava il poeta contro i privi d'immaginazione). Come pure dal suo porsi/esporsi - nell'ineludibile gioco al massacro dei fraintendimenti - al tempo, nella nudità feroce di liminale baluardo di resistenza al rumore e alla guerra senza fine (trambusti, echi di esplosioni, spari, guaiti, vagiti, alternano e spezzano fuori sincrono/fuori campo, le immagini) e nell'ennesimo singulto di "lagna d'autore", avviticchiata nell'autocommiserazione ed in una fraintesa incomprensibilità. E come - in fondo - dal suo birignao di opera radicale, da relegare ai margini del linguaggio contemporaneo il quale di essa, semplicemente, non-sa-che-farsene, in quanto inservibile secondo gli schemi dei suoi automatismi preferiti, sempre sovrabbondati, enfatici, allegramente sgrammaticati: lo spettacolo, l'intrattenimento, la comunicazione, quest'ultima adesso persino tattile- mostra e rimostra Godard - affidata com'è ai telefoni di ultima generazione.

Tutto, si noti, in questo nostro (?) pseudo/presunto presente, che quanto più si e' bramato e concorso ad edificare - fino alla disperazione, fino alle convulsioni, fino al pus - come eterno, tanto più si e' dimostrato irraggiungibile, finendo esso stesso per invocare - ed e' il più atroce paradosso - un rifiuto che più che i contorni di un anatema palesa le fattezze di un grido soffocato, l'ultimo forse, prima del nero assoluto: "Mi disgustate, voi tutti, con la vostra felicita'. Io sono qui per qualcos'altro. Io sono qui per dire no... e per morire. Io sono qui per dire no... e per morire".

TFK