martedì, dicembre 31, 2013

Indovina chi viene a Natale?

Indovina chi viene a Natale?
di Fausto Brizzi
con Diego Abantuono, Claudio Bisio, Claudia Gerini, Raoul Bova, Cristina Capotondi.
Italia, 2013
genere, commedia
durata, 94'

Attesa, discussa e quasi sempre disprezzata la versione natalizia del cinema italiano e' diventata nel corso del tempo un rituale che ha perso per strada qualsiasi valenza artistica e spettacolare, per diventare un fenomeno di costume indispensabile a tenere in piedi l'apparato produttivo. Alla stregua del festival di San Remo, ed in barba alla crisi dilagante, o forse proprio per quella, il pubblico gli rimane fedele come si farebbe con il barbiere o con il prete confessore, affrontando file interminabili ed accalcandosi nelle sale pur di partecipare all'annuale Rendez-vous. Tra vizi e lazzi nel pentolone c'è proprio di tutto, a cominciare dalla caricatura di un quotidiano che funziona come simulacro di luoghi e situazioni tipicamente italiche. Il marketing ci mette del suo lavorando ai fianchi lo spettatore con un processo d'identificazione che si nutre della familiarità di corpi e volti attoriali, utilizzati esclusivamente in funzione dell'immaginario che si portano dietro; ed insieme, elaborando una fabula che al suo interno sembra mimare ciò che avviene in sala, con individualità - degli attori e dei loro personaggi - destinate ad incontrarsi sullo schermo e dentro le storie. 

Come accade in "Indovina chi viene a Natale?" il nuovo film di Fausto Brizzi che parafrasando il titolo del celeberrimo e seminale film di Stanley Kramer (Indovina chi viene a cena?,1967) ed approfittando delle tradizione natalizia si diverte ad organizzare una rimpatriata famigliare che diventa una scusa per la convivenza forzata di caratteri di segno opposto. A farne le spese è la serenità di Diego, imprenditore illuminato e di successo messo alla prova dalle scelte della figlia Valentina innamoratasi di Francesco, a cui un incidente motociclistico ha reciso entrambi gli arti. Novità che si somma a quella di Chiara, decisa a tentare l'ennesima relazione con un compagno maldestro che ne combina di tutti i colori mettendo alla prova la pazienza del padrone di casa, e di Antonio, il fratellastro impegnato a realizzare una fiction sul padre, musicista di fama appena scomparso, per il quale è necessario ottenere l'autorizzazione scritta degli altri fratelli. 
 
Una sarabanda di equivoci, contrattempi ed anche ipocrisie destinate ad una catarsi che ovviamente farà scoprire a ciascuno l'importanza ed il valore degli altri partecipanti. Frustrato dal flop delle sue opere più ambiziose ("Com'è bello far l'amore", 2012 e "Pazze di me",2013) Fausto Brizzi torna all'antico con un film che pur sotto mentite spoglie ricalca il format di quel cinepanettone che in parte aveva contribuito a consolidare con un buon numero di sceneggiature da lui siglate. Abituato ad atmosfere boccaccesche ed ad una comicità che in parte era frutto di una trivialità piuttosto smaccata, Brizzi sembra quasi trovarsi in difficoltà di fronte alla sobrietà imposta dalle leggi di mercato e dal buonismo stimolato dallo spirito dei tempi. In questo modo avendo a disposizione alcuni dei pezzi più pregiati della nostra commedia, parliamo di gente come Diego Abantantuono e Claudio Bisio, abituata a ruoli da mattatore, ma anche di comprimarie di lusso che rispondono al nome di Claudia Gerini e Cristina Capotondi, entrambe habituè del regista romano, Brizzi sembra girare con il freno a mano, regalando a ciascuno degli interpreti una drammaturgia troppo soft per innestare le qualità dei suoi cavalli di razza. Adottando il solito metodo del bastone e della carota, con i personaggi sottoposti ad un trattamento che dapprima li consegna alla mercè di difetti ed idiosincrasie di vario genere e natura, e successivamente li restitutisce ad una normalità che smussa qualsiasi spigolatura, "Indovina chi viene a Natale?" non riesce a superare l'estemporaneità di qualche assolo ad effetto - quello di Abantuono che rispolvera il suo slang da terroncello per fare ingelosire Francesco con una telefonata in cui si spaccia per un ex amante della figlia - oppure facendo leva sul romanticismo fisiognomico di una Capotondi alla qual nemmeno la perfidia del regista che ad un certo punto la dipinge con un passato da sgualdrina riesce a scalfire, così come quello di Raoul Bova, reso ancora più docile dalla pantomima tragicomica che lo riguarda.

Rivelando fin da subito la qualità del suo infingimento nella sequenza d'apertura nella quale il maestro Claudio Bisio imita con acconciatura e modi di fare palesemente posticci il personaggio di capitano Uncino nella recita scolastica, "indovina chi viene a Natale?" risulta più perspicace quando riflette sui meccanismi della messinscena: dapprima dichiarandone la sacralità del fine mediante l'allestimento del presepe vivente a cui Antonio prende parte, permettendo alla storia di incarnare almeno per un attimo il miracolo della notte di Natale. E poi a ridimensionare la nobiltà di quel gesto ma non l'efficacia, l'affermazione dello stesso Antonio che rispondendo alle perplessità del fratello a proposito delle inesattezze della cinebiografia che amplifica i pregi del famoso genitore nascondendone le mancanze, afferma l'assoluta necessità di alterare l'esistenza con elementi di finzione che la rendano degna di essere vissuta. Una sentenza che sembra voler giustificare gli eccessi d'inverosimile che Brizzi mette in campo nel corso del film, e che purtroppo sono lo specchio dell'inconsistenza del cinema italiano attualmente sugli schermi
(pubblicata su ondacinema.it)

domenica, dicembre 29, 2013

Pre-visioni: Twelve Year a Slave

di Steve McQueen
con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Brad Pitt 
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 134'


Difficile resistergli. "Twelve Years a Slave" rilancia l'immagine di un regista provocante e scandaloso. Nell'epoca del presidente Obama e della riconciliazione sociale scaturita dopo l'11 settembre, il film di Steve McQueen riporta in primo piano il problema dell'integrazione che in America è lungi dall'essere risolto. Per far passare il messaggio attori da copertina e polemiche giostrate ad arte sono bastate a far lievitare i pronostici che danno il film come uno dei grandi favoriti alla prossima edizione degli Oscar. Nella stanza dei bottoni Brad Pitt, nume tutelare dell'intera operazione, prodotta ed anche intepretata insieme ad un cast d'attori di assoluto rilievo. Dopo "Via col vento" tocca a "Twelve Years a Slave" dimostrare che i tempi sono finalmente cambiati. Sicuramente uno degli eventi cinematografici della prossima stagione.

sabato, dicembre 28, 2013

Violenza danzante: l'immaginario filmico di Nicolas Winding Refn


Refn, regista danese scuola 1970, è sicuramente uno degli artisti più interessanti nel panorama cinematografico internazionale. 
Dopo aver  abbandonato l’accademia d’arte drammatica di New York, torna in Danimarca dove un produttore nel 1996 decide di trasformare un suo cortometraggio nel film d’esordio: Pusher. Un’opera prima che oltre ad essere destinata a diventare un cult del cinema underground, getta le basi  che caratterizzeranno il luminoso futuro di Refn, con una sempre  raffinata  ed azzeccata scelta musicale, ed una regia cruda ed innovativa, sorprendente frutto della mancata formazione tecnica. 


Ma il futuro del talentuoso regista danese deve attendere prima di diventare luminoso. Infatti se con il successivo Bleeder   (1999) si intravede un progresso di maturità stilistica, con Fear X (2003), fa qualche passo indietro, ed oltre a relegarsi come autore di nicchia il disastro al botteghino lo costringe a girare, per rimettersi in piedi economicamente, Pusher 2 (2004) e Pusher 3 (2005), sequel del fortunato esordio, anche se non interessanti come il primo.


Nel 2008 torna sugli schermi con Bronson, film biografico sulla vita di uno dei più pericolosi criminali d’Inghilterra. Ed è proprio da qui che l’ideale estetico di Refn prende forma viva e consapevole, dalla fotografia alla direzione degli attori, dalla messa in scena alla geometria delle inquadrature. L’anno successivo è la volta di Valhalla  Rising, criptica rappresentazione ambientata in una comunità di vichinghi, che si incentra definitivamente su un tema che diverrà colonna portante dei successivi lavori di Refn: la violenza, pura ed istintiva, esulando dal processo di spettacolarizzazione Tarantiniano, altro cineasta al quale la tematica è cara ma diversamente intesa.
E proprio su questa scia arriva la consacrazione internazionale con Drive (2011), capolavoro interpretato da un Ryan Gosling in stato di grazia, osannato dalla critica e vincitore della palma d’oro al festival di Cannes. L’opera si presenta lineare, raffinata ed elegante, dove la drasticità del difficile mondo criminale viene opposta ad una storia d’amore sfuggevole ed anticonvenzionale, riassunta egregiamente nella sequenza dell’ascensore (il bacio a rallenty seguito immediatamente da un’uccisione improvvisa  a velocità normale). 


Refn ci sorprende ancora nel 2013 (questa volta spaccando critica e pubblico in due) confermandosi e superandosi con la maestosa opera Only God Forgives, dove, ancora con Gosling protagonista, fonde substrati narrativi  e tematici avvolti con una fotografia all’insegna di un rosso (a detta del regista l’unico colore che riesce a distinguere) che difficilmente lascia indifferenti. 

Affermazione del regista: “Vedere Drive ed Only God forgives di seguito è come farsi di cocaina e poi provare un acido”
L’universo creato da Nicolas Winding Refn, specialmente con gli ultimi due lavori, immerge lo spettatore in un’infinita consecuzione di scelte che lasciano sempre storditi, sa stupire sempre sia nei film che nelle scelte di percorso ( a quanto dichiarato ultimamente vorrebbe dedicarsi alla commedia).  Riducendo all’osso gli elementi del linguaggio cinematografico, quali sceneggiatura e montaggio, ci si immerge in una visione che si districa tra il brutale capitale umano e l’onirico, tutto il suo immaginario filmico diviene moderna trasposizione della tragedia greca, il maestoso trasla  nell'Ignoto, Le spleen baudelairiano impresso su pellicola, il neo-romanticimo sfiora le labbra del nichilismo.

di Antonio Romagnoli

venerdì, dicembre 27, 2013

"LOST": un viaggio sentimentale


"What is love ? Where is happiness ? What is life ? Where is peace ?
When will I find the strenght to bring me release ?"
- J.Buckley, "Eternal life" -

"Any where out of the world !".
L'estenutato grido dell'animo baudelairiano riecheggia di continuo nel flusso - sistematicamente in bilico su un presente imperscrutabile ed ipotetico quanto sulla giostra sospesa tra un passato ed un futuro, al contrario, sempre possibili/probabili - delle immagini sognanti o premonitrici, romantiche o inconsolabili, avventurose o tragiche, di una delle serie Tv più seguite e amate degli ultimi anni, ovverosia "Lost". Sei stagioni (la quarta, tra la fine del 2007 e l'inizio del 2008, funestata dallo sciopero degli sceneggiatori americani che permise di ultimare solo otto episodi ai quali, in un secondo tempo e salvando comunque la continuità, ne vennero aggiunti altri cinque); altrettanti anni di programmazione (dal 2004 al 2010); centoquattordici puntate della durata di una quarantina di minuti ciascuno; ambientazione esotica (le Hawaii); costi enormi; un seguito che a distanza di tempo continua a produrre discussioni e siti specializzati, "Lost" e' l'ennesima creatura scaturita da quel crogiolo d'intuizioni che e' il talento mercantile di J.J.Abrams (al suo attivo anche la saga dell'eroina Sydney Bristow di "Alias"; quella avvinta attorno alla rappresentazione degli universi paralleli di "Fringe", nonché diverse altre "idee di partenza" ricompensate con alterne fortune). Sin da subito, pero', ciò di cui stiamo parlando si differenzia dalla media delle produzioni similari per l'essere qualcosa d'altro e di diverso dalla narrazione delle traversie affrontate su una generica isola sperduta in mezzo al Pacifico da un gruppo di superstiti di un disastro aereo - il volo "Oceanic 815"; sigla che torna spesso e volentieri nell'opera, alla stregua di molti altri involucri simbolici di matrice cabalistica, cripto-linguistica, crittografica, capaci di generare in giro per il mondo una massa enorme di congetture, dietrologie, attese per rivelazioni di misteri eternamente latenti, e almeno altrettante cantonate: e' sufficiente, per tutti, ricordare la serie numerica 4, 8, 15, 16, 23, 42, che spunta qui e la' tra le pieghe degli eventi, fantomatica base di un'equazione altrettanto fantomatica, lascito di un ancor più fantomatico matematico italiano, Enzo Valenzetti e senza contare le implicazioni più ovvie e genericamente "culturali" di tanti patronimici utilizzati: Locke, Rousseau, Faraday, Hume, Burke, Austen... - "Lost" e', cioè, e prima di tutto, un contenitore, in cui far confluire l'intero spettro dell'esperienza umana - la vita, la morte, la nascita, la resurrezione persino, l'orrore, l'abnegazione, l'amicizia, il tradimento, la solitudine, l'amore - e poi (forse) la piattaforma d'accesso verso un (altro) inizio. In virtù dei suoi recessi labirintici, infatti, e, potenzialmente, senza fine; a mezzo di aperture che conducono a rifugi, magazzini, silos, laboratori, collegati fra loro dalla misteriosa necessita' del "progetto DHARMA" (utopia realizzata dell'"uomo nuovo" ? Aspirazione ad una società ideale ? Uno dei più sofisticati esempi di ammaestramento e manipolazione ?), l'isola che da questo momento sarà, più correttamente, "l'Isola", e' un universo a se' stante, letteralmente in grado di spostarsi avanti e indietro nel tempo, dall'apparente calma assicurata da una Natura primordiale, rigogliosa e trionfante, eppure sempre attraversato da forze appartenenti ad una sorta di Caos remoto e capriccioso che senza posa sollecita quello latente/rimosso/represso all'interno di ogni singolo personaggio.

"A me sembra che starei sempre bene la' dove non sono", annotava ancora Baudelaire. E della stessa irrequietezza si nutrono i personaggi immaginati da Abrams, spinti, sul filo teso ma la cui consistenza e' tutta da dimostrare, tra un dove/stato mentale lussureggiate e insidioso - l'Isola - e il tornare-a-casa - quella di sempre, quella del desiderio, "purché sia fuori da questo mondo" -. Del resto, se pare sia sempre e solo un'altra vita che vogliamo e persino Jacob, il "custode" degli enigmi e il "fumo nero" non aspirano che ad andarsene, allora l'erranza del gruppo di sopravvissuti del volo 815 oltre che ininterrotta diventa spia in sedicesimo di un disagio più vasto e profondo il quale, distribuito su un'altra scala (quella dell'intero Occidente) evidenzia una dicotomia che nella lunga transizione che stiamo attraversando, nel crepuscolo minaccioso di un "progresso" più subito che indirizzato, non lascia indifferenti, perché contribuisce a marcare il discrimine che separa quello che siamo stati da quello che - chissà - saremo. Una dicotomia riconducibile, ad esempio, al senso comune di celebri espressioni (usate qui come mero pretesto, lo stesso assai evocative): da un lato, il "fa di te stesso un'isola" (D'Annunzio), come affermazione inequivocabile dell'individuo, del suo primato; dall'altro, inversa polarità, il "nessun uomo e' un'isola" (Donne), a ribadire, invece, e a ridefinire in prospettiva il progetto di "comunità" come pietra angolare di qualunque forma di armonia, che l'Occidente proprio su un'isola - l'Isola - tenta di comporre come estremo tentativo di debellare la "nausea" (o lo "spleen" di Baudelaire, il risultato non cambia), ovvero il non poterne più, a conti fatti, proprio di se stesso. Dell'aver declinato, per dire, il concetto di "equilibrio" come sommatoria di oggetti - e persone - da controllare/possedere (il dispotico magnate Widmore). Di essersi di conseguenza inchinato e mai rialzato al cospetto di Sua Maestà il Denaro e del suo onnipotente Gran Consigliere/Tuttofare, la Tecnica. Della venerazione per il lavoro purchessia: oltre l'alienazione, l'incolumità fisica e psicologica, lo spauracchio per niente aleatorio della schiavitù, l'oscena eterogenesi dei fini tra produzione e consumo (i mestieri senza storia di Locke e dell'Hurley pre-lotteria, e con un orecchio alle considerazioni di un uomo come Adam Smith, tirato sovente per la giacchetta da un liberismo mai tanto vanitoso nel proclamarsi allergico ad ogni limite: "L'uomo che passa la vita a compiere un numero limitato di operazioni semplici, non ha modo di esercitare la propria intelligenza e le sue facoltà inventive. Egli si abitua a questo esercizio e generalmente incretinisce" - A.Smith, "La ricchezza delle Nazioni", 1776 -). E delle agonie privilegiate, delle comode inerzie e delle sfavillanti scipitezze (le anodine routine borghesi di Jack, Sun e dei fratellastri Boone e Shannon). Delle bassezze e delle ipocrisie spacciate per cul-de-sac esistenziali. Come, alla fin fine, dei tanti, troppi sentimenti inconfessabili e dell'incapacità quasi pacifica, oramai, a provarne di sinceri. Ed e' proprio attorno a queste "voragini", a questi incontrollabili campi elettromagnetici della vita, a questi "fumi neri", che si aprono, cortocircuitano, si addensano, vortica l'uomo "moderno", volta per volta rivelato dall'incrollabile dirittura morale venata di sensi di colpa e di ubbie circa la propria inedeguatezza di Jack. Dalla dolcezza guardinga e dall'indipendenza fragile di Kate. Dalla sfacciataggine ribalda ma "difensiva" di Sawyer. Dalla logica inesorabile ma imperfetta di Locke. E ancora, dalla sublime perfidia alimentata da un dolore mai rimarginato di Benjamin Linus. Dalla determinazione disincantata di Sayid. Dalla febbrile irruenza e dalla fedeltà ad un patto del "viaggiatore del tempo" Desmond. Dal sarcasmo malinconico e onnicomprensivo ("Ehi, 'coso'") di Hugo detto "Hurley". Dalla dedizione reciproca più forte di ogni contraddizione di Sun e Jin. Dalla desolazione inerme in cerca di affettuoso riparo ma capace di sacrificio del rockettaro Charlie e così via...

Su questa linea si può provare, cosi, ad inquadrare anche il caleidoscopio spiazzante dei vari "flashbacks" e "flashforwards" (ciò che e' stato e ciò che avrebbe potuto essere; mettere le mani sul passato per guarire il presente e ricominciare a confidare nel domani), nonché l'incedere elegiaco e misticheggiante del finale, consequenziale e furbastro, magari pure prevedibile e deludente (questo accade spesso), o indifferente (nel senso che si ha la netta sensazione che la faccenda sia tutt'altro che "finita": e questo accade già più di rado): persino eventuale, se vogliamo, (tutto il "mondo" di "Lost" e' racchiuso in due battiti di ciglia del suo leader Jack Shepha/(e)/rd/pastore, detrattore e poi martire che sopra ogni altra cosa non si rassegna al buio, all'impossibilita di "vedere", come vuole una Modernità per cui tutto deve essere manifesto, a portata di mano, facile da usare, cioè, in sostanza, passibile di superamento delle sue ambiguità). In ogni caso, latore di un'inquietudine e di una insofferenza che scomodano certezze tali solo in superficie e che nei fatti continuano a ribattere su rimpianti inconsolabili, slanci inappagati, occasioni più o meno stupidamente mancate, ansie e timori tutt'altro che superati (sul serio tutto da vedere se e quanto sia balzano il sospetto per cui l'uomo "costretto" ad essere "moderno" cominci piuttosto ad averne abbastanza della prospettiva sempre alle porte di un futuro sic et simpliciter artificiale, tecnologico, "prevedibile", in ogni suo aspetto pacificato). Come a dire che, tutto sommato, e' sempre lo stesso il punto all'infinito al quale istintivamente - come esseri umani - si tende, ossia quello giunti di fronte al quale ritrovarsi insieme, davvero, pronti, unicamente, semplicemente, ad amarsi.

TFK

mercoledì, dicembre 25, 2013

Film in sala da Giovedì 26 Dicembre 2013


PIOVONO POLPETTE 2 - La rivincita degli avanzi
Cloudy with a chance of meatballs 2
di Cody Cameron e Kris Pearn
2013 USA - Animazione

lunedì, dicembre 23, 2013

Colpi di fortuna

Colpi di fortuna
di Neri Parenti
con Christian De Sica, Francesco Mandelli, Lillo e Greg, Paolo e Luca
Italia, 2013
genere, commedia
durata, 90'

Per il 30 anniversario del cinepanettone Aurelio De Laurentis non si smentisce riproponendo sulla scia dello scorso anno una versione light del celebre format, appena variata nella struttura dall'aggiunta di un terzo episodio-in questo caso il primo in ordine cronologico-che si somma ai due già presenti nella versione gemella dello scorso anno.  Al centro della questione c'è il tema della fortuna, declinata in alcune delle sue situazioni più tipiche, contrapposta al sostrato di credenze e di circostanze che la vulgata solitamente gli contrappone. Abbiamo così la vincita alla lotteria di Luca e Paolo abbinata alla perdita del biglietto milionario che ne assicura la riscossione, l'affare del secolo di uno scaramantico Christian De Sica messo a rischio dallo iettatore Francesco Mandelli, ed infine il lascito di  una ricca eredità che Greg può ottenere dopo aver adottato Lillo, fratello misconosciuto e border line. Trame pretesto che a Neri Parenti bastano ed avanzano per allestire una serie di sketch fatti apposta per esaltare gli assoli della star di turno. Cosi seppure a scarto ridotto per l'austerity del minutaggio, a farla da padrone e' la comicità eccessiva e di maniera del mattatore De Sica, a stento trattenuta da una sceneggiatura che esalta la sua mimica facciale ma ne stempera il lato più scurrile. A fargli da spalla il trasformista e camaleontico Francesco Mandelli stravolto fisiognomicamente dalla maschera grottesca del suo personaggio, a cui si uniscono nei rispettivi segmenti le coppie televisive rappresentate dalle new entry di Paolo e Luca, piuttosto a disagio nell'episodio meno divertente del film, e Greg e Lillo, (già presenti in "Colpi di fulmine"), surreali e rarefatti nell'inserto più riuscito e fantasioso, chiuso nel finale dalla carambata di una rediviva Raffaella Carra'. 

Uguale a se stesso a discapito delle molte imitazioni, "Colpi di fortuna" conferma pregi e difetti di un operazione che trae forza dalla propria riconoscibilità, e che per questo fa di tutto per mantenersi inalterata.  Il risultato e' quasi paradossale, perché se i concorrenti tentano di camuffare una proposta che di fatto tradisce la matrice del filone originale, De Laurentis e soci si irrigidiscono sul canovaccio di un divertimento old school, che esaspera la diversità dei caratteri, la contrapposizione tra il protagonisti e le rispettive "spalle", le posture corporali strambe. Lo spettacolo appare usurato ma riesce ancora a strappare qualche risata.

Unico erede del b-movie italiano, "Colpi di fortuna" lo ripropone soprattutto dal punto di vista produttivo, improntato ad un'artigianalita' che si fa vanto di ricercare plausibilità attraverso location organizzate nel giardino di casa, oppure quando sfrutta gli agganci con l'attualita' calcistica, favorendo il connubio tra il passione pedatoria e quella cinematografica nell'episodio che apre il film, in cui ad essere coinvolto è addirittura il Napoli calcio, tirato in ballo quel poco che basta per stimolare la fantasia ed il campanilismo legato a quello sport. Nulla è da prendere sul serio tranne il responso del botteghino. Il seguito dipenderà esclusivamente da quello.

domenica, dicembre 22, 2013

New Hollywood (10) APOCALYPSE NOW (5)


"Apocalypse now" V

di: F.F.Coppola.

- "C'mon baby, take a chance with us/C'mon baby, take a chance with us/C'mon baby, take a chance with us/And meet me at the back of the blue bus/Doin' a blue rock/On a blue bus/Doin' a blue rock/C'mon, yeah.../.../.../It hurts to set you free/But you'll never follow me/The end of laughter and soft lies/The end of nights we tried to die" -



Quando si fa di tutto per giungere al cospetto di un (semi)dio, non di rado capita di aver appena il tempo di morire. In special modo se si e' indugiato troppo forzando il contesto a cui quel (semi)dio si e' votato ad un'innaturale piega semi-caricaturale e iperrealista, aberrazione di un Uomo (e di una Cultura) i cui conflitti hanno smarrito gran parte dei loro riferimenti e aderenza alle cose. Conrad: "Ogni nuovo tratto di fiume si apriva innanzi a noi, e si chiudeva alle nostre spalle, come se la foresta avesse tranquillamente attraversato le acque dall'una all'altra sponda per sbarrarci la via del ritorno. Penetravamo sempre più profondamente dentro al cuore della tenebra. Una gran quiete vi regnava... Eravamo un pugno d'uomini erranti sopra una terra preistorica, una terra che aveva l'aspetto di un pianeta sconosciuto... ... E si strisciava innanzi, verso Kurtz". In questo ambito si collocano le morti del giovane "Clean" e di "Chief", il timoniere, il comandante di quella "barca del cazzo" da non abbandonare mai, "respinti" non solo fisicamente dalla avanguardie invisibile e misteriose di Kurtz ("Il Vietnam era una stanza buia piena di oggetti letali, i vietcong erano ovunque contemporaneamente come un cancro ramificato, e invece di perdere la guerra pezzettino per pezzettino nel corso degli anni, noi la perdemmo velocemente in meno di una settimana" - M.Herr, op. cit. -) e della "wilderness" nel suo complesso, in una contrapposizione sempre più "ancestrale", trascinata alle origini del "peccato" (la PBR e' sommersa da una raffica di proiettili e razzi - prima - che inchiodano il ragazzo "Clean", e fatta oggetto di una pioggia fitta di bastoncini di legno, frecce e corte lance - poi - una delle quali stronca "Chief, all'insieme delle quali risponde senza alcun risultato per mezzo della Tecnica - impotente - delle mitragliatrici e dei fucili automatici) ma simbolicamente (una forza senza volto, silenziosa e spietata che chiama a se', rendendolo inoffensivo, l'elemento estraneo/profanatore, proprio come in Conrad: "Ma in quel mentre mi tocco' dar occhio in gran fretta al fiume, poiché c'era uno di quei tronchi sporgenti proprio sulla mia rotta. Vedevo certe bacchette esili volare attorno, fitte: mi sibilavano via dinanzi al naso, cadevano giù sul ponte, battevano dietro a me contro la cabina. E tuttavia il fiume, la riva, i boschi, erano affatto tranquilli: perfettamente tranquilli. Non mi riusciva di udire altro che il tonfo sordo diguazzante della ruota a poppa, e il picchiettio di quelle asticciuole. Evitammo malamente quel tronco... Eran frecce, perdio ! Ci stavano tirando addosso"). E dire che c'era stato modo di "giocare" ancora. Innescando un fumogeno di un rosso pulviscolare, Lance esclama: "Ehi ! Si viaggia fino in paradiso, con questa !" (in originale, la battuta può suonare bizzarra ma, ad un orecchio americano, risulta assai evocativa: "Purple haze ! Look !". Per l'esattezza, la "foschia rossastra" di eredita' hendrixiana, così come il nomignolo attribuito ad un tipo di LSD ai tempi in uso - acido, come visto, in generale, più volte assunto dal surfista-marine ma che lo stesso attore Bottoms, come altri componenti del cast e della troupe, ammise di aver "sperimentato" insieme ad altri tipi di stupefacenti - :"Purple haze was in my eyes/Don't know of it's day or night/You've got me blowing, blowin' my mind/Is it tomorrow or just the end of time ?" - J.Hendrix, "Purple haze" -).



A fianco, nel mentre, "Chef" sbriga la posta e guardando un ritaglio di giornale inviatogli riguardante la "strage di Bel Air" ad opera della banda Manson, apre una pausa meditativa e ci consegna un dettaglio utile a datare con una certa precisione l'arco temporale entro cui va collocata la vicenda del film: più o meno, estate-autunno 1969 ("Chef": "Charles Manson ha ordinato il massacro di tutti quelli che erano in casa, come simbolo di protesta. Una cosa pazzesca !"). Nemmeno il tempo di sbalordire che in scena resta solo la voce cantilenata della madre di "Clean": un ininterrotto colare di parole dal registratore in cui il figlio, morto in un niente, aveva inserito il nastro appena ricevuto, che diffonde una calma placida e irreale alla quale si può accordare (Coppola esalta il contrasto tra il marasma che dilaga sull'imbarcazione e la flemma delle frasi registrate, sempre tenute in primo piano, a sottolineare il dilagare di una ferocia grottesca e impudente; di una casualità assurda quanto miserabile, triste ma non innocente) solo il corso imperturbabile del fiume e l'impassibilità della giungla subitaneamente ricompostasi dopo la fulminea e letale esplosione di attività. Guardandosi intorno, Willard percepisce di essere pressoché giunto alla "fine del fiume": "Kurtz era vicino. Era molto vicino. Non potevo ancora vederlo ma lo sentivo. Come se la barca venisse risucchiata su per il fiume e l'acqua si riversasse nella giungla. Qualunque cosa fosse successa, non sarebbe successa come l'avevano prevista a Nah Trang"/("He was close. He was real close. I could not see him yet but I could feel him. As of this boat was being sucked up river and the water was flowing back to the jungle. Whatever was going to happen, it was not going to be the way they called it in Nah Trang"). Per tale motivo, non c'è più ragione di mentire o di appellarsi a chissà quale livello di segretezza. Sepolti i morti (Lance offre dolcemente le spoglie di "Chief" al fiume: "In me vedi il crepuscolo di un giorno/Che a occidente svanisce frettoloso,/Presto inghiottito dalla nera notte, sorella/Della morte, che tutto sigilla nel riposo" - W.Shakespeare, "Sonetti" -), circondati da una Natura oramai tornata padrona dei destini delle vite che si agitano al suo interno ("Lascia perdere i vietcong, gli 'alberi' ti avrebbero ucciso, l'erba elefantina cresceva micidiale, la terra che calpestavi possedeva un'intelligenza maligna, tutto l'ambiente che ti circondava ne era impregnato" - M.Herr, op. cit. -), al limite tra luce - un tramonto arancio nebuloso e remoto - e ombra - la notte e il buio al cui addensarsi sembra concorrere la giungla stessa (Conrad: "Il fiume in quel tratto correva angusto, diritto, entro certe pareti ripide come una trincea di ferrovia.

L'oscurità vi s'insinuava parecchio tempo innanzi al calar del sole. La corrente filava via uguale e rapida, ma un'immobilità taciturna pesava sulle sponde. C'era da credere che tutti quegli alberi, vivi, avvinti gli uni agli altri da una folla di rampicanti, ogni cespuglio di tutta quella viva boscaglia, si fossero mutati in pietra, sino al più sottile ramoscello, alla foglia più lieve. Non era un sonno; era un che di innaturale, come uno stato catalettico. Non si udiva nulla, non il più fievole rumore"), cadono le reticenze, il rispetto delle gerarchie, i residui delle "sovrastrutture" che tengono in carreggiata il comportamento dell'uomo occidentale (l'"etica del lavoro", per il Marlow conradiano; il "senso del dovere" per Willard e i suoi soldati). "Chef": "Questo e' fottutamente tipico. Merda ! Una missione da Vietnam del cazzo. E' quasi scaduto il mio periodo qui, e la porto [rivolto a Willard] a far fuori uno dei nostri. Questa le batte tutte ! Proprio fantastica, porca puttana ! Merda ! E' una pazzia del cazzo ! Si, insomma... Io credevo che lei andasse a far saltare un ponte o qualche ferrovia del cazzo... ... Okay ... Ma c'andremo insieme, sulla barca. Andremo con lei, andremo lassù. Ma sulla barca. Okay ?". "Qualcosa doveva andare male su quel fiume" (Conrad) e se il punto non e' più vivere o morire, il rischio vero diventa quello di scoprirlo e portarselo dentro per sempre.



Alla fine del fiume, nell'afa e nell'umidità sempre più opprimenti ("O sonnecchiare e svegliarsi sotto la zanzariera in un bagno di sudore viscido, con la bocca spalancata alla ricerca di aria che non fosse al novanta per cento umidità, solo un bel respiro per lavare a secco l'ansia e la puzza d'acqua stagnante del tuo corpo" - M.Herr, op. cit. -), c'è il villaggio/santuario/rifugio di Kurtz. Coppola inquadra il panorama che si va aprendo allo sguardo dalla prospettiva della PBR che avanza a motore spento, privilegiando l'angolatura alto/basso - l'occhio di Willard scruta dall'asta della luce di posizione dell'imbarcazione - che abbraccia un nugolo di canoe stipate di figure umane ritte, silenziose e ricoperte di una specie di biacca crostosa sui visi e parte dei corpi (Conrad: "Quella terra non aveva più nulla di terrestre. Noi siamo avvezzi a contemplare le forme ormai dome di un mostro soggiogato, ma laggiù, laggiù, ci si trova in presenza di qualcosa di mostruoso, e di libero. La terra non aveva nulla di terrestre, e gli uomini... no, non erano inumani. Ebbene, vi assicuro che era questo il peggio: questo sospetto che lentamente si faceva strada, che essi non fossero inumani"; "Credevi di udire cose impossibili: il respiro delle radici umide, il trasudare dei frutti, il fervido andirivieni degli insetti, il battito del cuore di minuscoli animaletti" - M.Herr, op. cit. -)... La "dimora" di Kurtz, progettata e interamente costruita da Tavoularis con l'apporto di manodopera locale stipendiata a pochi dollari al giorno (la struttura, le pareti, nonché gl'idoli khmer, constavano di centinaia di blocchi di adobe - mattoni in argilla o fango mescolato a paglia - del peso di circa trecento libbre ciascuno), s'ispira vagamente alla celeberrima città Khmer di Angkor Wat nella Cambogia sud-occidentale, la cui edificazione si fa risalire al XII secolo ma la cui conoscenza - almeno per gli occidentali - e' da posticiparsi di almeno settecento anni, in relazione a studi archeologici ed etnografici mirati svolti intorno alla meta' dell'Ottocento. Durante le riprese il set più-vero-del-vero viene seriamente lesionato dallo stesso tifone che si porta via parte degli elicotteri di Kilgore. Al termine del film (prima dei titoli di coda), viene fatto saltare in aria, come ebbe a dire Coppola, "in modo che la cosa risultasse allegra !".
E proprio dalle sue "allegre" scalinate, costellate da teste infitte su pali o murate direttamente nei gradoni, di cadaveri crocifissi a cielo aperto o di corpi scorticati abbandonati dove capita (Willard: "Tutto ciò che vedevo mi diceva che Kurtz era impazzito... Quel posto era pieno di cadaveri... Nordvietnamiti, vietcong, cambogiani..."; "Chef": "Questo colonnello qui e' proprio picchiato. E' peggio che pazzo: e' diabolico. Insomma, guardi [rivolto a Willard] cosa ha messo su qui. Questa e' idolatria pagana del cazzo ! Si guardi intorno, merda ! E' matto da legare... ... Un tempo pensavo che se morivo in un luogo peccaminoso, la mia anima in paradiso non ci sarebbe arrivata. Ma adesso... Merda... Non m'importa dove cazzo va, purché non sia qui") che si agita e strepita Dennis Hopper nei panni del "fotoreporter" senza nome, cicerone, giullare e servo di Kurtz. In origine modellato sulla figura di un ex agente della CIA passato nelle fila del colonnello "folle", il carattere viene via via ritagliato con sempre maggiore aderenza su quello del personaggio del "russo" nel testo di Conrad: "Il sole gli dava un aspetto estremamente gaio... Una faccia imberbe, fanciullesca, molto carina, quasi senza lineamenti, un naso spellato dal sole, un paio d'occhietti azzurri, e sorrisi e aggrottamenti che si rincorrevano di continuo su quel viso aperto, come il sole e l'ombra su una piana spazzata dal vento... Aveva vagabondato qua e la' su quel fiume per più di due anni, solo, straniato da tutto e da tutti... Non ci si sapeva figurare in qual modo avesse vissuto, come fosse riuscito a spingersi tanto lungi, come ci avesse potuto rimanere: e come mai non svanisse nell'aria da un momento all'altro... Eppure egli era li', bravamente, spensieratamente vivo... Un'aura di magia lo spingeva innanzi, e lo serbava incolume... Pareva avesse distrutto ogni preoccupazione personale". Con questo condivide, oltreché la mimica esagitata e l'incontenibile loquela, una certa somiglianza del frasario e delle argomentazioni. Parimenti si scorge una qual affinità con la figura nondimeno "avventurosa" e "romantica" di Sean Flynn, autentico fotoreporter, figlio del leggendario Errol, scomparso in Cambogia nel 1970 in circostanze mai del tutto chiarite: "Sean Flynn poteva essere bello in un modo incredibile, persino più di quanto lo fosse suo padre Errol trent'anni prima nella parte di Capitan Blood, ma talvolta somigliava più ad Artaud reduce da qualche allucinante viaggio alla 'Cuore di tenebra', sovraccarico d'informazioni, di input ! L'input ! Emanava un odoraccio di sudore e se ne stava seduto per ore, pettinandosi i baffi con la lama seghettata del suo coltello dell'esercito svizzero" - M.Herr, op. cit. - Senza soluzione di continuità, le suggestioni legate al ruolo si saldano alla perfezione - in Hopper - con quelle prodotte dallo stesso uomo-attore: il risultato e' un felice connubio tra testimonianza estrema della stagione creativa di un'intera generazione e sbando schizofrenico - spesso violento e autolesionistico - degli ideali che quella stessa generazione aveva agitato; ideali smarriti, traditi, mistificati, sconfitti, infine, dal volgere dei tempi; dal ricomporsi delle consuetudini del potere e dell'inerzia; dal disorientamento conseguente all'impatto traumatico con l'ordinario, con il quotidiano e il vissuto individuale, di certe premesse, troppo ingenue o troppo evanescenti; dall'impossibilità di perpetuare e consolidare una sorta di "stato di grazia" (giovinezza + desiderio di libertà + voglia di esprimersi e cambiare + momento favorevole della Storia) oltre i limiti delle sue effettive possibilità di realizzazione. Ed Hopper - lungimirante il gesto di Coppola di recuperarlo da un gorgo di oblio e dissipazione successivo al repentino allontanamento dai riflettori hollywoodiani che non impiegarono molto a dimenticare i fasti libertari di "Easy rider" (1969; tra i primi vagiti della "New Hollywood") e a far pesare l'insuccesso di "The last movie"/"Fuga da Hollywood" (1971) - tipo estroverso, istrionico ("un arlecchino" dice Conrad del "russo"), imprevedibile, con negli occhi sempre un che d'infantile e di irrequieto (significativi gli scambi avuti tra lui e Coppola in sede di preparazione del personaggio. Alle rimostranze spesso scorate del regista che tra il comprensivo e l'arreso gli rimproverava di non ricordare o di non imparare mai bene le battute - nonostante il grande margine all'improvvisazione lasciatogli - un Hopper sghignazzante, ciclotimico, vistosamente alterato dalle sostanze - lui stesso, senza reticenze, parlava di se' in termini di "ero fuori di testa. Ero assolutamente pazzo" - era solito rispondere: "Ma quali battute del cazzo, Francis ?") ben si presta a rappresentare uno dei risvolti dell'intima contraddizione di una Cultura che dilaga su tutto con entusiasmo e disperazione, trasporto e protervia, curiosità e appetito, incoscienza e depravazione. Che si specchia (accumulare, ad esempio, con le fotografie, immagini su immagini di se stessa, delle proprie "conquiste": "Io sono americano... un civile americano... ... Sono un fotoreporter. Mando servizi di guerra dal '64... Laos, Cambogia, Vietnam... ... No. Non andare, non andare senza di me... Voglio fare una foto") e si deprime; si vanta e si disprezza; si autoesalta e si smarrisce: tutto sempre in modo "spettacolare". Hopper/fotoreporter si sbraccia, introduce Willard e i pochi superstiti dell'equipaggio alle "oscure grandezze" del colonnello, ai suoi "piaceri sconosciuti": "Non puoi giudicare il colonnello come si giudica uno qualunque"/("But you don't judge him like an ordinary man"). Ne magnifica le qualità ("Quell'uomo mi allargato la mente, sai ?... E' un poeta guerriero, nel senso classico...". "Il maestro Ittei affermo': 'Fare del bene, per dirlo con una sola parola, significa sopportare la sofferenza. Se non si sopporta la sofferenza, tutto e' male'" - Y.Tsunetomo, "Hagakure" -). Ogni cosa come un giocoliere, un intrattenitore, un funambolo in equilibrio su un vuoto immenso, molto più grande delle parole che, meramente in virtù del proprio numero, tentano di nasconderlo/circoscriverlo. Aspirazione ad un superamento che s'intuisce da certe sue esclamazioni, allorché citando Eliot, ad esempio, "Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli/Che corrono sul fondo di mari silenziosi//"I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas" - T.S.Eliot, "Il canto d'amore di J.A.Prufrock" -, allude ad una vita piena ed autentica, non irregimentata da conformismi, dai doveri sociali e dalla morale (Kurtz [rivolto a Willard]: "Ha mai preso in considerazione delle vere libertà ?... Libertà dalle opinioni altrui... Perfino dalle proprie opinioni...". "Non e' bene mantenersi attaccato alle proprie opinioni. E' un errore pensare di aver raggiunto la perfezione per il fatto di avere delle belle convinzioni e dopo aver fatto un certo sforzo. Dopo aver cercato di comprendere la natura delle cose, bisogna continuare nella ricerca per tutta la vita, in modo da ottenere frutti duraturi" - Y.Tsunetomo, op. cit. -); non costretta a ripiegare nella nausea di un furore lugubre e ossessivo ("Ci sarà tempo per uccidere e creare/.../Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà.../Io non sono un profeta - e non ha molta importanza;/Ho visto vacillare il momento della mia grandezza/E ho visto l'eterno Lacche' reggere il mio soprabito ghignando/E a farla breve, ho avuto paura/.../E' impossibile dire ciò che intendo !/.../Ne sarebbe valsa la pena/Se qualcuno, accomodandosi un cuscino o togliendosi uno scialle,/E volgendosi verso la finestra, dicesse:/'Non e' per niente questo,/Non e' per niente questo che volevo dire'" - T.S.Eliot, op. cit. -), lo stesso che, alla fine, ha stretto e imprigionato Kurtz, si e' portato via il Capitano Colby (che adesso riappare di fronte a Willard, armato di tutto punto, le nocche impiastrate di sangue, lo sguardo vigile ma lontanissimo, profondità tetra che Willard appena sussurrato il suo nome rifugge, come si spazza via lo spaventoso pensiero di come ci si potrebbe ridurre/cosa si potrebbe diventare), tiene insieme un avamposto "alla fine del mondo".



"La madre sua era mezzo inglese. Il padre mezzo francese. Tutta l'Europa aveva contribuito alla creazione di Kurtz" (Conrad). "In Africa, e appunto nel Congo, Conrad andò nel 1890... assunto in qualità di comandante dalla "Societe' Anonyme Belge pour le Commerce du Haut-Congo"... Arrivato a Kinshasa, apprende che il battello che doveva comandare ha subito un incidente ed e' in riparazione, per cui provvisoriamente viene imbarcato su un altro battello che risale il Congo verso le cascate di Stanley: ammalatosi il capitano, Conrad lo sostituisce prendendo il comando. Nel viaggio di ritorno, la spedizione porta con se' un agente della Societe' ammalatosi in una stazione dell'interno: un francese dal nome (tedesco) di Klein; Klein (come Kurtz) muore durante il viaggio... Si e' pensato per lungo tempo che Klein fosse Kurtz; tanto più in quanto dal manoscritto risulta che Conrad incomincio' a chiamare Kurtz col nome di "Klein" e solo in un secondo momento cancello' questo e lo sostituì col primo (mantenendo pero' il richiamo contenuto nel nome: Klein, 'piccolo'; Kur[t]z, 'corto': richiamo ironico e antifrastico sottolineato dallo stesso Marlow)... Il vero modello, come ha dimostrato N.Sherry in "Conrad's western world", e' un altro: un certo A.E.C.Hodister, importante agente della Societe', direttore del distretto di Bangala, gran incettatore di avorio, esploratore e 'idealista', autore di un 'eloquente' relazione alla Societe' Belge des Ingenieurs et Industriels in cui si trovano numerosi punti di contatto col 'report' di Kurtz. Hodister (che Conrad non incontro' personalmente ma di cui dovette sentir parlare) fu ucciso nel 1892 dagli arabi e la sua testa fu infissa su un palo (eco di ciò, forse, ancora una volta ironico e antifrastico, nelle teste dei suoi nemici che Kurtz infigge sui pali davanti alla propria stazione" - G.Sertoli, dalla "Nota introduttiva a 'Cuore di tenebra'" - Il Kurtz della Stazione Interna, quindi, in piena Africa equatoriale - col "suo" avorio, i suoi traffici oltre gl'intrichi più sperduti della foresta, i suoi riti innominabili - e quello soldato dell'Esercito degli Sati Uniti (Willard: "La sua era stata una carriera eccezionale, persino troppo eccezionale... West Point, primo del suo corso... Lo stavano preparando per uno dei ranghi più alti della ditta... Generale, Capo di Stato Maggiore. Qualsiasi cosa"), capo/re/sacerdote di qualche centinaio di coscritti tra vietnamiti, cambogiani, disertori americani. Condottiero intransigente e spietato di una guerra misteriosa e impossibile che "a suo modo" si ostina a vincere. Il Kurtz della letteratura, malato agli sgoccioli, scosso da un disgusto febbrile (Conrad: "Vidi l'uomo steso sulla barella rizzarsi a sedere, macilento, con un braccio alzato... Vedevo quel braccio esile teso in atto di comando, la mascella inferiore muoversi, gli occhi di quello spettro scintillare cupamente in fondo a quella sua testa ossuta, che si agitava con certi crolli grotteschi");

persuaso/rassegnato ad una distruzione totale e definitiva (Conrad: "Vidi dipinta su quel viso d'avorio l'espressione di un cupo orgoglio, d'un energia crudele, d'un avvilente terrore, d'un intensa e irrimediabile disperazione", addirittura formalizzata in un monito/anatema finale incluso nel suo "Rapporto per la Redenzione dei Selvaggi": "Sterminate tutti quei bruti !"). Ed il Kurtz del cinema, stanco e grasso (sul tipo del Kingpin di Miller/Sienkiewicz nella graphic novel "Devil. Amore e guerra": "Più grosso dello stato dell'Ohio"); assertivo e scostante; altezzoso (celebri i suoi "slanci di mento" mussoliniani) e sfuggente, non meno impietoso e votato al 'cupio dissolvi' ("Drop the bomb. Exterminate them all !", legge Willard tra i suoi scartafacci a rivelare una non peregrina allusione all'eventualità di un olocausto atomico: "Come riserva nel profondo del cuore, c'era sempre per tutti la bomba. Amavano molto ricordarti che avevamo qualche ordigno nucleare: 'proprio qui, nel paese'" - M.Herr, op. cit. -). Il Colonnello Walter E. Kurtz che e' soprattutto Marlon Brando, inseguito da Coppola con un assegno da un milione di dollari (personali) in mano, e che non si presenta sul set per le riprese e che quando lo fa impegna il regista in una rilettura integrale del testo conradiano che, alla fin fine, non si e' mai davvero capito se già conoscesse o meno. Brando che e' dilatato dagli ozi e dalle abbuffate consumati al riparo del suo atollo nel Pacifico: che discute e litiga con parte della troupe e del cast (gustosi certi siparietti, tra il sarcastico e il velenoso, inscenati da lui e da un sempre più incontrollabile Hopper). Brando che sa o subodora di avere tra le mani la chance di una (forse) ultima grande interpretazione e così spinge sul tasto dell'improvvisazione e della definitiva dissacrazione della propria icona di star, di sex symbol, di attore forgiato dal "metodo", di talentuoso dinosauro sopravvissuto di una Hollywood che anche Coppola, anche "Apocalypse now", contribuiscono a seppellire.


TFK

- parte quinta -


sabato, dicembre 21, 2013

SAY MY NAME: IL MANTRA DI HEISENBERG

Say my Name: il mantra di Heinsenberg
Attenzione Spoiler


“…Questo tipo di lavoro e arte sono rari, e quando, di tanto in tanto, si verificano, come in questa opera epica, rinsaldano la fiducia…” Parola di Sir Anthony Hopkins, che dedica a Bryan Cranston e a tutto il lavoro del cast di Breaking Bad stima profonda, detto da uno dei migliori attori di sempre c’è da fidarsi eccome. Ed in questo spazio faremo noi una dedica al superbo lavoro partorito dall’ideatore Vince Gilligan.

Alla visione della prima puntata della prima stagione rimasi colpito, non avevo mai visto niente del genere, una partenza che cattura innescando processi al di fuori del pensabile, anche per i più accaniti consumatori di prodotti televisivi. L’enigma di un uomo, Walter White, insegnante di chimica, che fa la dura scelta di darsi alla criminalità producendo metanfetamina: “It’s for the family” è il continuo richiamo che pian piano va scemando diventando schermo di qualcosa di più complesso, un procedimento che avviene nell’insospettabile essenza di un essere umano in realtà fuori dal comune, la contraddizione dello spettatore che è ormai affezionato ad un personaggio che ha di fatto abbandonato l’umanità per concedersi al mito, alla leggenda di Heisenberg, il suo super-io sepolto dal lavoro modesto, dalla famiglia e dalla superbia un po’ bifolca del cognato Hank, antagonista lungamente inconsapevole, e dall’azienda creata dal suo genio e derubatagli ingiustamente. Il lavoro sulla sceneggiatura e sui personaggi è stato un esperimento tanto rischioso quanto riuscitissimo, ottenendo un prodotto che vende ma di una qualità mai vista nel mondo delle serie televisive, facendo sentire in imbarazzo  l’ideatore di Lost, che non si è trattenuto negli elogi alla serie, e soprattutto facendo rivalutare le potenzialità artistiche di un mezzo, quello televisivo, sfruttato quasi esclusivamente dal Dio Danaro. Ad esaltare il tutto ci sono le dicotomie interiori della moglie Skyler, che sfiorano l’onirico nella scena della piscina, il personaggio interpretato a perfezione da Aaran Paul, che alla fine ne esce giustamente come unica anima  salva e redenta, purificata dai labirinti di sangue e criminalità perversa ed irrefrenabile (all’inizio era previsto che il suo personaggio morisse alla fine della prima stagione, dopo le prime puntate Gilligan se ne pentì subito); e poi ci sono le caratterizazioni dei criminali che presto potremo definire cult: il Tuco, Ector Salamanca, l’impassibile Gus Fring, il nonno-sicario Mike e l’incontenibile avvocato Saul, anima comica e di intelletto sopraffino, che sarà protagonista di uno spin off intitolato Better call Saul in uscita nel 2014.

Il doppio ego di Walter White/Heisenberg si districa nella propria volontà di potenza senza freni e con ritmo estremo, come i versi di Foglie d’erba di Walt Withman, una dedica che si rivelerà cruciale. Attraverso l’evocativo mantra Say my name, si sprigiona la potenza di un prodotto che va al di là dell’intrattenimento sfrenato, ma che si getta a capofitto nell’oscurità recondita dell’umanità tutta, pronta alle scelte più estreme fatte quando non c’è altra via d’uscita, che non comprende rimpianti o moralismi, nemmeno quando si tratta di mettere in gioco giovani vite. Quando ho finito di vedere la serie, mi sono reso conto di aver assistito ad una concatenazione perfetta di eventi, situazioni e personaggi, insomma di avere di fronte qualcosa di grandioso ed irripetibile. Come Anthony Hopkins, anche io, nel mio piccolo, ringrazio Bryan Cranston, per averci immerso in un dramma concepito da un Sofocle dei tempi nostri, le vette e gli abissi dell’animo umano raramente sono stati assaporati così ferocemente.
Il termine cucinare ora non ha più lo stesso significato, yo Mr. White.

By Antonio Romagnoli

giovedì, dicembre 19, 2013

I sogni segreti di Walter MItty

I sogni segreti di Walter Mitty
di Ben Stiller
con Ben Stiller, Kristen Wiig, Shirley McClaine
Usa, 2013
genere, commedia, avventura, drammatico


Una cosa è certa: Ben Stiller non è un regista banale. Se scorriamo la sua filmografia due cose saltano all'occhio. La prima riguarda il numero dei film realizzati - appena cinque in poco più di un ventennio- che nella parsimonia dei numeri ne testimonia l'oculatezza delle scelte; la seconda invece ci spinge all'interno del meccanismo cinematografico affermando l'assoluta flessibilità di un dispositivo cinematografico capace di modulare nella stesso canovaccio l'intera gamma emozionale. "I sogni segreti di Walter Mitty" rifacimento del quasi omonimo film del '47 intepretato da Danny Kaye, sembra fatto apposta per ribadire la poliedricità dell'autore. Perchè se è vero che i sogni di Mitty, così come la sua patologica incapacità di passare all'azione, con ciò che ne scaturisce in termini di dinamiche con il resto dei personaggi basterebbero da soli a soddisfare i requisiti di buon umore e divertimento che sono base indispensabile per qualunque commedia di successo, così non succede nel film di Ben Stiller. Il quale nel momento di massimo sfarzo tecnologico e citazionista, con le parodie di film celeberrimi - dagli hero movies a Benjamin Button- ed effetti speciali da far invidia alle produzioni della Marvel, decide di cambiare passo, e diremo anche genere, trasformando la sua creatura in un road movie avventuroso e filosofico, in cui Mitty con la scusa di recuperare il negativo della fotografia scelta come copertina del numero conclusivo della rivista Life, riuscirà a trovare il senso della sua esistenza.


Raccontato in questo modo "I sogni segreti di Walter Mitty" potrebbe far pensare ad un collage di significati ed intenzioni troppo grande e complesso per le ambizioni di un film, destinato a contendersi il primato del box office. Ed invece dal punto di vista degli incastri narrativi Ben Stiller riesce a far coesistere le diverse anime del film, grazie ad un meccanismo a scatole cinesi in cui le parole trovano sempre corrispondenza nel significato delle immagini. Così, se la guarigione del personaggio passa necessariamente per l'eliminazione della dicotomia che separa il sogno dalla realtà, Stiller ed il suo sceneggiatore organizzano un tragitto paradigmatico, in cui la rinascita del protagonista si compie attraverso un percorso salvifico costellato da emozioni che si innestato su una serie di situazioni limite. In questo modo l'eruzione vulcanica scampata sul filo di lana, il naufragio seguito ad un atterraggio di fortuna, il faccia a faccia con uno squalo bianco e perfino la detenzione in una prigione ai confini del mondo, nell'inverosimiglianza della progressione con cui si verificano, e quindi nella mancanza di una piena autenticità-certificano la ritrovata composizione dell'equilibrio psicofisico del personaggio, diventato una volta per tutte padrone della (messin)scena; come sancisce in modo eloquente la sequenza finale, quella del pieno ristabilimento, leggittimato dai rimandi al soggetto della fotografia che campeggia sulla copertina della rivista, che preferiamo non rivelare per non togliere allo spettatore il gusto della sorpresa. La grandezza del progetto, testimoniata anche dall'afflato ambientalista rappresentato dall'immersione nella meraviglie incontaminata del paesaggio naturale, e negli ideali di fratellanza e condivisione messi a punto dal protagonista nel corso della sua ricerca, sono in parte ridotti dall'eccessiva semplificazione dei contenuti e dalla presenza di clichè come risulta essere quello rappresentato dal "maledettismo" di Sean Penn, utilizzato per caratterizzare la personalità di Sean O Connell, il fotografo ramingo e solitario a cui Stiller non riesce a dare autonomia,  ne profondità. Rimane di certo l'eleganza della confezione, e poi la simpatia d'invenzioni come quella della detenzione di Mitty nel carcere indiano, visualizzata attraverso una pantomima in bianco e nero che rimanda, forse, al gradino finale di un male oscuro che sta per essere mondato. Ma è troppo poco rispetto alla premesse che il regista ci aveva prospettato.


Film in sala da Giovedì 19 Dicembre 2013


PHILOMENA
di Stephen Frears
con Judi Dench, Steve Coogan, Charlie Murphy
2013 GB - Drammatico

SPAGHETTI STORY
di Ciro De Caro
con Valerio Di Benedetto, Cristian Di Sante, Sara Tosti
2013 ITA - 82 min - Commedia

I SOGNI SEGRETO DI WALTER MITTY
The Secret Life of Walter Mitty
di Ben Stiller
con Ben Stiller, Kristen Wiig, Sean Penn, Adam Scott
Kathryn Hahn, Shirley MacLaine
2013 USA - Commedia

FROZEN - Il Regno di Ghiaccio
di Chris Buck, Jennifer Lee
con Vinicio Marchioni, Miriam Karlkvist, Valentina Lodovini, Andrea Bellisario
2013 USA - 108 min - Animazione

COLPI DI FORTUNA
di Neri Parenti
con Christian De Sica, Francesco Mandelli, Lillo, Greg
Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu
2013 ITA - Commedia

mercoledì, dicembre 18, 2013

Still Life

Still Life
di Uberto Pasolini
con Eddie Marsan, Joanne Froggatt, Karen Drury
UK, 2013
genere, drammatico
durata, 87'

immaginario cinematografico: BRAD PITT

 
Brad Pitt


Una superstar come promessa sposa, un plotoncino di marmocchi al seguito, sempre nuovi progetti in agenda - l'ultimo Scott; "12 years, a slave" di McQueen, tra i più recenti - riuscirà l'eterno "uomo ideale", tra una rampogna, una lagna e un ciak, a farsi una birra con George, Matt e qualche altro "ragazzo del coro" e magari a dire: "Ehi, sono cinquanta ma, in fondo, non e' così male"?
Auguri, Brad.

martedì, dicembre 17, 2013

Un fantastico via vai

Un fantastico via vai
di Leonardo Pieraccioni
con Leonardo Pieraccioni, Massimo Ceccherini, Giorgio Panariello
genere, commedia
Italia, 2013
durata, 95'


Cosa sarebbero le feste natalizie senza la presenza del mitico Babbo Natale. Un pensiero che deve aver attraversato la mente di Leonardo Pieraccioni, ex Golden Boy del Box Office italiano, ora relegato a posizioni di rincalzo dalla ciclica ascesa di nuovi pretendenti. Infatti se è vero che nella sua storia cinematografica il commediante toscano ha incarnato la quintessenza di una gioventù senile, o se volete di una maturità fanciullesca ed un po' scialacquona, mai è mancata in dote ai suoi personaggi un certo Savoir-Faire in grado di raddrizzare qualsiasi avversità. Un alter ego dispensatore di felicità e buoni consigli, a cui Pieraccioni consente un ulteriore balzo verso quella che potrebbe essere la sua definitiva santificazione. In "Un fantastico via vai " la generosità assume dunque contorni degni di un moderno Santa Klaus, legittimati in parte da un definitivo salto della sponda. Arnaldo Nardi, il protagonista del film, e' infatti un uomo di mezza età, con moglie e figli a carico, talmente innamorato della propria routine famigliare da provocare una crisi coniugale. Messo al bando dalla moglie, stufa di cotanta ordinarietà, Arnaldo trova asilo presso un sodalizio studentesco del quale diverrà presto una sorta di padre putativo. In questo modo l'Arnaldo Pieraccioni avrà modo di occuparsi dei problemi dei ragazzi, ricomponendo incomprensioni famigliari e titubanze sentimentali, arrivando persino a far cambiare idea a genitori razzisti, ed afflitti da una mentalità vecchio stampo. Insomma un salvatore della patria alle prese con i problemi di una gioventù piaciona e modaiola, che Pieraccioni ritrae secondo una visione del mondo edulcorata da qualsiasi tipo di realismo, ed all'insegna di un'atmosfera favolistica, scandita dalla bellezza levigata dei ragazzi, della cui indubbia fotogenia il nostro non nasconde di andare fiero, con una dichiarazione ("ma lo sapete che siete giovani e belli") che da sola potrebbe costituire il manifesto estetico di un film di spudorata apparenza.

 

Nulla di male, perché il problema dell'ultimo Pieraccioni non risiede nei contenuti, perennemente uguali a se stessi fin dalla prima apparizione, ma nel modo in cui il regista li propina. In questo senso "Un fantastico via vai" rappresenta un passo indietro rispetto ad un cinema che tale si voglia chiamare. Se nei film precedenti c'era stato un tentativo di organizzare una storia con narrazioni dal respiro più ampio, in questo caso assistiamo ad un'inversione di tendenza, testimoniata dalla chiamata alle armi di amici vecchi e nuovi, pronti ad arricchire la strenna natalizia. Così per fare spazio alle comparsate dei vari Massimo Ceccherini, Giorgio Panariello, Maurizio Battista ed Enzo Iachetti, il film evita di approfondire le ragioni che consentono di far progredire la storia. In questo modo la semplicità dell'intreccio si colora di una superficialità che finisce per rendere inconsistente tutto e tutti. Ed e' vero che Pieraccioni ci mette il solito garbo, ed una bonomia resa ancora più evidente dalla correttezza del ruolo, ma non si scappa dalla sensazione di un cinema spezzatino, in cui la mancanza di idee viene sostituita da una via vai, e proprio il caso di dirlo, di facce comiche che ripetono stancamente se stesse. Così se il partner di Vanessa Incontrada si limità a fare il verso ad i suoi spot televisivi, e Ceccherini è un detective trasformista che fa concorrenza ad Arturo Brachetti - nel film lo vediamo imbalsamato a mò di statua, e poi mimetizzato come cespuglio tra i cespugli- è la new entry di Gennaro Battista, nel ruolo del collega fedifrago e sessuomane, a rimanere imbrigliata in una rete di situazioni talmente poco plausibili da impedire qualsiasi colpo di coda. Impermeabile a qualsiasi suggestione contemporanea che non sia quella del gaudio quieto vivere, "Un fantastico via vai" non sa cos'è la crisi - economica ma neppure esistenziale- e mette in fila una serie di valori (la famiglia, la tolleranza, l'amore e l'amicizia) da catechismo del libro cuore. Un trend suggellato da un congedo che sembra affidare alle nuove generazioni il testimone della speranza e della voglia di fare, con una sequenza a metà tra l'onirico ed il surreale che fa il verso ad una nuova palingenesi. Si rimane con un pugno di mosche, e con un sorriso che nel frattempo si è tramutato in espressione d'imbarazzo.
(pubblicato su ondacinema.it)

domenica, dicembre 15, 2013

SOLE A CATINELLE


di: G.Nunziante
con: C.Zalone, R.Dancs, M.Dalmazio, A.Erguy, R.Aprea, V.Cavalli.
- ITA 2013 -
Commedia - 85 min

Checco Zalone (all'anagrafe Luca Medici) e' un tipo simpatico. E di questi tempi e, soprattutto, da queste parti, dove abbondano i finti antipatici, per non parlare dei cortigiani di lungo e lunghissimo corso, sembra quasi un attestato "doc" di spontaneità e freschezza. L'apprezzamento assume, volendo, perfino i contorni dell'originalità se messo a fianco dello stato di trista routine in cui si pasce buona parte della cosiddetta "nuova commedia all'italiana". Zalone naviga più dalle parti di un semplice quanto lucido intento dissacratorio da diffondere attraverso l'ennesima variazione di una delle tante maschere nazionali: il cialtrone, gaglioffo e opportunista, di fatto quasi sempre vile come spesso e volentieri maramaldo, pronto a ribaltare la situazione e a negare le più ovvie evidenze pur di trarsi d'impaccio. Le differenze innestate dall'artista pugliese - e dall'amico e sodale Nunziante - su un prototipo di arci-italiano che ha avuto in Sordi il suo fuoriclasse (mai tanto rimpianto, oggi, in specie se ci si mette a scorrere l'infinito elenco dei pigri saccheggiatori delle sue invenzioni), oltre all'ovvio adeguamento di certi tic al tritume morale e sociale contemporaneo, vanno cercate, ad esempio, nella predilezione per lo sberleffo fulminante e la battuta salace e/o truce (in scia con certe commedie di grana grossa di Adam Sandler) su cui Zalone si e' a lungo esercitato - sovente anche in musica, come pure qui in questo "Sole a catinelle" accade, a margine di un'intera colonna sonora da lui scritta ed eseguita - durante la parentesi trascorsa ad animare il cabaret televisivo di "Zelig". Così come l'assenza pressoché totale di quel cinismo e di quella "cattiveria" (ingrediente questo squisitamente sordiano ed essenza della nostra migliore commedia) a cui si tenta di ovviare con un'insolenza naïf, un po' di faccia tosta e, a conti fatti, con un candore di fondo e un cuore-grande-così, seppure non proprio "di panna".

Dall'alto dei suoi fantastilioni (l'ordine di grandezza provvisorio dell'exploit di una singolare trilogia "meteo" cominciata con "Cado dalle nubi", nel 2009, ribadita con "Che bella giornata", del 2011 e giunta a questo "Sole a catinelle", si aggira sul centinaio di milioni di euro d'incasso), Zalone si e' via via ritagliato addosso i suoi film e un personaggio - giovane uomo con pochi capelli, silhouette da buongustaio, quasi sempre male in arnese, l'aria timida e un tanto triste che trova nell'ironia un'efficace leva di contrasto - senza grosse pretese ma pure senza spocchia e vezzi improbabili. Il Checco che qui scarrozza suo malgrado il piccolo Nicoló, figlio/spalla (divertenti i siparietti tra i due) per una vacanza che vira subito in farsa, e' ancora il Checco degli sketch e delle serate di gala televisive con, in meno, una struttura narrativa consistente (storia esile, personaggi secondari che non superano la condizione di macchietta, una certa generale piattezza, limiti tutto sommato da considerarsi intrinseci ad una formula che prevede - per ora - solo il brio comico del nostro), in più, una sottolineatura di carattere linguistico (talune espressioni tipiche dell'intercalare pugliese borbottate o smozzicate ad arte) e un qualcosa - e sono i momenti più spassosi - che somiglia ad una elementare ma arguta ricognizione sui costumi oramai sbracati di questo paese, a cavallo tra l'eterna tentazione auto-assolutoria e il graffiante sghignazzo che non risparmia niente e nessuno. Ecco quindi che l'insistenza parodistica sull'"ottimismo" e il pericolo "comunista", la spilorceria contadina, gl'imbonimenti new-age, l'ostentazione pacchiana della ricchezza, l'ipocrita sussiego della pseudo aristocrazia del denaro, la grottesca presunzione "artistica" di certo cinema, un qual piagnisteo sociale e le miserie pedagogiche e dell'inconscio ("Gli psicologi non capiscono un cazzo"), si ritrovano in fila, tutti sulla linea di risucchio dell'aspirapolvere di Checco (venditore per modo di dire, nel film, di tale elettrodomestico), ingoiati e risputati fuori per quello che sono: l'istantanea di un paese allo sbando - accidioso e furbastro, fatalista ma incarognito, spaccato tra chi ancora si gingilla in un allucinatorio sogno di benessere e sempre più persone stremate dalle difficoltà, in cui anche l'annoso conservatorismo e' ormai solo un'altra forma di disperazione - scattata da un tipo impertinente che apposta t'inquadra a meta' e prima che tu apra bocca dice: "tie'". Basterà cinematograficamente parlando ? Chiaro che no. Come e' chiaro che questo Zalone lo sa.


TFK

sabato, dicembre 14, 2013

Lo Hobbit-La desolazione di Smaug

Lo Hobbit-La desolazione di Smaug
di Peter Jackson
con an McKellen, Martin Freeman, Richard Armitage, Ken Stott
genere, fantasy
Nuova Zelanda, Stati Uniti
durata, 161' 

Che la nuova trilogia non possa essere paragonata neanche lontanamente a “Il signore degli anelli” si sa. Si sa anche che le mancanze sono all’origine, ovvero al libro di Tolkien, che non aveva ancora raggiunto la maturità letteraria, che riverserà poi nel suo poema epico: Lo Hobbit; per il quale, sia il libro che il film sono fondamentalmente d’ispirazione e di destinazione fiabesca. Bilbo e la compagine di nani, capitanati da Thorin, continuano la loro avventura alla riconquista della terra natia, e tra numerose insidie approdano finalmente ad Erebor, la montagna solitaria. Storia che si allarga e si distende nelle vedute e nella ramificazione della vicenda (un po’ come avveniva ne “Le due torri”).
 
Nonostante il lavoro di Peter Jackson e dei suoi sceneggiatori si confermi una raffinata rielaborazione filologica dell’opera letteraria (non facendo riferimento esclusivamente a “Lo Hobbit”, ma anche ad altre opere del mondo creato da Tolkien), con il capitolo due di questa discussa trilogia trovano conferma alcuni timori dei fan più sfegatati. A tratti frizzante ed esaltante – grazie anche alla naturalezza comica di Martin Freeman – il film a volte sembra perdersi in sè stesso, e Jackson sembra imitarsi in inquadrature palesemente riprese dalla vecchia trilogia; il digitale a 48 fps, che richiama molto l’atmosfera fanciullesca per il modo in cui accentua i colori e rende fluida l’immagine, a tratti risulta fastidioso. Stupenda, invece, la composizione per immagine e per caratterizzazione del drago Smaug, anche se forse c’era materiale per fare di meglio nel dialogo con Bilbo. Ancora non risulta ben chiaro l’inserimento del personaggio di Legolas, mentre convince Nicole Evangeline Lilly, anche se il suo personaggio sembra rimpiazzare un po’ quello di Arwen, attraverso gli epiteti della medicina elfica e della donna combattente, ma anche angelicata.

Con una regia a volte più furba che appassionata, ci si deve purtroppo convincere che fare una trilogia per Lo Hobbit è stata più una forzatura di produzione che una scelta artistica; il finale aperto ricorda più la fine di una stagione televisiva e non ha nulla a che vedere con la chiusura de “La compagnia dell’anello” o de “Le due torri”, film che riservano comunque una propria autonomia, com’era del resto avvenuto nel primo capitolo de “lo Hobbit”. Ma è anche vero che, come per la vecchia trilogia, anche per la nuova sia giusto tenere in serbo i giudizi finali per la prossima uscita, quando il quadro di Peter Jackson e compagnia sarà più chiaro negli intenti. Tra un anno l’ardua sentenza.

venerdì, dicembre 13, 2013

La mia vita senza importanza: Uberto Pasolini parla di Still Life




In occasione dell'anteprima del suo ultimo film Uberto Pasolini ha ricevuto il premio Pasinetti, assegnatogli dai critici italiani per Still Life presentato nella sezione Orizzonti dell'ultimo festival di Venezia. L'evento è stata l'occasione per conoscere un autore arrivato al cinema quasi per caso. In attesa di presentarvi il resoconto del film vi offriamo in esclusiva alcuni dei passaggi più importanti della conferenza stampa alla quale abbiamo assistito.


L'idea del film mi è venuta dopo aver letto un articolo in cui venivano intervistati gli impiegati del comune di Londra incaricati di occuparsi delle persone che muoiono in totale solitudine. Quello che mi colpì fu che è che a fronte di un operosità generalmente burocratica emergeva di tanto in tanto la consapevolezza del valore umano del proprio mestiere, messo in pratica con una dedizione che compensava in parte l'assenza di parenti ed amici.

Ho fatto molte ricerche, ho incontrato persone, sono entrato nelle abitazioni con chi si occupava di questi casi. Tutto quello che vedete nel film è la trasposizione di eventi reali, ed anche il personaggio di John May altro non è che la sintesi di tre persone che ho conosciuto. Non ho inventato nulla anche perchè la fantasia non è il mio forte.
L'idea di partenza è stata l'immagine di una sepoltura effettuata in solitaria, senza alcuna presenza umana che non fosse quella degli  operai incaricati della tumulazione. Da lì ho proceduto a ritroso nella costruzione della storia. Trattandosi di una vicenda incentrata sul tema dell'isolamento e della solitudine mi è sembrato opportuno rispettare il clima di quella visione, senza tradirla in nessun momento del film.
Il motivo che mi ha spinto a fare il film è sempre lo stesso, da quando dopo 30 anni di lavoro in banca ho deciso di occuparmi di cinema, e cioè la curiosità di esplorare background umani e geografici che sono estranei alla mia cultura. Io sono una persona privilegiata, che a differenza di molti non mi è mai dovuta preoccupare di lavorare per vivere. Forse per questo motivo i miei personaggi sono pieni di queste vicissitudini. Tra l'altro reputo la mia esistenza e l'ambiente da cui provengo molto poco stimolante.
Sono stato sposato per anni ed ho vissuto circondato dalle mie figlie e da mia moglie. Poi ad un certo punto ho deciso di separarmi, ed anche se di fatto frequento molto la mia famiglia mi sono trovato per la prima volta ad aprire la porta di casa ritrovandomi nel silenzio più assoluto. Still Life è partito da un'analisi sociale per poi diventare una storia personale.

Avevo già lavorato con Eddy Marsan ne "I vestiti dell'imperatore". E' un attore fantastico perchè ha la capacità di recitare con movimenti impercettibili che però restituiscono una grande intensità emotiva. In Inghilterra lo conoscono per via dei suoi ruoli molto violenti, io invece l'ho utilizzato in una parte totalmente opposta.
Per quanto riguarda lo stile sono da sempre convinto dell'efficacia di un linguaggio cinematografico a "basso volume". L'overdose sensoriale utilizzata dal cinema mainstream va bene sul momento ma è destinata a sparire quasi subito, mentre i toni bassi costringono lo spettatore a fare più attenzione, permettendo alle emozioni di entrare sotto la pelle. Nel mio film tutto questo si traduce nell'assenza di movimenti della mdp, in una recitazione pacata e realista. Diciamo che Ozu è il mio modello ma ovviamente sono lontanissimo dai suoi risultati.