venerdì, novembre 30, 2012

Compliance

TFF 30
TorinoFilmFestival 2012
- sez. "Rapporto confidenziale" -

"Compliance"
di: C. Zobel
con: A. Dowd, D. Walker, P. Healy
- USA 2012 -


Pur pervaso da sempre più evidenti correnti di ripulsa e aperte ostilità,
difficilmente al "sistema" in cui siamo stati abituati a vivere viene negato o rimproverato - anche come riflesso involontario - il principio di razionalità che lo regge e di conseguenza lo giustifica.
Anzi, di prassi, il nostro tempo (la cosiddetta "modernità") e' utilizzato
come sinonimo di razionalità, ne' più ne' meno.
Eppure, al cospetto di un'opera come "Compliance" dell'americano Craig Zobel, presentata al TFF nella sezione "Rapporto confidenziale", dopo essere passata per il Sundance e Locarno, qualche salutare dubbio si fa strada e pratica delle brecce in tanta rassicurante uniformità; le spinte prettamente irrazionali che serpeggiano ben dentro il nostro cosiddetto "ordine" vi risultano vive e pervasive al punto da essere sempre più spesso alla base di avvenimenti bizzarri, genericamente inusuali o addirittura, come nel nostro caso, tragici.
Al netto di ogni giudizio - lo si dica subito - un film come questo risulta
utile, se non altro - trattandosi di fatti realmente accaduti - perché invita a
mantenere sempre desta la capacita di osservazione della realtà e lo spirito
critico, qualunque sia il contesto e la cogenza delle forze che v'interagiscono
imponendo l'osservanza ("compliance", appunto) cieca delle regole, la loro
presunta razionalità - diretta, indotta, forzata, scaturita dall'indifferenza
et. -
In quel microcosmo metaforico che e' un fast-food, una cameriera viene
accusata telefonicamente da un sedicente agente di polizia co-responsabile in
una ipotetica indagine su più vasta scala, di avere derubato una cliente. La
ragazza - tipica post teenager americana, col suo tipico biondo decolorato,
tipiche unghie iper laccate, tipico cellulare di ultima generazione (la
custodia in tinta con le unghie), tipica famiglia semi-disfunzionale, tipica
espressione tra l'assente e il perplesso - nega. Ma più lei cantilena "I didn't
steal anything", più, col tempo, viene dai suoi "pari" (la dirigente, alcuni
colleghi passivi o disinteressati, estranei sopraggiunti), implacabilmente
imbeccati dall'"autorità" via telefono, sottoposta ad ogni tipo di umiliazione
e vessazione fino a...
Tra Kafka e Lynch, Zobel, rispettando le unita di luogo e di tempo - pressoché
l'intera azione si svolge in un ufficio-ripostiglio del fast-food secondo una
scansione quasi cronologica - compone un disegno via via sempre più
allucinatorio ma dai contorni spaventosamente palpabili e dai colori vistosi,
come dimostrano i numerosi inserti di primi e primissimi piani di oggetti e
gesti ordinari - la friggitrice in perenne ebollizione; gli anodini scambi di
battute ai tavoli; le provviste impilate in scatoloni; il dettaglio di un
angolo di un piano di lavoro metallico punteggiato di avanzi organici - a
testimoniare la progressiva disgregazione delle direttrici guida che tengono
insieme il tessuto del nostro mondo, la sua comprensibilità, il punto di non
ritorno dove la follia diventa logica.
Tale progressione infonde fin da subito la persistente quanto poco piacevole
sensazione per cui, davvero, oramai non c'e più tanta differenza tra noi -
essere umani ? - e l'universo di oggetti che ci circonda e il cui senso ultimo
sta/dovrebbe stare nel disporre senza remore di loro. Nel senso che in
determinate e tutt'altro che eccezionali circostanze, uomini, donne e cose
finiscono per essere accomunati dall'identica quanto stringente aberrazione
dell'acquisto/uso/distruzione a cui solo un evento fortuito, un caso
(l'antitesi, almeno in superficie, della razionalità) sembra ancora in grado di
opporsi.
L'idea terribile che striscia nel film geometrico e stranito di Zobel e'
proprio questa: non tanto l'orrore e' in noi ed e' sempre al lavoro ma la
società più "razionale" che sia mai esistita e' il suo organismo di elezione,
l'ambiente più favorevole alla sua incessante riproduzione.

TheFisherKing

giovedì, novembre 29, 2012

Film in sala dal 29 Novembre 2012



DI NUOVO IN GIOCO
(Trouble with the Curve)
di Robert Lorenz
Drammatico - USA 2012 - Warner Bros - 111"

Amy Adams, Clint Eastwood, Justin Timberlake, John Goodman

















 


LAWLESS
di John Hillcoat
Drammatico - USA 2012 - Koch Media - 115"

Tom Hardy, Guy Pearce, Gary Oldman, Shia LaBeouf
Jessica Chastain, Mia Wasikowska


















 


E SE VIVESSIMO TUTTI INSIEME?
(Et si on vivait tous ensemble?)
di Stéphane Robelin
Commedia - Francia/Germania 2012 - Parthénos - 96"
Guy Bedos, Daniel Brühl, Geraldine Chaplin
Jane Fonda,Claude Rich, Pierre Richard

















 

CI VEDIAMO A CASA
di Maurizio Ponzi
Commedia - ITA 2011 - Microcinema - 108"
Ambra Angiolini, Edoardo Leo, Antonello Fassari, Myriam Catania, Giulio Forges Davanzati
Isabelle Adriani, Nicolas Vaporidis, Primo Reggiani, Giuliana De Sio
















 




COSIMO E NICOLE
di Francesco Amato
Drammatico - ITA 2012 - Bolero Film - 101"
Riccardo Scamarcio, Clara Ponsot, Paolo Sassanelli
Andrea Bruschi, Angela Baraldi, Souleymane Sow















 

ITAKER
di Toni Trupia
Drammatico - Italia/Rom/Fra 2012 - Istituto Luce Cinecittà - 98"
Filippo Timi, Francesco Scianna, Monica Barladeanu, Michele Placido, Angela Dematté


















 


L'AMORE E' IMPERFETTO
di Francesca Muci
Drammatico - ITA 2012 - 01 Distribution - 92"
Anna Foglietta, Bruno Wolkowitch, Giulio Berruti, Camilla Filippi, Lorena Cacciatore


















 



LE 5 LEGGENDE
(Rise of the Guardians)
di Peter Ramsey, William Joyce
Animazione - USA 2012 - Universal Pictures - 97"




















 



UNA FAMIGLIA PERFETTA
di Paolo Genovese
Commedia - Italia/Rom/Fra 2012 - Medusa - 120"
Sergio Castellitto, Marco Giallini, Cluadia Gerini
Micaela Ramazzotti, Carolina Crescentini
Eugenio Franceschini, Ilaria Occhini, Francesca Neri

mercoledì, novembre 28, 2012

Call GIrl

30 Torino Film Festival
Torino 30
di Mikael Marciman 

 
 Tutto il mondo è paese, ed anche un festival come quello di Torino notoriamente allergico alle sirene delle moda si è lasciato ingolosire dal potenziale mediatico di un film come “Call Girl” che, raccontando la corruzione morale della classe politica svedese coinvolta nella metà degli anni 70 in uno scandalo a luci rosse, con prostitute minorenni in primo piano, finisce per ritornare sul luogo del delitto per gli inevitabili rimandi alla cronaca nazionale. Analogie che non riguardano solamente un contesto caratterizzato dal ricorso continuo allo stordimento sessuale dei festini con ragazze chiamate a partecipare come oggetti di consumo – sottolineato dalle telefonate indirizzate alla maitresse pronta a soddisfare le richieste dei clienti a proposito dei requisiti fisiognomici delle ragazze – ma anche un momento politico, allora come oggi piu’ che immiserito dai vizi privati e dalle pubbliche virtù di ministri dalla doppia morale, in televisione pronti ad affermare la necessità del “repulisti” ma di nascosto pronti ad avallare con il loro comportamento l’esatto contrario. Nella storia raccontata dall’esordiente Mikael Marciman lo sfondo storico, con le rincorse ad un elettorato da conquistare a suon di proclami (siamo in piena corsa elettorale) serve più che altro da contrappunto per raccontare un vissuto meno glamour, con la vicenda delle due ragazzine disadattate e circuite dall’organizzazione che le farà prostituire, a farla da padrone. Una discesa all’inferno inizialmente focalizzata sugli anelli deboli della catena, le due adolescenti innanzitutto, seguite nelle ragioni che le allontaneranno dalla loro giovinezza, ma anche sulle altre “girls”, riprese di sfuggita ma nel loro insieme in primo piano nel ricreare l’atmosfera di un mondo ripiegato su se stesso ed impermeabile a qualsiasi sollecitazione esterna, e successivamente decentrata sui rappresentanti delle istituzioni e del potere: i politici innanzitutto, anonimi ma letali nel muovere le fila di nascosto, e le forze dell’ordine, chiamate a rappresentare un ordine in parte compromesso. Un doppio filo che il regista segue rifacendosi al cinema americano degli anni 70, da Pakula (“Tutti gli uomini del presidente”) a Pollack ed al Coppola de “La conversazione” (nel ricorso ossessivo e morboso alle registrazioni telefoniche ), ma anche nella fredda precisione della ricostruzione storica a “La talpa” di Tomas Alfredson. Un intento lodevole, soprattutto per la capacità di quei modelli di coniugare spettacolo ed impegno, che però viene meno a causa di una sceneggiatura troppo debole (la forza della new Hollywood nasceva proprio dalla scrittura) sia nello sviluppo dell’intreccio, confusionario quando si tratta di mettere in fila i risultati dell’indagine portata avanti da una sorta di Serpico scandinavo, che in quello dedicato ai rapporti tra i vari protagonisti, risolti con un reiterata proposizione della condizione di odio-amore che le due giovani protagoniste nutrono nei confronti di quel lavoro e nelle conseguenti reazioni dei loro sfruttatori. In questo modo il film finisce per girare a vuoto con ripetizioni che tolgono spazio alla conoscenza degli altri personaggi, uno su tutti quello di Dagmar Glans, tenutaria sulla cui personalità il film fa solo degli accenni che poi non approfondisce. Le musiche d’epoca, i pantaloni a zampa d’elefante ed interpreti funzionali non riescono a compensare la delusione.  

martedì, novembre 27, 2012

Siegel/Eastwood: due nel mirino (4)

Al 1979, anno della loro ultima collaborazione - "Fuga da Alcatraz"/"Escape from Alcatraz" (coproduzione Malpaso) - Siegel arriva dopo aver firmato un altro capolavoro noir "Chi ucciderà Charlie Varrick ?"/" Charlie Varrick", 1973, con un memorabile Walter Matthau. Quindi l'amaro, in tutti i sensi (fu l'ultimo film per John Wayne), "Il pistolero"/"The shootist", 1976 e una movimentata spy-story con Charles Bronson, "Telefon"/id., 1977. Mentre Eastwood, dopo avere esordito alla regia nel 1971 con "Brivido nella notte"/"Play Misty for me", in cui aveva regalato un piccolo cameo proprio a Siegel,
aveva portato a termine lavori di un certo peso che andavano consolidando la sua fama anche nell'ambito registico: "Lo straniero senza nome"/"High plains drifter", 1973, recitazione e regia; "Una calibro 20 per lo specialista"/"Thunderbolt and Lightfoot", 1974, di M. Cimino; "Il texano..."/"The outlaw Josey Wales", 1976, recitazione e regia e "L'uomo nel mirino"/"The gauntlet", 1977, recitazione e regia. "Fuga da Alcatraz" e' centrato sulla figura di Frank Morris/Eastwood, uomo dal solido passato criminale, noto alle autorità per aver portato a compimento diverse evasioni, "ricompensato", per così dire, con un
trasferimento alla prigione di massima sicurezza di Alcatraz (un'isoletta
accidentata nella baia di San Francisco), detta "The Rock", all'interno della quale, appena giunto, dopo essere stato "normalizzato" (denudato e visitato) e ridotto a numero da una delle innumerevoli procedure standard, quella dell'immatricolazione (l'altra, ossessionante, e' la "conta" ripetuta più volte al giorno), la prima cosa che si sente dire e', più o meno: "Da qui e'
impossibile fuggire". Morris non risponde e nell'imminenza di lasciare
l'ufficio del direttore Warden, autore del suddetto monito/minaccia (un
maligno Patrick Mc Goohan, attore inglese divenuto celebre per la serie televisiva
"Il prigioniero", 1967), sottrae, non visto, uno dei suoi tagliaunghie a lato
della scrivania. Evidentemente lui non e' dello stesso avviso.


Tratto dal romanzo di J. Campbell Bruce "Escape from Alcatraz: farewell to the Rock" e
sceneggiato da Richard Tuggle - che successivamente (1984) scriverà e dirigerà (Eastwood
attore) "Corda tesa" - l'opera che ricostruisce l'autentico tentativo di fuga (riuscito) del giugno del '62 che condusse alla chiusura del penitenziario,
rappresenta una lettura estrema e per certi versi una sintesi del "filone carcerario", pur fatti salvi tutti i suoi luoghi (il cortile, le docce, la biblioteca, la mensa, i laboratori), così come i suoi cliché (la divisione
per gruppi etnici; le gerarchie, con in testa il direttore spietato; i tipi
umani: il violento, l'inerme, il depresso et.). Reitera, inoltre, la scommessa di
Siegel di tratteggiare il carattere e lo spirito di un uomo "contro" - contro
il Sistema ma pure contro la rassegnazione e la spersonalizzazione che
un'istituzione particolare come quella del carcere finisce (molti dicono
scientemente) per infondere/imporre - nonché si distingue come uno dei suoi
più felici tentativi di coniugare la logica e la linearità del racconto con
l'asciuttezza spinta sin quasi all'astrazione della messa in scena. Si
vedano, ad esemplificazione di quanto detto, i primi dieci minuti di pellicola: buio,
vento, pioggia, facce dure e scavate. E lampi di luce, una sirena, il rumore
dei passi, lo sbattere dei cancelli. Una, due frasi. Campi lunghi e bruschi
primi piani. Nient'altro. Puro Siegel. Perché e' proprio questo che colpisce
del film e lo rende ancor oggi attuale: tutti i pochi - e prevedibili -
avvenimenti che si svolgono nella prigione (angherie e risse comprese) sono
di qui in poi mostrati con inquadrature rapide ma fluide o con stacchi frequenti
ma consequenziali, grazie anche ad un Eastwood perfettamente controllato nel
suo aplomb "granitico", come se avvenissero nella testa del detenuto Morris.
Come se, cioè, tutti i gesti, i movimenti, i dettagli, fossero utili per
essere catalogati e immagazzinati allo scopo di andarsi a collocare sulla scacchiera
che lui ha intenzione di allestire in vista dello "scacco matto" futuro. Per
tale motivo - se e' vero che e' di una partita a scacchi che stiamo parlando
e una partita a scacchi abbisogna innanzitutto di tempo - almeno tutta la prima
parte del film segue i progressi, le incertezze e i passi indietro del
"gioco" di Morris con una - sembrerebbe - insolita "lentezza" per Siegel, se essa non
fosse magistralmente funzionale al rigore geometrico della storia e
all'efficacia della struttura visiva, merito enorme della quale, ancora una
volta, va ascritto a Bruce Surtees, capace di giocare con la luce e di
distribuirla densa, corposa e allo stesso tempo nitidissima nei toni bruniti
e nelle gradazioni dell'azzurro. Secca e quasi tagliente nelle scene
all'aperto. Spessa, opprimente nei corridoi, nelle celle, nell'ufficio del direttore. In
equilibrio tra i due estremi nei laboratori, nelle docce, nella mensa. I tre
e passa anni impiegati da Morris/Eastwood e gli altri due galeotti (i fratelli
Anglin, interpretati da Jack Thibeau e Fred Ward) che decidono di
spalleggiarlo per arrischiare la mossa decisiva, scorrono davanti ai nostri occhi come un
lungo e accurato "ragionamento", come uno sforzo di concentrazione razionale
e una prova di fermezza di volontà (in antitesi anche allo svuotamento dal di
dentro della non-vita carceraria) che, nella ricercata economia di parole e
di gesti, si dimostrerà più solido della pietra della prigione, svelandone oltre
la sostanziale disumanità, la futile inadeguatezza, ossia l'inutilità senza
appello. Così, una volta che la "strategia di gioco" e' decisa, passare
all'azione e' questione di metodo e di riflessi, cosa che non richiede molto
tempo, anzi pretende rapidità e precisione. Coerentemente, Siegel, descrive
la fuga vera e propria di Morris e gli altri durante una delle tante notti
sempre uguali per chi e' recluso, in pochi minuti, con discrete e semplici riprese.
I tre, sistemati i manichini sulle brande, si avviano per cunicoli interni
guadagnati sbriciolando giorno dopo giorno i muri marci con attrezzi di
fortuna: superano un'inferriata che apre la via al soffitto, si calano,
scavalcano due recinzioni, gonfiano un improvvisato canotto, indossano
incerate impermeabili e nuotando spariscono nel buio. Poche inquadrature in tutto.
Fine. Morris sopravviverà ? Non lo sappiamo. Il film non lo dice. Ma non e' questo
il punto. Egli ha comunque vinto perché nei fatti più coriaceo, più "razionale"
dell'Autorita', dell'Istituzione (entità entrambe ritenute "razionali" per
definizione). Il fiore bianco trasportato dalla risacca ai piedi di un
frustrato direttore messosi personalmente a dirigere le ricerche nella baia,
e' il simbolo delicato e beffardo che Siegel indica a noi spettatori per dire -
apertura singolare in un cinema inquieto, impastato da sempre di pessimismo -
che all'uomo, a patto di non arrendersi, di rimanere lucido, non e' per forza
preclusa un'alternativa, una "liberazione".
di TheFisherKing

domenica, novembre 25, 2012

Il sospetto

Il sospetto
di Thomas Vinterberg
con Mads Mikkelsen
Dan 2012

Il cinema danese è alla ricerca di se stesso. Dopo la sbornia suscitata dal clamore per il movimento “dogmatico” che in definitiva ha dato ragione a chi tra righe vi leggeva l’ennesimo sberleffo del suo ideatore, l’unico che in fin dei conti ne ha tratto concreto vantaggio,  la cinematografia di quel paese sta ora pagando la diaspora seguita alla chiusura di quel ciclo. Una delle conseguenze più evidenti è lo sguardo erratico ed incerto di registi come Thomas Vinterberg, come altri ancora alle prese con un processo di emancipazione lungo e difficile, emblematico di opere come “Il sospetto”, appena uscito nelle sale italiane dopo il discreto successo all’ultimo festival di Cannes. Per la sua ultima fatica Vinterberg si affida nuovamente a temi e situazioni che ripropongono attraverso una storia di presunta pedofilia il ritratto di una società fintamente progressista ed incapace di guardarsi allo specchio per paura di scoprirsi, repressa ed anche bigotta. Il motore della vicenda sono le parole malferme e casuali pronunciate da una bambina dell’asilo nei confronti di Lucas, insegnante appena divorziato e padre di un adolescente che la ex moglie non gli lascia vedere, improvvisamente licenziato  dalla scuola con l’accusa di aver molestato la sua alunna. Abbandonato dagli amici ed in attesa di conoscere gli esiti dell’indagine, Lucas è perseguitato dai concittadini che ne scoraggiano qualsiasi partecipazione alla vita comunitaria. Che Vinterberg  sia poco interessato al tema della pedofilia appare chiaro fin dalle prime battute quando i risvolti morbosi della vicenda sono messi sullo sfondo per lasciare spazio alle dinamiche relazionali che si sviluppano a partire da quell’evento.  In questo senso il film disegna uno spaccato da caccia alle streghe, con amici e colleghi incapaci di far valere le ragioni del cuore e pronti a condannare Marcus prima del tempo e sulla base di luoghi comuni come testimonia la frase che la preside gli rivolge: – “I bambini non dicono mai bugie” -  prima di congedarlo dal posto di lavoro. Un atteggiamento di superficialità, questo, che finisce per coinvolgere anche il film nella sua struttura, caratterizzata da un accumulo di situazioni da via crucis, con il calvario di Marcus portato avanti attraverso le varie stazioni del dolore piuttosto che nell’approfondimento psicologico di un carattere completamente definito nella sua funzione cristologica ma trascurato quando si tratta di dare conto – soprattutto nella parte finale -  dei suoi rari scarti emotivi . Una mancanza che non ha un solo colpevole ma a cui concorre anche un meccanismo narrativo privo di sfumature per il fatto di mostrare fin da subito l’infondatezza di quelle accuse. Così, se in un opera come “Festen” la drammaturgia era costruità sulla continua sospensione della verità, favorita da un intreccio che procedeva come un thriller esistenziale, ne “Il sospetto” tutto questo è sostituito da un surplus di esteriorità enfatizzata ed anche sanguinolenta, come dimostra la scena del pestaggio al supermercato, dove all’esposizione della figura ferita subentra a tempo scaduto il commento delle persone che la incrociano, a ribadire una constatazione che lo spettatore conosce ampiamente per averla vista con ogni dovizia di particolari. Debolezze di una sceneggiatura che lascia aperte molte cose, ne dimentica altre per strada (per esempio l’indagine) e non riesce a creare alternative dialettiche – i personaggi di contorno sono appena accennati – alla centralità del personaggio principale. Mads Mikklsen nei panni di Marcus ha vinto il premio come miglior attore protagonista all’ultima edizione del festival di Cannes.

sabato, novembre 24, 2012

Marfa Girl

Marfa Girl
di Larry Clark
con Adam Mediano, Kaylan Burnette

Una studentessa passa il tempo ad accoppiarsi con coetanei messicani che la possiedono con amplessi poderosi. Un ragazzino in attesa della prima volta con la ragazza che ama fa le prove generali con la sorella del suo amico. La polizia di frontiera lontana dal confine impiega il tempo ad insidiare le ragazze ed a molestare i cittadini. Questo per sommi capi è ciò che succede a Marfa, cittadina texana famosa per aver ospitato il set de “Il gigante”, ed ora tornata alle cronache grazie a Larry Clark che vi ha ambientato “Marfa Girl” il film con il quale si è aggiudicato la settima edizione del festival di Roma. Una scelta, che ribalta le caratteristiche produttive del kolossal hollywoodiano all’insegna di un minimalismo che non riguarda solo un budget ridotto all’essenziale, ma anche la storia, ispirata dal nulla esistenziale di cui Marfa si fa promotrice con la rarefazione di un paesaggio che è terra di confine con lo stato messicano. Una collocazione geografica che è la metafora di un sogno americano ormai svanito, ed alla quale Clarksi appoggia per aumentare il senso di sconfitta e di straniamento messo in campo dalla macchina da presa. Il regista è bravo a rappresentarle attraverso attori, tutti o quasi rigorosamente non professionisti, chiamati a mischiare la finzione del film alle loro esperienze personali. Se il risultato è garantito sotto il profilo della spontaneità e dell’impatto emotivo, lo stesso non si può dire dal punto di vista narrativo che appare frammentario e disunito per l’incapacità di far convivere le istanze realistiche con la necessità di dare al racconto una forma organica. In questo modo la storia arriva al suo tragico finale, reiterando  disfunzioni familiari che sono il detonatore di pulsioni ora malate, nella figura del poliziotto psicotatico, ora salvifiche, quando riguardano il sesso, un momento che nella concezione del regista americano è sempre il terminale attorno a cui ruotano gli avvenimenti dei suoi film. Tornato al cinema dopo lunga assenza, Larry Clark cambia poco o nulla, continuando a mostrare una fenomenologia della gioventù divisa tra passività e fornicazione. Un’ oscillazione che la mdp privilegia soffermandosi su modelli di  umanità efebica ed ambigua. Senza lo scandalo delle prime opere ma anche di "Ken Park", il cinema di Clark sembra ancora più inerte, ravvivato solo dalla bellezza del corpo e dallo sguardo sull’ambiente, con il cielo a capofitto sulla terra, ed i binari ferroviari a suggerire una voglia di fuga che rimane interdetta dall’onnipresenza del cimitero e delle sue croci, simbolo di un'esistenza destinata a consumarsi nell'inedia di quel luogo.  Clark fa di tutto per riprendere la vita così come viene, ma nel far questo si perde troppo spesso in una contemplazione che non porta da nessuna parte.

venerdì, novembre 23, 2012

Alì ha gli occhi azzurri

Alì ha gli occhi azzurri
di Claudio Giovannessi
con Nader Sarhan

Messo all'angolo da una crisi che ne ha ridotto le possibilità d'applicazione, il cinema d'autore in Italia prova a reagire mettendo in campo una piccola rivoluzione che coinvolge non solo gli aspetti produttivi, finalmente propensi ad esplorare nuove forme di distribuzione e visibilità (il web innanzitutto, con i primi casi di cinema fruibile quasi o esclusivamente online) ma anche, ed è ciò che ci interessa, quelli metodologici, con la tendenza a riformulare i territori della sua indagine. Sul piano pratico questa ricerca si è tradotta, nella stagione in corso, in uno spostamento dello sguardo che ha portato al centro della scena ciò che normalmente è relegato ai margini. Dall'inconscio collettivo ed individuale messo in campo da opere importanti come "Reality e "Bella Addormentata" o fortemente discusse, quali sono state quelle di Pappi Corsicato e Paolo Franchi appena presentate al festival di Roma, a forme di socialità dimenticate o rimosse come quelle derivate dai luoghi di detenzione, protagonisti assoluti tanto nel cinema di finzione (Cesare non deve morire, 2012) che in quello documentario. Una ricognizione che è riuscita a far parlare la nostra solitudine nella fatiscenza di una fabbrica dismessa ("L'intervallo", 2012) e nell'oscurità sotterranea di una cantina adibita a ripostiglio ("Io e te", 2012). Spazi intesi in senso fisico e figurato su cui il cinema italiano si imbatte e che, in piena controtendenza rispetto all'inerzia del temperamento nazionale, ricerca, superando limiti geografici e stereotipi di lunga data.

Ed è sulla scia di un new deal cinematografico che sostituisce la riconoscibilità della periferia romana con la topografia più selvaggia e meno sfruttata di Ostia, che Claudio Giovannesi racconta la storia di Nader, adolescente italiano di genitori egiziani, e della sua emancipazione dalle tradizioni più conservative della cultura islamica. Una ribellione vissuta sul filo del rasoio e di una legalità interrotta da una rissa in discoteca, in cui Nader accoltella un coetaneo romeno. Nel tentativo di evitare la vendetta dei parenti della vittima, il ragazzo sarà aiutato da Stefano, compagno di scorribande ed amico fraterno.

Deciso a definire sin dal titolo una vicenda che parla di integrazione - ed il particolare delle lenti a contatto azzurre utilizzate da Nader per corrispondere alla fisiognomica occidentale sono il segno tangibile di questa volontà - Giovannesi costruisce la trama del film contrapponendo le spinte centrifughe del suo protagonista, costantemente rivolto a quel mondo che vuole conquistare, all'istinto di conservazione di una cultura apparentemente rifiutata ma sostenuta quando arriva il momento delle scelte decisive. Così se "Alì ha gli occhi azzurri" si sofferma maggiormente sulla determinazione con cui Nader disobbediendo al dictat dei genitori porta avanti il fidanzamento con una ragazza italiana, è costante nel corso degli avvenimenti il riferimento agli insegnamenti religiosi, messi in mezzo quando si tratta di impedire alla sorella di frequentare Stefano con le regole da lui stesso rifiutate scappando da casa, e dormendo dove capita. Un dualismo che Giovannesi riesce a rendere per immagini, lavorando sul corpo degli attori, con sequenze esemplari come quella di Nader, Stefano e di suo padre contemporaneamente impegnati a radersi la barba rubandosi lo spazio uno con l'atro. All'interno di un ambiente ridottissimo, con le figure riprese di fianco e schiacciate uno sull'altro dall'ottica della telecamera, la natura di Nader, desideroso di amalgamarsi al tessuto sociale ed allo stesso tempo di liberarsene, non potrebbe essere espressa in maniera migliore E poi concentrandosi su ciò che sta fuori, a cominciare dal paesaggio urbano e naturale che alla pari di un diaframma si apre e si chiude sui personaggi incastrandoli in un meccanismo precario, che traduce nella sua alternanza gli sbalzi di umore di un cinema che mischia il determinismo sociale dei fratelli Dardenne all'epica da romanzo di formazione di certo cinema americano (viene in mente "Guida per riconoscere i tuoi Santi", 2006). Giovannesi non sacrifica i contenuti alla fruibilità, ed alla pari di "Razzabastarda"di cui condivide il medesimo team produttivo avalla l'idea di una realtà in cui italiani e stranieri sono destinati ad incontrarsi ed a convivere, come piega la sequenza in cui a partire dai volti di Nader e Stefano lo schermo si allarga sull'istituto scolastico pieno di volti provenienti da altre latitudini. Se "Ali ha gli occhi azzurri" non fa nessuna scoperta sconvolgente, perché in fondo la necessità dei genitori di Sader di preservare la propria identità chiudendosi a qualsiasi ingerenza esterna rientra nella normalità, ed il comportamenti anche violenti del protagonista sono assimilabili a quelli di chiunque sia obbligato a cavarsela da solo, il pregio del film è di far sentire vero ciò che mostra, e di riuscire a raccontare la complessità senza appesantire la visione. Selezionato nel concorso internazionale del festival di Roma il film ha vinto il premio speciale della giuria.
(pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, novembre 22, 2012

Venuto al mondo

Venuto al mondo
di Sergio Castellitto
con Penelope Cruz, Emile Hirsh

Sergio Castellitto è un regista a cui piace lavorare con gli attori. Potrebbe sembrare un'affermazione scontata per i trascorsi del regista ancora attivo di fronte alla telecamera, ma lo diventa un pò meno se andiamo a vedere la qualità della sua regia. E' da li infatti che bisogna partire per provare a capire per quale motivo il regista non riesca a fornire una sponda alla storia ed ai suoi interpreti, con una direzione banalizzata da immagini che invece di far volare le emozioni fornite dalla pagina scritta le bloccano con inquadrature scolastiche, incapaci di evocare il mondo interiore che si agita nel cuore di Emma e Diego. Un trionfo della prima impressione, di quello che inizia e finisce nell'attimo in cui lo guardiamo, dell'allestimento scenografico, del trucco e dei costumi che trova il suo contraltare nella dedizione che invece Castellitto usa nei confronti degli attori, coccolati dalla telecamera che non perde occasione per offrire loro il palcoscenico per la battuta indimenticabile. C'è come una deferenza nel suo sguardo, in quel girare intorno all'ennesima scena madre, che rende "Venuto al mondo" un feulletton simile a certi romanzoni cinematografici che le famiglie andavano a vedere nei giorni di festa. E se proprio si voleva stare dalle parti di un cinema esclusivamente popolare il libro della Margaret Mazzantini da cui il film è tratto offriva a Castellitto la possibilità di farlo fino in fondo per il potenziale melodrammatico ed evocativo fornito dallo sfondo e dagli eventi delle guerre balcaniche. Ed invece, un pò per i limiti che il cinema dimostra ogni volta che si confronta con la pagina scritta, un pò per la necessità di semplificare un testo che aveva caratteristiche da grande kolossal e quindi di un costo realizzativo da cinema mainstream, Castellitto taglia e cuce, riducendo al massimo gli inserti bellici e puntando esclusivamente sul pathos e sul carisma di due divi come Penelope Cruz e Emile Hirsh. Nonostante questo rimangono nel film le tracce di un racconto che parla di amore e di sacrificio in un ottica che fonde in un unico afflato  la vicenda privata di Emma e Diego, che trovano nella Sarajevo assediata da bombe e cecchini l'opportunità di avere quel figlio che la natura gli aveva definitivamente negato, al dramma degli uomini e delle donne che di quei fatti furono vittma. E poi la suggestione del corto circuito che confonde l'arte con la vita nel gesto altrettanto amoroso con cui il regista filma il suo primogenito, qui impegnato nel ruolo di Pietro il figlio dei due protagonisti. "Venuto al mondo" poteva essere un film migliore, ma resta comunque onestamente ancorato alla passione di chi l'ha portato sullo schermo.

mercoledì, novembre 21, 2012

Film in sala dal 22 novembre 2012



END OF WATCH - Tolleranza Zero
(End of Watch)
di David Ayer
Drammatico - USA 2012 - VIDEA-CDE - 109"
Jake Gyllenhaal, Michael Peña, Anna Kendrick, Cody Horn
America Ferrera, Frank Grillo, Natalie Martinez















IL SOSPETTO
(Jagten)
di Thomas Vinterberg
Drammatico - Danimarca 2012 - BIM - 106"
Mads Mikkelsen, Annika Weddewrkopp
Alexandra Rapaport, Thomas Bo Larsen














VASCO LIVE KOM 011 - L'indimentacabile concerto di S.Siro
Doc Musicale - ITA 2012 - 126"
solo il 22 e 23 novembre














 

E LA CHIAMANO ESTATE
di Paolo Franchi
Drammatico - ITA 2012 - Officine Ubu - 97"
Isabella Ferrari, Jean-Marc Barr, Luca Argentero
Filippo Nigro, Eva Riccobono, Anita Kravos












 

HUNGARIAN RAPSODY: Queen Live in Budapest
di Janos Zsombolyai
Doc Musicale - USA 2012 - Microcinema - 109"


















ONE LIFE
di Martha Holmes, Michael Gunton
Doc - GB 2012 - BBB Earth Films - 85"
















DRACULA 3D
di Dario Argento
Horror - ITA/SPA 2012 - Bolero Film - 106"
Rutger Hauer, Asia Argento, Thomas Kretschmann, Marta Gastini












IL PEGGIOR NATALE DELLA MIA VITA
di Alessandro Genovesi
Commedia - ITA 2012 - Warner Bros - 109"
Fabio De Luigi, Cristiana Capotondi, Antonio Catania, Anna Bonaiuto
Diego Abatantuono, Laura Chiatti, Dino Abbrescia














PARANORMAL ACTIVITY 4
di Henry Joost, Ariel Schulman
Horror - USA 2012 - Universal Pictures - 95"
Katie Featherston, Dianna Agron, Kathryn Newton
Matt Shively, Brady Allen














UN MOSTRO A PARIGI
(Un mostre à Paris)
di Eric "Bibo" Bergeron
Animazione - FRA 2011 - Sunshine Pictures - 82"









martedì, novembre 20, 2012

Siegel/Eastwood: due nel mirino (3)

Come detto, il 1971 fu anche l'anno de "Ispettore Callaghan: il caso Scorpio e' tuo"/"Dirty Harry" (coproduzione Malpaso). Siegel, dopo il fresco buco
nell'acqua de "La notte brava del soldato Jonathan", mette in piedi un'operazione che in un colpo solo riesce nell'impresa di coinvolgere ancora
Eastwood, far saltare il banco del box-office e scatenare una grandinata di polemiche che, tra l'altro, genera nel tempo una corposa letteratura a base
di interventi, non solo critici, che oscillano tra l'entusiasmo (non molto, in verità), la vera e propria ripulsa e la polemica veemente. Liberamente
ispirato ad autentici fatti di cronaca - una serie di efferati crimini perpetrati da un misterioso soggetto, di fatto restato impunito, nella San Francisco degli
anni '70 - poi ripresi e approfonditi in "Zodiac" di D. Fincher (2007), il film vede al centro della vicenda l'ispettore del titolo interpretato da Eastwood, per
tutti, sbirri e mascalzoni, "Harry la carogna" ("dirty Harry", appunto), tipo
laconico e brutale, poliziotto integerrimo, allergico alle mezze misure e
alle lentezze e storture burocratiche. All'apparire sulla scena di un assassino
disturbato che si fa chiamare Scorpio e che oltre a mettere in atto i suoi
propositi omicidi ricatta le istituzioni con intimidazioni deliranti, sebbene
restie, le autorità affidano/scaricano il caso a/su Calla(g)han che lo
condurrà a termine a modo suo. Forse la prima cosa da chiedersi e' proprio chi e'
Harry "la carogna". Un eroe frainteso ? L'ennesimo funzionario dello Stato
ipocritamente delegato a tutelare i diritti/pretese della proverbiale
"maggioranza silenziosa" ? Il prodotto di una società malata, solo per caso
dalla parte "giusta" della barricata ? Un mastino ben addestrato
sciolto/sfuggito al guinzaglio del Sistema ? Un'imprevedibile aberrazione ? A
giudicare dai commenti liquidatori e irridenti di tanta parte della critica
non solo cinematografica americana, europea ma pure italiana, ed escludendo la
possibilità di una visione superficiale o distratta dell'opera, ciò che
colpisce e' che, alla fin fine, da un lato del tavolo resta la componente
pregiudiziale, dall'altro, quella ideologica. E basta. Calla(g)han e' infatti
apostrofato secondo un nutrito ventaglio di epiteti quasi sempre pero' sul
crinale denigratorio che ben poco lascia all'analisi, meno che meno
all'immaginazione: "reazionario", "retrivo", "criptofascista", "fascista",
"nichilista" e via così... In realtà - sempre retrospettivamente parlando,
s'intende, riconoscendo cioè comunque un grano di buona fede alle affermazioni
fatte e scritte "a caldo"- di primo acchito, guardando Calla(g)han, a dire
guardando come e' vestito, come si muove, come interagisce con chi gli sta di
fronte e in generale col mondo, il primo pensiero che sale alla mente e' di
trovarsi al cospetto di una versione invecchiata ("male", si potrebbe dire),
di certo più stanca e disillusa del Coogan de "L'uomo dalla cravatta di cuoio".
Quanto Coogan rivestiva la sua baldanza, la sua vigoria fisica, la sua
"fierezza" di provinciale estraneo alle pastoie e alle complicazioni anche
psicologiche della metropoli per eccellenza, New York, di un atteggiamento
risoluto ma permeato di una certa spontanea sfrontatezza, quindi di una sorta
di ingenuità, di naturalezza avvolta nell'impertinenza e nella faccia tosta,
Calla(g)han e' un uomo del tutto chiuso in se stesso, nel senso di rassegnato
a questa chiusura a cui, unica leva di contrasto, oppone l'adesione totale,
"pura" viene da dire, allo svolgimento intransigente del suo lavoro. Se
Coogan non si fa mancare avventure galanti, sfoggia palesi - per quanto misurate -
arie da don giovanni, Calla(g)han, non solo non ha una donna (l'unica, la
moglie, che non a caso sta fuori dal film, gliel'ha strappata il destino nei
panni di un rapinatore che la manda fuori strada), non ha una famiglia, non ha
amici, non ha effetti di alcun genere. Di più: non ha letteralmente un posto dove andare
che non sia l'itinerario giornaliero segnato dalle tracce, dagli indizi, che il
suo fiuto di poliziotto gli suggerisce di seguire. Dove Coogan, seppure con una
maldestra efficienza, "chiude il caso", Calla(g)han fallisce anche in questo:
intrappolato Scorpio, torturatolo allo scopo di farsi confessare il recesso
dove ha nascosto una ragazzina presa in ostaggio, non ottiene nulla. Anzi, il
suo gesto, si rivelerà doppiamente controproducente, allorché la ragazzina
verra' ritrovata cadavere e Scorpio, appellandosi ai maltrattamenti subiti,
otterrà di essere rimesso in libertà. Solo dopo che il killer si sarà
impossessato di uno scuolabus, Calla(g)han, ormai osteggiato da tutti,
"finirà"il suo lavoro. Ma a quel punto non resta che buttare via il distintivo e
sparire. In altre parole, si fa forte il sospetto che Siegel, tutto sommato,
abbia ancora proposto una variazione al classico personaggio misterioso,
solitario, senza apparente passato, del western (molto si e' parlato delle
attinenze col "Cavaliere della valle solitaria" di Stevens): un quasi
asessuato strano tipo di eroe votato/condannato all'insindacabilità della propria
missione; al supporto magari sofferto ma netto al Sistema e alle leggi che
quello si e' dato; al sacrificio per il mantenimento di un "ordine", vago,
generico, forse sbagliato, visto pero' - a torto o a ragione - come unico
baluardo alle forze del Caos. Elemento a supporto di queste tesi e' la
scansione sotterranea del film secondo la logica di un altro archetipo
western:la caccia, meglio ancora se impostata sul parametro uno-contro-uno. Calla(g)
han insegue Scorpio che di lui si fa beffa e fugge per essere ancora braccato
fino alla resa dei conti finale - consolatoria magari per chi guarda - ma
rivelatrice per Calla(g)han della sostanziale inutilità non della specifica
azione, quanto del suo ruolo all'interno del meccanismo di quella società che
ha deciso - seppur da par suo - di servire. Più in generale, l'interesse, se
non un autentico grumo di fascinazione per un personaggio come quello di Calla
(g)han, può scaturire oltreché dalla constatazione della sua totale, siderale
solitudine di individuo perso dentro un mondo imperscrutabile e sordo -
aspetto che, al di la' di ogni posizione, dovrebbe far venire il sudore freddo al
famoso "spettatore-medio-dalla-sensibilità-media" -, che lo rende magari non
emendabile dal punto di vista morale, di certo gli preclude la possibilità di
essere portato ad esempio ma altrettanto di sicuro gli conferisce una sua
statura tragica, dall'enorme contraddizione che separa le sue intenzioni dal
passaggio ai fatti: potente e' la sensazione, appunto - e di questo va dato
merito alla padronanza e alla chiarezza di intenti di Siegel - che quanto più
Calla(g)han spinga sul crinale della forza, irrigidisca e radicalizzi il suo
comportamento, tanto meno ottiene in termini pragmatici di "riuscita", di
"missione compiuta": come detto, la ragazza presa in ostaggio viene ritrovata
morta; Scorpio viene presto rilasciato; in seguito escogita pure un finto
pestaggio per far ricadere la responsabilità e il discredito sulla Polizia.
Addirittura, non e' esagerato ritenere che, in fondo, la risoluzione della
storia e' gestita e "voluta" da Scorpio stesso, dalla sua scarsa accortezza,
dettata - perché no - da un eccesso di volontà di potenza, quanto non lo sia
invece dalla strategia investigativa di Calla(g)han. A tale riguardo, si
salda l'annoso e con ogni probabilità irresolubile argomento circa l'"estetica
della violenza". Non dimenticando che in quello stesso anno, 1971, a distanza di
pochi mesi, sarebbero piombati sugli schermi - e' il caso di dirlo - "Il
braccio violento della legge" di Friedkin e "Cane di paglia" di Pechinpah,
cercando di rimanere ai fatti, forse e' più corretto parlare di "Dirty Harry"
più come un film immerso in un clima psicologico e umano violento che di
un'opera animata dall'intenzione di fare l'apologia della violenza. Siegel,
regista abituato a fronteggiare un aspetto così spinoso, mai ha negato la
durezza dell'agire del "suo" poliziotto (anche J. Milius, collaboratore alla
sceneggiatura, ha confermato l'idea di tratteggiare con toni marcati,
"tough", l'atteggiamento di Calla(g)han). Sempre pero' ha sottolineato, a parte
l'importanza della resa spettacolare della trama, la sua capacita di
coinvolgere lo spettatore, l'assenza di qualunque alibi o giustificazione di
carattere etico, sociologico, tantomeno politico, alle peripezie del
protagonista. Stando ai fatti, allora, c'è da dire che in "Dirty Harry" le
scene violente esplicite sono in verità limitate, brevi, girate sempre in
maniera rapida, neutra, senza concessione al compiacimento o al sadismo.
Anzi, più di una volta, si percepisce che il ricorso alla violenza di Calla(g)han -
e quasi lo stesso vale, ad istanze rovesciate, per Scorpio, chiaro emblema
della follia e del Male - sia la materializzazione della sua impotenza reale e
metaforica nei confronti di un orrore quotidiano oramai padrone della scena,
che di violenza si nutre e che per di più su di lui - simbolo della Legge e
dell'Ordine - la ritorce (anche se in termini di dileggio, di disistima, di
disprezzo), a sancire la totale quanto beffarda supremazia del Caos e, per
contrasto, il carattere illusorio se non menzognero di qualunque ipotesi di
"Armonia". Non per nulla, nella famosa-famigerata scena della "tortura"
dentro lo stadio, e' un'unica esemplare ripresa dall'alto che allontanandosi
lentamente dai due contendenti, finisce con l'avvolgerli nella pasta informe
di una stessa tenebra che promette di diventare per loro una nera eternità, a
sottolineare una perversa e scomoda affinità tra "cacciatore" e "preda", ben
oltre i mezzi messi in campo per annullarsi vicendevolmente. Stilisticamente
complesso, montato con meticolosità, fotografato ancora da Surtees e musicato
ancora da Schifrin, "Dirty Harry" e' un film oscuro e ambiguo (si apre con
un'inquadratura dedicata ai poliziotti morti in servizio), eppure
magnificamente teso, di gran ritmo. Univoco e persino sbrigativo in alcune
soluzioni ma raffinatissimo in altre: ad esempio, le fluide e geometriche
sequenze aeree sopra l'area urbana di San Francisco, più vicine al
documentario sperimentale che al noir classico; o l'alternanza imprevista e spiazzante di
primi piani del killer con svelte immagini di Calla(g)han che lo incalza.
Altro valore aggiunto, le interpretazioni degli attori: sicura e convincentenella
sua programmatica (quanto apparente) imperturbabilità, quella di Eastwood;
sorprendente quella di Andy Robinson (attore di formazione teatrale) nei
panni scomodi di Scorpio, chiamato spesso da Siegel ad improvvisare per conferire
più ampie sfumature alla follia forsennata rotta da improvvisi squarci di
contorta lucidità del suo personaggio.

di TheFisherKing

La sposa promessa

La sposa promessa
di Rama Burshstein
con Hadas Yaron
Israele 2012

Il cinema si era già occupato della comunità ebraico ortodossa ma lo aveva fatto con uno sguardo critico volto ad evidenziarne le disfunzioni (“Kadosh”, 1999 di Amos Gitai) oppure come sfondo per raccontare storie di genere (“Un’estranea fra di noi”, 1992 del compianto Sidney Lumet). Sguardi tutto sommato esterni ad un panorama di valori e tradizioni refrattario a qualsiasi tentativo di osmosi sociale e conoscitiva, e per questo vittima del pregiudizio frutto di scarsa conoscenza. A colmare questa lacuna ci pensa il film di Rama Burshstein, “Fill the void”, arrivato direttamente dal concorso veneziano dove ha ricevuto parecchi consensi e vinto il premio per la miglior interpretazione femminile andato ad Hadas Yaron per il ruolo di Shira, la figlia di una famiglia di religione ebraica ortodossa di Tel Aviv, messa in crisi dalla proposta di matrimonio di Yochay, il marito della sorella improvvisamente scomparsa dopo aver dato alla luce un bambino. Sottolineata da una fotografia che soprattutto negli esterni, rari e delegati a scene di raccordo, è caratterizzata da una luminosità quasi lattea, a sottolineare forse la dimensione di purezza dentro la quale si muove ed agisce la protagonista, “Fill the Void” è soprattutto il racconto di un lutto e della sua metabolizzazione all’interno di un gruppo nel quale come al solito le donne fanno la parte del leone: non solo Shira, appena diciottenne ma già pronta a diventare moglie, ma anche la madre, deus ex machina della famiglia che progetta di farla sposare con Yochay per colmare in qualche modo la perdita della figlia maggiore con la presenza del nipotino altrimenti destinato a seguire il padre in un altro matrimonio, e poi con altre rappresentanti del gentil sesso che partecipano con le rispettive vicissitudini al gineceo immaginato dalla regista. Accanto a loro ma separato per ruolo e funzioni il corrispettivo maschile, detentore del potere religioso ed impegnato a provvedere al sostentamento della famiglia. Tra questi due fuochi si ritrova con mille tormenti e molte responsabilità (la madre arriva a rinfacciargli la propria infelicità quando la ragazza rifiuta la proposta di Yochay) Shira, il cui percorso di consapevolezza diventerà il termometro esistenziale e psicologico dell’intera comunità

Chiamata in causa in prima persona per il fatto di appartenere al medesimo ambiente, la Burshstein sa di cosa parla e lo racconta riuscendo ad integrare, all’opposto di quanto aveva fatto Brillante Mendoza con il suo “Thy Womb”, altro film del concorso veneziano, aspetti antropologici (legati alla rappresentazioni delle liturgie e delle consuetudini) e funzione narrativa. Nel far questo la regista è brava a far sentire quanto spazio abbia nella formazione dei caratteri e delle psicologie, e quindi delle loro scelte, il fervore religioso ed il rispetto delle regole nelle quale sono immersi. La dimensione individuale, quella in cui i protagonisti sono chiamati a fare i conti con le proprie aspirazioni, e quella collettiva, in cui identità ed appartenenza vengono leggittimate dalla condivisione delle gioie e dei dolori, si traducono in una messa in scena un po’ rigida ma comunque efficace, che alterna momenti di puro intimismo ad altri di sfrenata convivialità con numerose scene di canti e di balli. Partecipando al dramma dei personaggi – la telecamera è quasi sempre incollata alle facce ed ai corpi – ed evitando di schierarsi o di giudicarli (anche Yochai nella sua posizione di predominio nei confronti della ragazza non va mai sopra le righe) la Burshtein restituisce sullo schermo un mondo che sembra avvolgersi su se stesso chiudendosi a qualsiasi tentativo di irruzione esterna. Non c’è mai la voglia di scappare o di interrompere il filo del discorso nelle scelte di Shira, ma solo la voglia d comprendere e di fare la cosa più giusta. Ma forse un film dove l’incipit(la morte della sorella) rappresenta il novanta per cento dell’intreccio e quello che segue è il resoconto di una crisi di coscienza – ad un certo punto Shira afferma di essere cattiva per non aver corrisposto alle scelte delle persone che ama – avrebbe avuto bisogno di un andamento meno compassato, di un cambio di ritmo o di un'invenzione che questo film purtroppo non ha.

domenica, novembre 18, 2012

Settima edizione Festival di Roma: vittorie a sorpresa

 
Alcune considerazioni sulla 7 edizione del festival di Roma terminato ieri sono necessarie a chiunque si occupi di cinema con passione ed obiettività. La prima riguarda il palmares che ha premiato due dei film meno amati dal pubblico e dagli addetti ai lavori. Così se “Marfa Girl” è una sorpresa assoluta per  l’anonimato con cui il film di Clark aveva attraversato il festival, desta scalpore almeno tra chi era presente alle proiezioni per la stampa (ma anche quelle del pubblico non sono state da meno), l’affermazione di “E la chiamano estate” di Paolo Franchi, oggetto di contestazioni durante e dopo la proiezione, con risa e battute di scherno che hanno acceso una rissa dialettica tra il regista ed i giornalisti. Meno sorprendenti il premio speciale della giuria a Giovannesi con “Ali ha gli occhi azzurri  tra i papabili per un premio importante ancor prima di iniziare, e quello a “Motel Life”, premio del pubblico che aveva commosso un po’ tutti con l’odissea "on the road" di due sfortunati fratelli.
La seconda riguarda il cinema italiano uscito trionfante dagli esiti del verdetto (ricordiamo anche la menzione speciale a “Razza Bastarda” di Alessandro Gasmann) ed improvvisamente diventato “internazionale” dopo le accuse di provincialismo provenienti da Venezia. Sul fatto che i Franchi ed i Giovannesi del festival romano siano meglio del Bellocchio Veneziano ho molti dubbi, ma è indiscutibile che le dichiarazioni di Nichols e Modine, presidenti delle giurie che hanno determinato i premi indicano che i loro film sono riusciti a farsi comprendere meglio, abbattendo il muro dell’incomunicabilità in cui si era infilato il nostro cinema, quest’anno vincitore anche a Berlino con i Traviani (Cesare non deve morire) ed a Cannes (Reality) e quindi forse troppo penalizzato nelle considerazione e nei dibattiti.
Infine Marco Muller. La sua prima volta è stata indubbiamente condizionata dalla mancanza di tempo. Troppo poco quello a sua disposizione per essere decisivo. Qualcosa però è successo perché questa settima edizione ha cambiato pelle alla manifestazione capitolina investandola di un cotè autoriale che ha messo in secondo piano lo spettacolo ed il divismo. Poco cinema mainstream, ed a parte Stallone con il suo ottimo “Bullet to The Head”, nessuna star. Muller dice che il prossimo anno sarà diverso e le star ritorneranno. Vogliamo credergli. Per adesso ci accontentiamo.

E la chiamano estate

E la chiamano Estate
di Paolo Franchi
con JM Barr, Isabella Ferrari
Italia, 2012


Nelle opere di un autore esiste sempre un segno di riconoscibilità che le rende uniche e speciali. E' questo una sorta di lasciapassare in grado di spezzare il muro dell'indifferenza, ed ancora il catalizzatore che intercetta il segreto nascosto dietro il telaio immaginifico e visuale dell' invenzione filmica. L'intensità della sua evidenza è la discriminante che stabilisce la profondità con cui questo elemento si imprime nei tessuti subliminali, permettendogli di entrare in sintonia con il divenire della storia. Una caratteristica che non dipende dall'intensità dell'applicazione, e che un regista ancora giovane come Paolo Franchi dimostra di avere già acquisito, se è vero che anche il suo terzo film, "E la chiamano estate", è caratterizzato come i precedenti da un'assenza che produce dolore. Così accadeva al personaggio de "La spettatrice"(2004) che mutuava l'esistenza osservandola nelle vite degli altri, ed in maniera diversa ma analogamente sofferta, nel successivo "Nessuna qualità per gli eroi" (2007), selezionato per l'appunto da Marco Muller, dove la scoperta di non poter avere figli, e la proiezione di una realtà passata o inesistente, diventavano lo specchio di qualcosa che non c'era. Una tendenza che Paolo Franchi ripropone anche nel suo ultimo "E la chiamano estate", dove a mancare tra Dino ed Anna è il rapporto sessuale che l'uomo rifugge nonostante sia profondamente innamorato della donna. Dilaniato dal senso di colpa, Dino si accoppia in maniera spasmodica con amanti occasionali, e nello stesso tempo contatta gli ex compagni di Anna per convincerli a ritornare con lei. Un percorso autodistruttivo che indirizza la coppia verso un abisso d'infelicità che sarà pagata a caro prezzo.

Che Paolo Franchi fosse poco interessato a forme di narrazione di tipo realistico era cosa nota. In questo caso però compie un ulteriore passo in avanti nei territori di un cinema psicanalitico che oramai sembra appartenergli di diritto, immergendo i due protagonisti all'interno di una dimensione sospesa tra sogno e realtà. L'immagine che apre il film sulle note della canzone che da il titolo all'opera, con la telecamera a fissare il movimento ondulatorio dell'acqua su cui la luna si riflette, e subito dopo la sequenza in cui vediamo Dino ed Anna all'interno della loro camera da letto, con una luce bianca talmente abbacinante da sfumare i contorni delle pareti, sono significative. I personaggi vi appaiono sospesi in un'atmosfera in cui il tempo non esiste, e dove gli elementi ancestrali e psicanalitici si sprecano. E' questo un momento importante perché e' qui che Franchi definisce le coordinate del film. Da quel momento in poi ciò che vediamo è la proiezione di quei minuti iniziali, con il presente della storia composto da continui sbalzi temporali appena segnalati dall'uso dei diversi formati di ripresa (fotografie, cellulare, camera digitale) e con una ricognizione sui personaggi in cui il processo di conoscenza si trasforma in una regressione ad occhi aperti, con ritmi e reiterazioni - di alcune sequenze, ma soprattutto delle parole della lettera con cui Dino si congeda da Anna - giustificati dalla consapevolezza che "E la chiamano estate" è innanzitutto un viaggio interiore alle radici di un dolore che nel mondo di Paolo Franchi sembra parte ineluttabile dell'esperienza umana. Autore senza compromessi, il regista è sempre coraggioso nelle sue scelte ma in questo caso a non funzionare non è tanto l'impianto formale, efficace anche se a rischio di maniera, ne il fatto che la sessualità del film appaia senza sostanza, privata della sua carnalità, perché la spiegazione potrebbe risiedere proprio nei motivi che abbiamo cercato di spiegare. Ad inceppare il meccanismo è invece una scrittura che toglie forza alle immagini, e che in molti passaggi si fa portatrice di ovvietà talmente scontate da suscitare la comicità involontaria . E' come se Franchi si trovasse a disagio con le parole e con la quotidiana più prosaica, quella che deve restare con i piedi per terra, e non deve essere certo un caso che il suo film migliore sia stato "La spettatrice" che di proprio delle parole riusciva fare a meno. Accolto con fischi e lazzi nella proiezione stampa "E la chiamano estate" è stato contestato anche nella conferenza post visione, con il regista laconico ed evidentemente disinteressato alle reazioni della platea. Il giudizio di chi scrive si posiziona in mezzo ai contendenti ritenendo che quello di Franchi sia un'opera incompleta ma non l'emblema della crisi del cinema italiano, a cui peraltro le opere di Franchi sembrano quasi non appartenere.
(ondacinema/speciale festival di Roma)

giovedì, novembre 15, 2012

Argo






di: B. Affleck
con: B. Affleck, A. Arkin, J. Goodman, B. Cranston, T. Donovan, C. Du Val
- USA 2012 -


Il dietro le quinte delle attività del Dipartimento di Stato e, più in grande,
della politica estera americana, almeno da quel poco che ci viene restituito
dal giornalismo e dalla saggistica d'inchiesta come dagli avamposti non
addomesticati del cinema, e' un guazzabuglio di tragiche mascalzonate, topiche
colossali e isolati quanto spesso casuali oltreché inutili eroismi: queste e
quelli, in ogni caso, a bagnomaria nell'inesauribile brodo retorico
dell'"interesse-del-popolo-

americano".
La vicenda mostrata in "Argo", terza prova registica di Affleck dopo "Gone,
baby gone" e "The town", prende le mosse da uno degli episodi più controversi
della storia recente della prima democrazia del mondo e propone una delle
possibili variabili al sopracitato schema.
1979. Iran. L'Ayatollah Komehini proclama la "rivoluzione islamica" e
l'intervallo di tolleranza che separa gli Stati Uniti da paese guida del
pianeta a "Satana occidentale" si annulla di colpo. In particolare nella
capitale, Teheran, migliaia di persone scendono in piazza. Le dimostrazioni
contro il cosiddetto "mondo libero" mano mano si moltiplicano: la tensione
sale. Sino al fatidico quattro novembre di quello stesso anno, durante il quale
numerosi militanti assaltano l'ambasciata USA e prendono in ostaggio una
cinquantina di membri del personale diplomatico. La richiesta per la loro
liberazione e' chiara: estradare l'ormai deposto Scia' Reza Pahlavi (riparato
nel frattempo proprio negli USA, che ufficialmente lo accolgono in esilio per
motivi di salute) per poterlo processare in patria.
Tratto dall'omonimo libro, scritto a quattro mani da Antonio "Tony" Mendez ex
agente tecnico della CIA e Matt Baglio, e sceneggiato da Chris Terrio, il film
si snoda lungo gli estenuanti negoziati avviati sopra e sottobanco tra le due
nazioni, intervallati da un tentativo tragicamente fallito di liberare gli
ostaggi con la forza (la denominata "Operazione Eagle Claw" dell'aprile del
1980, patrocinata dall'aministrazione Carter, conclusasi con la perdita di otto
militari, diversi mezzi tra elicotteri e aerei e nessun risultato
apprezzabile).
Tutto ha inizio quando sei appartenenti al corpo diplomatico americano, al
momento dell'irruzione all'ambasciata, fuggono per le strade di Teheran finendo
per trovare asilo nella residenza dell'ambasciatore canadese Ken Taylor e del
suo vice John Sheardown.
Mentre la permanenza si protrae - una settantina di giorni - cresce il
problema per l'intelligence USA di arrivare ai sei e farli uscire dal paese
prima che le forze rivoluzionarie li scovino.
L'idea rischiosa ma forse risolutiva la CIA, nei panni proprio di Mendez
(interpretato da Affleck), la trova... ad Hollywood.
L'azzardo, pericoloso ma di certo originale, consiste nell'infiltrare Mendez
in Iran e far credere alle autorità che i sei non sono diplomatici ma effettivi
di una troupe cinematografica in ricognizione per dei sopralluoghi in vista
della realizzazione di un film di fantascienza, "Argo" appunto.
La pellicola, diligente ma astuta quel tanto da evitare le trappole esiziali
del cinema-nel-cinema (lasciando comunque intatta la sottile notazione per cui
una rivoluzione d'impronta religiosa così radicale unita al fascino esotico di
luoghi lontani potesse rappresentare nell'immaginario americano medio uno dei
luoghi fisici e psicologici ideali per ambientare un film di fantascienza),
abbastanza equilibrata nella struttura, con un buon ritmo interno e un finale
in crescendo, debitrice di un immaginario legato a filo doppio agli anni
settanta che spesso Affleck ha ricordato essere uno dei suoi riferimenti
cinematografici più cari, si avvale di una puntuale ricostruzione sia
giornalistica che ambientale. Si vedano i colli delle camicie da uomo protesi
alla conquista delle spalle; le gonne femminili ben sotto il ginocchio; i
maglioni a "v" profonda o dolcevita. O gli occhialoni rettangolari; i capelli
lunghi, i basettoni e il fumo libero nei luoghi chiusi. E gli arredamenti e
gl'interni color colite, le telescriventi, le macchine da scrivere, i telefoni
grossi come panettoni e i primi computer a caratteri verdastri... Allo stesso
tempo e' chiara l'economia di scelte linguistiche che rimanda direttamente alla
stagione d'oro del cinema USA d'impegno e di denuncia ("Tutti gli uomini del
presidente", "I tre giorni del Condor"): dialoghi serrati e disillusi, quindi;
primi piani e piani americani che aiutano a stare sempre "addosso" al cuore
della storia; morbidi e discreti movimenti di macchina ad intercalare,
concedendo respiro all'azione.
Collante fondamentale di tutti questi elementi, la fotografia porosa di
Rodrigo Prieto, in grado, restituendo la luce per grumi di colore - dal sabbia
all'ocra, virando sui toni del grigio e dell'azzurrino - di creare, allo stesso
tempo un effetto di nostalgica lontananza e di immediatezza storica. I momenti
meno convincenti si hanno invece quando, da un lato, si tenta di variare tema
introducendo la complicata sfera privata del protagonista; dall'altro, quando
si ritrae la società e il popolo iraniano all'interno di un cliché che non
spazia mai molto al di la' della solita tiritera noi-buoni/loro-cattivi.
Tutti d'accordo mette pero' il cast, davvero ben assortito e ben calato nei
personaggi - una menzione particolare se la meritano i sempre preziosi Arkin e
Goodman - in omaggio alla più che collaudata tradizione del cinema a stelle e
strisce per ciò che riguarda i ruoli di contorno. Più in generale, e' il
complesso della recitazione ad essere impostato sul registro del sottotono,
della sottrazione: "ambiente controllato" che influenza favorevolmente anche
Affleck spesso, davanti alla macchina da presa, reo di troppi ammicchi e
bamboleggiamenti. Qui e' il primo a giocare d'attesa, di silenzi: a non
scomporsi troppo, insomma, facendo del "suo" Mendez un uomo riflessivo ma
determinato a portare in fondo la missione perché cosciente del debito di
responsabilità verso le vite che gli sono state affidate.
Nel rispetto delle linee guida di un cinema consacrato dalla storia, "Argo" va
ad aggiungersi agli omaggi postumi di certo non originali ma d'impianto solido
e di sicuro intrattenimento.

The FisherKing

mercoledì, novembre 14, 2012

Film in sala dal 15 novembre 2012

 
SETTE PSICOPATICI
(Seven Psychopaths)
di Martin McDonagh
Commedia - GB 2012 - Moviemax - 109"
Colin Farrell, Christopher Walken, Abbie Cornish, Woody Harrelson
Sam Rockwell, Olga Kurylenko, Tom Wait 















The Twilight Saga: BREAKING DAWN - part 2
di Bill Condon
Horror - USA 2012 - Eagle Pictures - 116"
Kristen Stewart, Robert Pattinson, Taylor Lautner, Dakota Fanning













ACCIAIO
di Stefano Mordini
Drammatico - italia 2012 - Bolero Film - 95"
Michele Riondino, Vittoria Puccini, Matilde Giannini, Anna Bellezza
Francesco Turbanti, Luca Guastini, Monica Brachini, Massimo Popolizio
















ALI' HA GLI OCCHI AZZURRI
di Claudio Giovannesi
Drammatico - italia 2012 - BIM - 10"
Nader Sarhan, Stefano Rabatti, Brigitte Apruzzesi, Marian Valenti Adrian
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


LA SPOSA PROMESSA
(Lemale Et Ha'chalal)
di Rama Burshtein
Drammatico - Israele 2012 - Lucky Red - 90"
Yiftach Klein, Renana Raz, Ido Samuel, Chayim Sharir, Irit Sheleg
Hadas Yaron, Hila Feldman, Razia Israeli













QUELL'ESTATE
di Guendalina Zampagni
Comemdia - Italia 2008 - Whiterose Pictures - 82"
Alessandro Haber, Pamela Villoresi, Diane Fleri, Jacopo Troiani











 


IL SOLE DENTRO
di Paolo Bianchini
Drammatico - Italia 2012 - Medusa Film - 100"
Angela Finocchiaro, Francesco Salvi, Diego Bianchi
Gaetano Fresa, Fallou Cama, Giobbe Covatta











 


VITRIOL
di Francesco De Falco
Thriller - Italia 2012 - S.M.C. - 80"
Roberta Astuti, Yuri Napoli, Stefano Jotti, Leonardo Bilardi, Gabriella Cerino











 

FUKUSHAME: il Giappone Perduto
(Fukushame - The lost Japan)
di  Alessandro Tesei
Documentario - Italia/Giappone 2012 - Koch Media - 65"