venerdì, aprile 29, 2011

Blue Valentine

L’inizio e la fine: gli antipodi in questione appartengono di diritto all’ultimo lavoro di Derek Cianfrance dedicato alla parabola amorosa di Dean e Cindy, coppia sposata con prole alle prese con le conseguenze dell’amore. Avendo a che fare con un argomento a rischio per l’overdose espositiva ma anche per l’impossibilità di imbrigliare una materia in continuo divenire, Cianfrance evita di impantanarsi in inutili spiegazioni e decide di far parlare i fatti. Con apparente distacco filma la progressione emotiva sfruttando l’impianto di una sceneggiatura che mette a confronto due diversi stati d’animo: da una parte la scintilla che fa saltare il banco, la musica che ti fa ballare quando meno te lo aspetti, per dirla con le parole di Dean, dall’altra la claustrofobia di un unisono che continua ad essere tale pur non avendone più le caratteristiche. Le schermaglie del primo incontro, i baci rubati alla routine esistenziale si incastrano con le richieste ossessive di una ragione che non sa spiegare l’improvviso cambiamento: rarefazione contro saturazione. Uno scontro a nervi scoperti radiografato da un entomologo abituato a lavorare con la realtà. Un espediente per nulla originale quello di legare in un continum filmico gli antipodi della condizione amorosa ma sicuramente funzionale a riscaldare un lavoro che altrimenti risulterebbe troppo asettico. La lucidità dello sguardo, con immagini che sembrano il frutto di un pedinamento ragionato, deve fare i conti con il contrasto delle loro associazioni, con il cortocircuito prodotto dalla visione di due persone che sembrano amarsi e odiarsi senza soluzione di continuità. Le contrazioni temporali diventano allora lo strumento per disfarsi di tutto ciò che sta in mezzo, della metamorfosi che dilata le distanze, del tempo che uccide le persone, quello in cui solitamente si cercano le cause del decesso. In Blue Valentine non c’è posto per le cose superflue, per spiegazioni che non esistono mai. Sapere non cambierà la stato delle cose. La solitudine fissata all’inizio ed alla fine del film, con la bambina che manifesta la paura di un improvvisa sparizione, e l’ombra di un uomo una volta felice ed ora ripreso di spalle mentre si allontana sconsolato, sono le uniche cartoline possibili di una metafisica che appartiene alla nostra modernità.

Presentato nei festival che contano Blue Valentine si avvale della presenza di due attori in stato di grazia come Ryan Gosling, reduce da un'altra grande interpretazione nel prossimo All pretty things e qui perfetto nella rappresentazione di un homo faber capace di incassare i colpi del destino e ripartire con lo spirito di prima, e Michelle Williams, minuta nel corpo ma gigantesca nello spirito, e per questo ruolo candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista; è la loro disponibilità unita ad un talento genuino a portare dentro la storia quelle tracce di vita amorosa che permettono al film di restare impresso negli occhi e nel cuore dello spettatore.


(pubblicato su ondacinema.it)

giovedì, aprile 28, 2011

Film in sala dal 29 aprile 2011

Thor
(Thor)
GENERE: Azione, Fantasy, Avventura
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Kenneth Branagh

Angèle et Tony
(Angèle et Tony)
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Alix Delaporte

Diciottanni - Il mondo ai miei piedi
(Diciottanni - Il mondo ai miei piedi)
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Elisabetta Rocchetti

I baci mai dati
(I baci mai dati)
GENERE: Commedia, Drammatico
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Roberta Torre

Il sesso aggiunto
(Il sesso aggiunto)
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Francesco Antonio Castaldo

L'ultimo dei templari
(Season of the Witch)
GENERE: Drammatico, Thriller, Fantasy, Avventura
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Dominic Sena

Notizie degli scavi
(Notizie degli scavi)
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Emidio Greco

Source Code
(Source Code)
GENERE: Fantascienza, Thriller
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Duncan Jones

The Housemaid
(Ha-nyeo)
GENERE: Drammatico, Thriller
NAZIONALITÀ: Corea del Sud
REGIA: Im Sang-soo

martedì, aprile 26, 2011

PRAGUE

PRAGUE
regia di Ole Christian Madsen


Autopsia di un esistenza. Quella di Christoffer arrivato alle soglie dei quaranta con un matrimonio già finito e la morte biologica di un padre che non era mai esistito. Insieme a lui Maja, la consorte che ha deciso di accompagnarlo a Praga in un viaggio funerale, organizzato per sbrigare gli ultimi atti necessari alla sepoltura dell’ingombrante genitore. Ad unirli c’è il figlio rimasto a casa ed i ricordi di una vita; a dividerli un incompatibilità caratteriale che si manifesta nell’incapacità di lui di superare la distanza che lo divide dai suoi cari e dal resto del mondo. Tra rivelazioni insospettabili ed intoppi burocratici la permanenza in città diventerà per loro un occasione di confronto dove le ragioni dell’uno e dell’altro dovranno fare i conti con l’evidenza dei fatti.

Se il modello del film riprende, nell’accostamento tra l’estraneità emotiva dei personaggi e quella geografica del paesaggio, un capolavoro come “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini, nei fatti il film non riesce a creare quel contatto, ma si limita a fornire un espediente “esotico” per diversificare una vicenda che in realtà ripete, con la proposizione di un disfunzione familiare in cui il pater familias funziona quasi sempre come elemento disgregante, uno dei temi cardini del recente cinema danese. Popolato da non luoghi come la camera d’albergo adibita a confessionale in cui si consuma l’ultimo atto del menage matrimoniale, oppure in quella dell’obitorio dove più volte la storia ritorna per ribadire anche in termini visivi (il padre riverso senza vita sul lettino ed il figlio psicologicamente subordinato al suo cospetto) lo squilibrio di un rapporto ancora una volta giocato sulla presenza/assenza del primo e nell’accettazione obbligata del secondo, ed anche dallo schermo del computer dal quale Christoffer si videocollega per parlare con il suo bambino, “Prag” sembra volerci dire che la dispersività affettiva incomincia proprio dalla mancanza di uno spazio comune e condiviso, senza il quale è impossibile riconoscersi nell’altro.

Girato in maniera diligente ma didascalica da Ole Christian Madsen, il film si avvale della presenza di un attore di fama come Mads Mikkelsen il quale non riesce più a levarsi di dosso l’espressione che lo ha lanciato e continua a recitare come la versione europeizzata di Viggo Mortensen. Anche in questo caso, nulla di nuovo dal fronte danese.







giovedì, aprile 21, 2011

Film in sala dal 22 aprile 2011

Winnie the Pooh
(Winnie the Pooh)
GENERE: Animazione
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Stephen J. Anderson, Don Hall

Machete
(Machete)
GENERE: Azione, Thriller, Avventura
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Ethan Maniquis, Robert Rodriguez

Cappuccetto Rosso Sangue
(Red Riding Hood)
GENERE: Horror, Thriller, Fantasy
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Catherine Hardwicke

El cantante
(El cantante)
GENERE: Biografico, Drammatico, Musical
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Leon Ichaso

Faccio un salto all'Avana
(Faccio un salto all'Avana)
GENERE: Commedia
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Dario Baldi

L'altra verità
(Route Irish)
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ: Francia, Gran Bretagna, Italia
REGIA: Ken Loach

World Invasion
(Battle: Los Angeles)
GENERE: Azione, Fantascienza
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Jonathan Liebesman

mercoledì, aprile 20, 2011

Habemus Papam



Tra realtà e rappresentazione.
Da un lato la condizione dell’uomo vissuta all’ennesima potenza, per quel senso di solitudine che da sempre lo attanaglia, e che qui diventa il segno più evidente del suo isolamento esistenziale, dall’altro il suo opposto, per la presenza di un rito collettivo necessario a ribadire un identità altrimenti latente.
L’interiorità messa a nudo dalle maschere che dovrebbero rivestirla.
L’annuncio del conclave porta a galla la paura di non riuscire a soddisfare le attese, acuendo il divario tra verità e finzione.
L’annunciazione della formula cade sull’uomo che ne è oggetto con la forza di un responso inaspettato. Lo va a snidare dal suo dolce torpore per consegnarlo nelle mani del sinedrio. Habemus Papam diventa il maleficio con cui estirpare le ultime tracce di una personalità di cui non c’è più bisogno.
Melville, questo il nome del prescelto, non esiste più. Il cardinale è diventato Papa. Ma la nevrosi sta proprio lì, nella dicotomia tra essere e non essere, nel dubbio amletico che la vicenda incarna nello smarrimento del suo protagonista ed esplicita attraverso i tentativi messi in atto per riportare la pecora all’ovile.

Il film è tutto qui, perché la "commedia umana" di Moretti non si addentra nei meccanismi del potere, ne perde tempo ad illustrarne le cadute, ma usa l’ambiente ed i suoi orpelli per far parlare gli uomini. E se la politica come passione personale non poteva non coinvolgere, trascinando il suo regista nel guado degli schieramenti e delle opinioni, Habemus Papam, camminando in territori culturalmente noti, ma estranei al vissuto dell’artista, riesce finalmente a consegnarci un Moretti senza paraventi.
In questo senso la matrice autobiografica, imprescindibile nel cinema del regista e punto di forza di un discorso metabolizzato dall’esperienza personale, si ripresenta con maggior vigore nella figura del Cardinal Melville, cinematografica a cominciare dal nome, che pur con i dovuti distingui aggiorna il percorso di un predestinato chiamato come il prelato del film a salvare le sorti di un'altra "istituzione".

"Avrei voluto fare l’attore" dice il protagonista interrogato da chi cerca di scavare nel suo inconscio e poco dopo, nel corso di una fuga che rasenta il sogno, si lascia estasiare dalla malinconica affabulazione di una rappresentazione cechoviana per arrivare ad una sorta di catarsi – il Papa è stato ritrovato ma le sorprese sono lungi dall’essere terminate - nel teatro in cui si svolge la piece, con i cardinali del conclave finalmente riuniti al loro vate in una ritrovata armonia. Rimandi evidenti ma scontati se non fossero doppiati da una serie di dinamiche e situazioni simili al working progress di un set, con il capitano e la sua ciurma, in questo caso il papa e la sua comunità in costante antagonismo ed indirizzate verso direzioni opposte (definizione coniata con altre parole da Federico Fellini), ed ancora nell’ evidenza che il balcone della proclamazione, terminale conclusivo di tale allestimento, altro non sia che la quinta di un grande palcoscenico.

E che dire dei vuoti di memoria, dell’improvvisa incapacità di esprimere la pur minima opinione, dell’empasse da prestazione che appartiene al prelato così come, almeno per un momento, a colui che è chiamato a confermare il proprio talento di fronte ad una platea incapace di sopportare il fallimento.
Melville diventa allora un Barton Fink morettiano ed a sua volta la proiezione del regista e della propria indipendenza, del diritto di parlare o di tacere, a dispetto degli altri e delle loro aspettative.
E se alcune implicazioni sono impossibili da evitare (i riferimenti al ruolo della Chiesa nella società e la messa a nudo dei suoi limiti attuali), è l’andamento del film ad allontanarsi progressivamente da dov’era cominciato, rifugiandosi nelle strade di Roma e nei luoghi della sua socialità, oppure architettando un gioco delle parti in cui centra pure il metacinema (già attivo con la presenza del teatro come elemento che fa progredire la storia) e che serve ai due protagonisti, il Papa e lo psicologo, un campo d’azione inversamente proporzionale alla loro natura ed al loro credo, con il primo libero di confrontarsi con la gente comune ed il secondo relegato e quasi costretto ad una vita segregata e religiosa.

Le mura del Vaticano e ciò che gli sta dietro si svuotano d’importanza, diventano un luogo della rinuncia, dove nulla si compie, neanche una partita a Pallavolo organizzata dallo psichiatra (un Moretti in versione tragicomica) inutilmente convocato per esorcizzare i fantasmi del Santo Padre.
Al contrario è altrove, lontano da Dio, che le cose giungono alla loro conclusione e dove forse la vita può ricominciare.

Chiamato a confermare il proprio ruolo, e dovendo fare i conti con il peso di una maturità che è soprattutto una presa di coscienza sull’impossibilità delle Utopie, Moretti sceglie la strada più impervia, non solo per la presenza di un Istituzione religiosa poco incline a guardarsi in faccia con gli occhi di un altro, ma soprattutto per la difficoltà di tenere insieme pubblico e privato, memoria collettiva e diario intimo.
Il risultato è un opera indecisa, dubbiosa nello stile (alla sontuosità della messa fa riscontro la semplicità delle inquadrature) e nel suo svolgimento, che risultano piuttosto frammentato, quasi facesse fatica a tenere le cose tutte insieme.

Le "famiglie" di Moretti – della psicologa, della compagnia teatrale e dei confratelli - differenziate nelle funzioni ma non nella sostanza, appaiono universi uniti da un arbitrarietà forzata per movimentare una faccenda che rischia di ruotare su se stessa per la volontà di non spiegare.
La sospensione del giudizio rende evidenti certe ripetizioni (la sindrome da carenza affettiva ripetutamente spiegata ma anche la trovata di una competizione sportiva portata alle lunghe da un enfasi eccessiva) e fa rimpiangere allo spettatore i minuti rubati al mattatore, quelli in cui il Moretti attore, mani dietro la schiena e camminata filosofica torna ad essere se stesso, pungente ed efficace nella sua vena dissacratrice.

Il clamore attorno ad eventuali mancanze di rispetto è, come al solito in questi casi, totalmente ingiustificato.

venerdì, aprile 15, 2011

Twelve

L'ultima incursione era stata quella di "The performer". A circa un anno di distanza ci riprova Joel Shumacher, regista diventato famoso con il ritratto della gioventù anni 80 ("St Elmo's fire") e da sempre a suo agio con le vite bruciate anzitempo ("Tigerland").
Lo scenario è quello di una contemporaneità metropolitana che ha molto in comune con le atmosfere e la decadenza celebrata nei libri di autori come Breston Ellis e Mc Ilnery: famiglie distrutte dall'indifferenza dei genitori e dalla malattia (il trauma del protagonista è la conseguenza della morte della madre ammalata di cancro), giovani storditi dagli addittivi e dalle regole di un consumismo alimentato da quel denaro che serve a comprare il simulacro di una felicità sostituita dalla sicurezza degli oggetti.

Sono queste le coordinate in cui si inserisce la storia di Mike White, spacciatore per caso e quella dei suoi ex compagni di scuola, rampolli della Upper East Side newjorkese, impegnati a riempire il vuoto di esistenze privilegiate ma fragili. Completamente avulso per ragioni che non tarderemo a scoprire dalla mondanità festaiola dei propri simili, Mike vi resta in qualche modo legato in quanto fornitore ufficiale dello "sballo". L'arrivo di una nuova sostanza (Twelve è il nome della droga assunta dai protagonisti) e l'uccisione del cugino di Mike, daranno il via ad un tragico conto alla rovescia.
"American Psycho" o per citare esempi più recenti "Le regole dell'attrazione", film che potevano contare sul sostegno della loro fonte letteraria, ed altrettanto distante da analisi sui meccanismi della dipendenza "Twelve" è in realtà un dramma sull'impossibiltà di essere felici e sulle conseguenze delle nostre azioni. Shumacher, per motivi anagrafici ed anche lavorativi (la sua attività si è concentrata soprattutto a cavallo degli 80/90) è dà sempre influenzato da estetiche edonistiche che privilegiano l'impatto visivo e la fluidità del racconto ed anche in questo caso il suo cinema macina senza soluzioni di continuità soluzioni cromatiche antinaturalistiche, utilizzate per restituire la percezione distorta dei protagonisti e dialoghi a basso contenuto fosforico, adatti a traghettare la storia alla scena successiva ma troppo leggeri per eventuali introspezioni. Twelve finisce quindi per assomigliare ai suoi attori, dotati di una bellezza talmente perfetta da rasentare l'inconsistenza.


recensione pubblicata su ondacinema.it

giovedì, aprile 14, 2011

Film in sala dal 15 aprile 2011

Faster
(Faster)
GENERE: Azione
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: George Tillman Jr.

Habemus Papam
(Habemus Papam)
GENERE: Commedia, Drammatico
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Nanni Moretti

Limitless
(Limitless)
GENERE: Thriller
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Neil Burger

Rio 3D
(Rio)
GENERE: Animazione, Commedia, Avventura, Family
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Carlos Saldanha

Scream 4

(Scream 4)
GENERE: Horror, Thriller
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Wes Craven

Se sei così, ti dico sì
(Se sei così, ti dico sì)
GENERE: Commedia
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Eugenio Cappuccio

domenica, aprile 10, 2011

the next three days

Paul Haggis è un militante delle idee. Mercenario della scrittura per la serie interpretata da Chuck Norris, il nostro ha raggiunto un successo tardivo ma solido perché corroborato da una base che è farina del suo sacco. Insomma un vero autore, di quelli come piacciono all’ Europa e soprattutto all’ Italia. Uno che se la scrive e se la canta nonostante un ambiente che preferisce avere sempre in mano gli strumenti e lo spartito. Ed allora, se così stanno le cose come può essere che un artista con le sue caratteristiche si lasci coinvolgere nel progetto di un altro, in un remake (“Pour elle” con Vincent Lindon e Diane Kruger) ancora fresco di cadavere essendo la sua versione originale uscita con successo in Francia appena un anno fa. Proviamo allora ad entrare dentro al film per cercare, se non le giustificazione, almeno le ragioni di tale decisione. La vicenda si apre con l’immagine di una famiglia felice e benestante: la borghesia del benessere con il lavoro assicurato ed una casa più che bella. Segni di stabilità ribaditi anche dalla presenza di un figlio senza particolari problematiche. Un giorno in quell’isola felice succede l’impensabile. La polizia irrompe nella casa ed arresta la moglie con l’accusa di omicidio. E’ l’inizio dell’Inferno. Una serie di lungaggini burocratiche, e la convinzione sull’impossibilità di dimostrarne l’innocenza lo convinceranno a fare a modo suo. Per liberarla sarà disposto a tutto. Ecco allora una delle possibili risposte: ancora una volta (Nella valle di Elah ed in parte anche Crash) la scelta di Haggis parte da una posizione iniziale consolidata e conservativa fatta di famiglia, decoro sociale e fiducia nelle istituzioni per sconvolgerla con un evento, in questo caso l’arresto della moglie, in precedenza la morte di un figlio e prima ancora un abuso di potere, che innesca un processo di dissoluzione di quelle certezze. Qui più che altrove il personaggio principale è costretto a rinnegare se stesso, ad uscire dalle regole. E’ un uomo improvvisamente isolato che può contare solamente su se stesso e sulla sua capacità di sopravvivere. In precedenza quest’abilità era il frutto di un esperienza maturata sul campo – l’Hank Deerfield di Tommy Lee Jones si confronta con un ambiente di cui lui stesso ha fatto parte — in questo caso, nel caso del professor John Brennan, professore universitario, è la conseguenza di una mente abituata a ragionare. Una ribellione quindi, e come sempre in Haggis un sentimento di totale smarrimento, acuito anche dalla scelta della sceneggiatura di non rispondere ai quesiti che dovrebbero scagionare la moglie. Una condizione dell’uomo moderno che il regista come sempre riesce a far passare, a rendere universale pur raccontando delle storie che nella proposizione di temi come quello della giustizia personale e, di situazioni come quella dell’uomo qualunque costretto a confrontarsi con eventi eccezionali, sono profondamente americane. Quindi per ricapitolare abbiamo la messa in discussione dello Status Quo da parte di un personaggio che inizialmente vi appartiene, un ribaltamento delle convinzioni di partenza frutto di una ribellione personale ed infine un senso di generale sconforto che diventa condizione esistenziale. Si potrebbe quindi rispondere alla domanda d’apertura affermando che Haggis si è appassionato al soggetto perché vi ha riconosciuto i segni della suo cinema, una visione del mondo che condivide. Eppure questo non riesce a soddisfarci perché messa così il film sembrerebbe più o meno una ripetizione dei lavori precedenti e finirebbe per avvalorare l’ipotesi di un ispirazione arrivata al capolinea. Allora bisogna continuare e pur con le limitazioni di un epilogo che non deve essere svelato possiamo dire che il cambiamento c’è e pure grande. Perché se prima di questo film i personaggi di Haggis si ribellavano ma in qualche modo operavano all’interno di una legalità non del tutto scomparsa, e comunque rientravano nei ranghi, nel caso del professor Brennan e della sua vicenda, questo non è più possibile. La bandiera rovesciata che concludeva il film precedente ha perso qualsiasi significato. Il processo è diventato irreversibile. L’essere umano è solo di fronte ai propri bisogni. La civiltà che ha costruito lo spinge a ritornare ad uno stato primordiale, a quel caos generalizzato che azzerando le differenze permette una speranza di riuscita. Ed è forse qui, in questa spostamento di prospettiva, in questo passaggio dall’altra parte della barricata che “The next three days” trova una giustificazione ed un urgenza. Il resto è un film di mestiere che riesce a costruire il suo coinvolgimento nella progressione di avvenimenti vissuti sulla pelle dei suoi personaggi, con la macchina da presa di Haggis come al solito coinvolta in prima persona in quello che succede (la macchina digitale in questo aiuta) e grazie ad un Russel Crowe immenso, capace di prendersi il film e caricarselo su un corpo pericolosamente al limite degli standard hollywoodiani. E’ lui, con l’aria di chi non ha tempo di occuparsi dell’estetica, a regalare alla storia la concretezza necessaria a compensare i vuoti d’aria provocati dagli inserti dedicati all’infrazione delle regole. Un film da vedere quindi, scordandosi anche che si tratta di un remake. Russel Crowe è comunque irreplicabile.

giovedì, aprile 07, 2011

Come lo sai

Sui motivi della crisi si è discusso già abbastanza senza trovare soluzione. Allo stesso modo conviene allontanare questo film dall’ambiente che ne ha dato i natali, perché dal confronto con certe esibizioni sgangherate si finirebbe per scambiare l’eleganza della sua confezione con una sostanza praticamente inesistente. Di certo la Commedia Americana ha visto di peggio almeno sotto il profilo del casting, in passato punto di forza ed ora invece nota dolente di quella cinematografia, che almeno in questo caso ha saputo combinare il glamour degli interpreti con una predisposizione comprovata. Ma i meriti si fermano qui perché “Come lo sai?” non riesce a legare gli attori ad una storia che, nelle indecisioni sentimentali di Lisa, ex campionessa di softball divisa tra le attenzioni di un manager in crisi e le scempiaggini di un atleta di fama, spende le proprie cartucce in una montagna di parole. A prevalere è quasi sempre la sensazione di un esibizione personale, la dimostrazione esibita di un carattere divenuto un marchio di fabbrica. Il burbero di Jack Nicholson, la bella scontrosa di Resee Witherspoon, lo svagato sciupafemmine di Owen Wilson, ed anche la versione ragazzo della porta accanto interpretata da Paul Rudd rimangono ai margini di una sceneggiatura che, alla stregua della sua protagonista, non sa dove andare, indecisa sul peso specifico da assegnare alla compagine maschile, con la star del football così poco sviluppata in termini di scrittura, da risultare un opzione troppo risibile rispetto al manager in crisi lavorativa ed anche sentimentale; una scelta senza storia lasciata sospesa fino allo scontato finale con motivazioni che neanche l’impegno di un attrice in cerca di rilancio riesce a rendere se non credibili almeno interessanti. Ed è proprio nell’intervallo che divide la realtà dalla finzione, in quella spazio in cui il cuore si rifugia per riattivare le frequenze che il film fallisce il suo mandato. Le vicende dello schermo come quelle della vita possono anche dispiacere ma per essere ascoltate devono avere una scintilla. “Come lo sai” è un prisma opaco che non riesce mai a brillare.

Film in sala dall'8 aprile 2011

Ju Tarramutu
GENERE: Documentario
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Paolo Pisanelli

A Sud di New York
(A Sud di New York)
GENERE: Commedia, Musicale
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Elena Bonelli

C'è chi dice no
(C'è chi dice no)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Giambattista Avellino

Drive Angry 3D
(Drive Angry)
GENERE: Azione, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Patrick Lussier

Goodbye Mama
(Goodbye Mama)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Bulgaria, Italia
REGIA: Micelle Bonev

Lo stravagante mondo di Greenberg
(Greenberg)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Noah Baumbach

Offside
(Offside)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2006
NAZIONALITÀ: Iran
REGIA: Jafar Panahi

Rasputin
GENERE: Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Louis Nero

The next three days
(The next three days)
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Paul Haggis

domenica, aprile 03, 2011

Nessuno mi può giudicare

Fenomenologia professionale. Passata alle cronache per le frequentazioni altisonanti la femmina mondana ha pensato bene di adeguarsi al clamore del momento inventandosi un epiteto che potesse rappresentarla degnamente in siffatti palcoscenici. E così in meno che non si dica Puttana, Prostituta e Cortigiana sono diventati i rimasugli di una vecchia mentalità non più al passo con la nuova attitudine imprenditoriale di questa procacciatrice di uomini.

Per non essere da meno e come sempre interessata agli aspetti boccacceschi della vita anche la nuova commedia italiana non poteva mancare l’appuntamento con la storia ed in men che non si dica ha allestito uno spettacolo che suona un po’ come la versione truffaldina di certe inchieste televisive che con la scusa della cronaca solleticano il voyeurismo del pubblico raccogliendo le memorie delle scollacciate signorine.

Ecco allora la storia di una donna benestante impegnata a guadagnarsi la pagnotta vendendo il proprio corpo per fare fronte ai debiti del marito defunto e nel contempo costretta a barcamenarsi con la socialità del quartiere dove si è dovuta trasferire (stiamo parlando del Quarticciolo). Imbranata ed a disagio

nelle provocanti mise che di volta in volta scandiscono l’alternanza delle situazioni e degli incontri, Alice avrà modo di sperimentare sulla sua pelle pregi e difetti della nuova occupazione, finendo anche per innamorarsi di Giulio,un coatto dal cuore d’oro che risponde alla faccia e soprattutto al fisico di un sempre più naturale Roul Bova. Gestito da un regista esordiente come Massimiliano Bruno “Nessuno mi può giudicare” tenta di elevarsi al di sopra della media cercando di coniugare una comicità diretta e popolare, quella per intendersi dei campioni di incasso che l’hanno preceduto, con una certa attenzione agli aspetti del reale. E non ci riferiamo tanto al mestiere della protagonista, riprodotto attraverso espedienti ampiamente risaputi (basti pensare alla scena del bar in cui l’iniziazione di Alice diventa l’occasione per fare il verso alla Sally di Meg Ryan) e piuttosto stereotipati ma al fatto di collocare la vicenda in una dimensione di autenticità testimoniata dalla decisione di filmare per davvero nei luoghi che fanno da sfondo alla vicenda, oppure seminando tracce, vedi la locandina de la ricotta di Pasolini nel internet cafe di Giulio (Pasolini tra l’altro non è estraneo al Quarticciolo avendo sceneggiato il film sul famoso Gobbo) di un impegno che vorrebbe tracimare in una divertimento spensierato ma sempre intelligente. Sospetti confermati anche dalla presenza di Paola Cortellesi, comica radical chic prestata ad un ruolo che dovrebbe essere nobilitato da uno humor esibito ma nello stesso tempo controllato, ridanciano ma mai volgare. Missione in parte riuscita, anche se a differenza della sua versione drammatica la Cortellesi in versione comedy è sempre sul filo di una certo autocompiacimento, per la presenza di spalle come Lillo, Papaleo ed una strepitosa Anna Foglietta nella parte di Eva, la escort che insegna ad Alice i rudimenti del mestiere. Le riserve come al solito riguardano la bonarietà che il film sparge a piene mani sulle contraddizioni che si sforza di far emergere. Vizi, razzismo, schermaglie politiche finiscono così per ricadere in quel qualunquismo che Bruno prende in giro scimmiottando la celebre sequenza de la Messa è finita in cui il personaggio di Moretti inveiva nei confronti del cinema di Alberto Sordi (anche qui rossi e neri finiranno per essere tutti uguali). La voglia di affondare il coltello nella piaga come altrove è sostituita dal desiderio di alleggerire il contesto con il fragore di una risata, d’altronde il film è il frutto di una collaborazione degli stessi autori, Brizzi (soggetto) e Bruno (sceneggiatura), già artefici di prodotti come Notte prima degli esami, Ex, Maschi Contro femmine. I tempi sono grami e la cosa migliore è non pensare. In questo senso “Nessuno mi può giudicare” assolve il compito nella maniera migliore.