giovedì, dicembre 30, 2010

8 Million way to die

8 Million way to die
di H. Ashby


Una città tentacolare e la voce di una fine anticipata. I numeri della violenza snocciolati dai burocrati del crimine danno parola all’indifferenza di una città ridotta ad un grumo di strade perdute.
La sequenza iniziale, panoramica dall'alto di un arteria stradale in overdose di clienti con commento fuori campo a definire lo spazio d’azione di una scena altrimenti anonima, sono il biglietto da visita di un film che tenta di mettere insieme il compendio esistenziale di Hal Ashby un autore in lotta con la vita, e le regole di un genere, la crime story, che di lì a poco e con differenti nomi (neo noir) sarebbe diventato la forma di cinema più adatta a rimettere insieme i pezzi di un mondo andato in frantumi.
Non è difficile infatti riconoscere nel percorso esistenziale di Matt Scudder, interpretato da un Jeff Bridges, un ex poliziotto che cerca di redimersi aiutando una prostituta a liberarsi dal proprio carnefice, i segni di una biografia fortemente segnata dall’uso di additivi, nel film la tossicodipendenza diventa alcolismo, e da una diversità difficilmente assimilabile dal sistema-dopo la sua fuoriuscita Scudder continua a comportarsi come un poliziotto ma lo fa a modo suo e di fatto il desiderio di rientrare nei ranghi finisce in secondo piano rispetto alle urgenze della vita - cosi’ come le convenzioni del genere, riassunte nella struttura di un racconto circolare in cui l’identità perduta e poi ritrovata è il pretesto per un percorso attraverso i gironi di un inferno che ha il profumo di una città dal ventre molle.
Certo il paragone con il resto della filmografia del regista fa difetto alla sua ultima opera, soprattutto perché la visione caustica della realtà e la contagiosa ingenuità dei suoi personaggi più famosi (Harold e Maude) è qui sostituita da un pessimismo spalmato a piene mani nelle rispettive esistenze dei personaggi coinvolti nella vicenda, invischiati in una solitudine dorata ma letale (le due prostitute che per differenti ragioni cambieranno la vita di Scudder, ma anche Maldonado, trafficante di droga rinchiuso in una torre d’avorio piena di cadaveri per non parlare del protagonista principale, abbandonato dalla famiglia e costretto ad elemosinare l’attenzione della figlia) ma soprattutto da una sensazione di immobilismo che non permette a nessuno di tirarsi fuori dalla propria infelicità.
Ashby è bravo ad inserirsi negli spazi della crisi, nelle frazioni di tempo in cui bisogna decidere se vivere o morire. È lì, in quella penombra di sguardi e di silenzi, di corpi fiaccati dal tempo e dalle abitudini che emerge il talento di un regista abituato a lavorare per gli attori. E’ per questo che pur in un panorama rappresentato con molte approssimazioni (i ruoli antagonisti rimangono poco caratterizzati ed anche gli ambienti sono ridotti ad un realismo di facciata), non si può non mettersi dalla parte di Scudder, interpretato con sofferta partecipazione da Jeff Bridges, cavallo di razza piegato ma non abbattuto, con le scarpe bucate ed i vestiti da due soldi, eppure regale nella sua dignità fatta di poche parole e molto sentimento, pronto a riconoscere negli altri il riflesso di se stesso e per questo a coinvolgersi senza mezzi termini.
Anima e cuore di un film diseguale ma sincero, sfuggito più volte di mano al suo artefice per motivi produttivi ed uscito nelle sale americane solamente in versione video.
Hal Ashby è stato una figura di riferimento del cinema americano degli anni '70, ma la sua filmografia seppur caratterizzata da successi importanti (Coming home, Being there, The last detail) è passata sotto silenzio. A rimanere più impressi sono stati la vita da outsiders ed i comportamenti fuori dalle righe.
Sean Penn ha dedicato a lui ed a John Cassavetes "Indian Runner" il suo esordio cinematografico. Un accostamento che gli rende giustizia.

domenica, dicembre 26, 2010

Ladro di bambini

Rosetta e Luciano sono due fratellini che il destino mette nelle mani di Antonio, il carabiniere calabrese che li deve accompagnare all’istituto per minori, dopo l’arresto della madre, colpevole di far prostituire la figlia con avventori occasionali. Antonio è inizialmente distaccato, risentito (“ma non li potevano affidare all’assistente sociale” dice senza neanche conoscerli) rispetto ad un incarico che sembra sminuirlo agli occhi di un ego che guarda a quella carriera come un mezzo per emanciparsi dai problemi della terra natia. Poi, complice il rifiuto dell’istituto demandato all’accoglienza dei bambini ed al conseguente prolungamento del viaggio verso la nuova destinazione, inizia ad affezionarsi ai due ragazzi di cui nessuno sembra volersi curare.
Dopo una serie di film in cui l’impegno civile si traduceva nella scelta di soggetti legati alla Storia del nostro paese (I ragazzi di via Panisperna, Colpire al cuore, Porte Aperte), Gianni Amelio cambia registro per fare i conti con le urgenze di una vicenda umana e personale, che solamente le necessità di consolidare un mestiere iniziato per scommessa e continuato per passione, avevano potuto rimandare. Così il trauma di un padre partito per Lamerica e mai più ritornato rivive nella trasposizione cinematografica negli occhi e negli sguardi dei due piccoli protagonisti, costretti a fare i conti con il dolore di un affetto negato e con un mondo che li punisce per una colpa che non hanno commesso. Amelio decide di raccontarsi e di raccontare la propria esperienza attraverso la storia di un infanzia violata, in cui l’indifferenza degli uomini, delle istituzioni e della loro leggi è ancora più dolorosa della causa che l’ha creato. Inizialmente separati dalle rispettive esperienze, i tre personaggi si ritrovano accomunati nella stessa condizione di umiliati ed offesi fino a quando, per una situazione contingente, anche Antonio, finalmente solidale con i due diseredati, dovrà fare i conti con i meccanismi di un sistema che scambia la sua solidarietà per un colpo di testa e lo costringe a rientrare nei ranghi, a diventare come gli altri, indifferente e duro, pena la messa a rischio del posto di lavoro. Girato con uno stile che sembra entrare in punta di piedi nella vita dei suoi personaggi (siamo lontani dal “combact film” che avrebbe caratterizzato il cinema d’autore degli anni successivi), “Ladro di bambini” è in realtà, anche sotto questo profilo un film capolavoro. Sintonizzato sulle note musicali che Francesco Piersanti riduce all’essenziale, suoni dell’anima che fanno da contraltare agli hit musicali dell’epoca (tra cui “I Maschi” di Gianna Nannini e “Le mani” di Zucchero), Amelio gira con tempismo eccezionale, utilizzando un procedimento a fisarmonica che espande e poi condensa l’anima del suo film all’interno di un intreccio volutamente esile, fatto apposta per evidenziare, senza dare la sensazione di farlo, i rami secchi di una società in decadenza: dal quartiere dormitorio che dà l’avvio alla vicenda, simbolo di un nord dove l’immigrazione non si è mai integrata, ai palazzi della capitale in perenne decadenza, e poi con le case abusive del paesaggio calabrese, il regista sembra voler concretizzare in maniera precisa lo sradicamento esistenziale che attanaglia i protagonisti: che si tratti della casa degli orrori dove i due bambini hanno trascorso la loro giovane vita, oppure di quella senza identità, presa in affitto dai colleghi di Antonio, così come l’abitazione della sorella, una specie di ibrido architettonico, con il ristorante al piano terra e le camere senza finestre al piano di sopra, il dramma si acuisce nella mancanza di un posto dove andare od uno in cui tornare. Un disagio che il film riproduce attraverso la presenza costante dei bagagli che i tre sono costretti a trascinarsi: ingombranti, poco maneggevoli quei pesi diventano non solo l’evidenza di una costrizione fisica, ma anche il simbolo di un peso morale, di un marchio che impedisce di essere liberi. Una condizione logorante evidenziata nella scelta di restituire gli spazi della tregua in interni scarsamente accoglienti o normalmente delegati ad altro, come gli interni della macchina che Antonio ha preso in affitto o le sedie della stazione dove aspettano il treno che li porterà in Calabria, che tolgono allo spettatore qualsiasi possibilità di ricondurre quei momenti all’interno delle proprie consuetudini (al contrario i luoghi deputati al riposo diventano il palcoscenico di questo inferno metropolitano). Ma è soprattutto nei corpi e nei volti dei protagonisti, su cui la telecamera si sofferma, che il film costruisce la sua memoria: Amelio li mette sempre al centro della scena, insieme o separati, ne coglie gli umori attraverso gli sguardi reticenti, l’andatura indolente, il rumore dei silenzi, ma al contempo evita il melò raffreddando la scena con un paesaggio privo di quella retorica che spesso accompagna molto cinema italiano. Caratterizzato da continui cambi di luogo, “Ladro di bambini” si avvantaggia di questo dinamismo per enfatizzare l’immobilismo del mondo che fa da sfondo alla vicenda: i bambini all’interno dell’istituto religioso costretti nei banchi dal dettato della suora, le forze dell’ordine trincerate dietro scrivanie piene di carte, la famiglia di Antonio arroccata dentro un ristorante che sembra un fortilizio, diventano lo specchio di un umanità incapace di comunicare (e quando lo fa usa un linguaggio burocratico e pieno di luoghi comuni) e ripiegata su se stessa. Amelio sceglie di non gravare sullo stato emotivo dei suoi protagonisti e per questo allontana la telecamera quando Rosetta è costretta a prostituirsi, utilizza i campi lunghi per custodire meglio i rari momenti di felicità o allentare la tensione, trasformando il mezzo cinematografico in un espediente taumaturgico capace di agire sulle endorfine degli esseri umani.Destinato a diventare la prima puntata di un ideale trilogia (“Lamerica” e “Così ridevano” completano il trittico) in cui la ricerca della propria identità non potrà prescindere dal recupero del rapporto paterno, seppure surrogato da un serie di figure sostitutive (Il vecchio “Piro Milkani” de Lamerica e “Giovanni” il fratello maggiore di Così ridevano), “Ladro di bambini” riportò all’attenzione mondiale un cinema italiano che da tempo attendeva un riconoscimento a livello internazionale. Il Gran premio della giuria al festival di Cannes del 1992, l’Oscar europeo come miglior film ed un'altra serie di premi collaterali furono il giusto riconoscimento per uno dei film più importanti dell’ultimo ventennio.

giovedì, dicembre 23, 2010

Film in sala dal 24 e 31 dicembre 2010

DAL 24 DICEMBRE

Le avventure di Sammy - Il passaggio segreto
(Around the World in 50 Years 3D)
GENERE: Animazione, Avventura
ANNO: 2009
NAZIONALITÀ: Belgio
REGIA: Ben Stassen

Un altro mondo
GENERE: Drammatico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Silvio Muccino

DAL 31 DICEMBRE

Tron Legacy
(Tron Legacy)
GENERE: Azione, Fantascienza, Thriller
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Joseph Kosinski

domenica, dicembre 19, 2010

The tourist


"The Tourist", film del regista diventato famoso per "Le vite degli altri" e qui irriconoscibile in una storia senza fiato, divisa tra l'alone romantico di una coppia a spasso per i calli veneziani e la suspence di una caccia al ladro in versione italica. Un bacio ed una pistola orchestrato da una partitura di parole perennemente in ritardo ed incapace di creare scenari di credibilità cinematografica.
Un mix di generi e di intenzioni che diventa il lievito di uno spettacolo svilito dalla deferenza verso una città scenografia e dall’ambizione di conciliare uno spirito scanzonato da cavalleria rusticana con il fascino di un valzer al chiaro di luna. Deep e Jolie come il Leone di piazza San Marco vivono di una staticità che ricorda le pagine dei magazine, mentre una pletora di attori italiani si svilisce pur di vivere il riflesso di tale celebrità. Lanciato come strenna natalizia per contrastare i cinepanettoni, “The Tourist” è in realtà un prezioso alleato del loro futuro successo.

venerdì, dicembre 17, 2010

Jack goes boating

L'importante è sentirne la necessità. Se poi oltre al desiderio di un attore che cerca di reinventarsi circumnavigando la macchina da presa si deve prendere in esame i risultati di questa esperienza, allora l'emotività è costretta a fare i conti con la ragione e per quanto si possa amare uno straordinario uomo da palcoscenico, un artista che è riuscito ad imporsi rimanendo se stesso, cosa non facile in un mondo di lustrini, bisogna dire che l'esordio da regista di Philip Seymour Hoffman è piuttosto deludente.
E questo non perché la storia di Jack e Connie, due 40 enni teneramente problematici ed affetti da reciproca attrazione rientri nel clichè di tanto cinema indipendente per la scelta di portare in primo piano una diversità senza compromessi, Jack ha l'ingenuità di un bambino ed al limite dell'afasico mentre Connie è afflitta da perenne disistima, e filmata con i tempi dilatati di chi intende andare oltre l'apparenza. E neppure per la sensazione di uno spettacolo più adatto al palcoscenico che al buio illuminato della sala, nonostante il tentativo di allargare al mondo esterno, New York e le sue strade ma anche Central Park e persino L'Hotel Waldorf Astoria rientrano nella topografia di una metropoli come al solito protagonista, una vicenda pensata inizialmente per il teatro (lo sceneggiatore Robert Glaudini è anche l'autore della piece da cui è tratto il film) .

Niente di tutto questo, o forse, non solo questo, ma piuttosto la decisione di non rischiare nulla da parte di un regista che usa se stesso (ed anche gli altri attori) seguendo alla lettera la lezione di quelli che l'hanno preceduto: una ricetta che prevede come unica soluzione l'inquadratura del malinconico faccione alla ricerca del lampo di genio che fa la differenza.

Ed in effetti l'Hoffman attore la differenza la fa: basterebbe vedere la tenerezza prodotta dalla sua figura corpulenta alle prese con le lezioni di nuoto che Jack riceve dall'amico, oppure gli impacciati dialoghi con la futura fidanzata, un mix di imbarazzo ed intraprendenza da personaggio delle favole, per far spostare l'ago della bilancia a favore dell'intero pacchetto. Ma il fatto di poter contare su questo valore aggiunto sembra adagiare il suo alterego in una regia senza invenzioni, che fa il paio con una sceneggiatura troppo attenta a rispettare le fasi di un innamoramento destinato ad accontentare le anime più romantiche.
Più che un occasione mancata "Jack goes boating" potrebbe essere il prezzo da pagare di chi sa di aver qualcosa da perdere. In questo senso aspettiamo con fiducia il seguito di questa nuova carriera.

(pubblicato su ondacinema.it)

giovedì, dicembre 16, 2010

Film in sala dal 17 dicembre 2010

The Tourist
(The Tourist)
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Francia, Italia, USA
REGIA: Florian Henckel von Donnersmarck

American Life
(Away We Go)
GENERE: Commedia, Drammatico, Sentimentale
ANNO: 2009
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna, USA
REGIA: Sam Mendes

La banda dei Babbi Natale
(La banda dei Babbi Natale)
GENERE: Commedia
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Paolo Genovese

La bellezza del somaro
GENERE: Commedia
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Sergio Castellitto

Le cronache di Narnia: il viaggio del veliero
(The Chronicles of Narnia: The Voyage of the Dawn Treader)
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna
REGIA: Michael Apted

L'esplosivo piano di Bazil
(Micmacs à tire-larigot)
GENERE: Commedia
ANNO: 2009
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Jean-Pierre Jeunet

Megamind
(Megamind)
GENERE: Animazione, Commedia, Family
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Tom McGrath

Natale in Sudafrica
(Natale in Sudafrica)
GENERE: Commedia
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Neri Parenti

lunedì, dicembre 13, 2010

LA BANDA VALLANZASCA - Italia '70. Il cinema a mano armata (19)

LA BANDA VALLANZASCA
Regia: Mario Bianchi
Cast: Enzo Pulcrano - Gianni Diana - Antonella Dogan - Franco Garofalo - Stefania D'amario - Paolo Celli


IL FILM: Roberto (Enzo Pulcrano) evade dalla prigione insieme al suo compagno di cella Italo (Gianni Diana). Dopo aver tentato una rapina durante il matrimonio dei rampolli di due potenti famiglie mafiose, i due vengono assoldati da una misteriosa e potente organizzazione criminale dedita ai sequestri di persona.
Durante un posto di blocco, i due compari perdono la calma e danno vita ad un conflitto a fuoco con la polizia dove l'unico a restare in vita è Roberto.
Una volta messosi al sicuro, Roberto viene incaricato dall'organizzazione di portare a termine il sequestro della giovane figlia (Stefania D'amario) di un noto petroliere.

COMMENTO: Uno dei tanti film a bassissimo costo spediti nelle sale di seconda e terza visione per sfruttare il successo del filone più in voga del momento (come già accaduto con lo spaghetti-western).
Il film è sciatto, mal recitato, quasi privo di sceneggiatura, infarcito di dialoghi allucinanti che spesso sfociano nel comico involontario.
La sceneggiatura (se così la possiamo chiamare) ci regala alcune "chicche" indimenticabili già nella prima mezz'ora: Appena fuggiti di galera, Roberto e Italo si presentano al matrimonio dei figli di due potentissimi boss (come erano a conoscenza dell'evento?) e chiedono di Riccardo, un tale che ovviamente non conoscono, ma che subito mette a loro disposizione un arsenale che custodisce nel ristorante dove è in svolgimento il banchetto ( è noto che tutti gli invitati ad un matrimonio custodiscono quantità industriali di armi all'interno del ristorante), ovviamente i nostri "eroi" con quelle stesse armi prima ammazzano Riccardo e poi tentano di rapinare tutti gli invitati (chi non tenta di rapinare due famiglie malavitose al gran completo?) quando le cose si mettono male ecco sbucare dal nulla gli uomini dell'organizzazione (come sapevano che Roberto e Italo erano fuggiti di galera e si erano recati in quel locale?).
Finale assurdo, dove si rievoca (a parole) la situazione politico-sociale dell'Uruguay del '73, che ovviamente nulla a che spartire con quello che abbiamo visto sullo schermo.
Mi fermo qui, il resto ve lo lascio immaginare.
Totalmente inbarazzante il fatto che il titolo del film faccia riferimento a Renato Vallanzasca, estremo tentativo per cercare di attirare pubblico in sala, visto che nel film il bandito non viene mai citato e non vi è alcun riferimento alla banda della comasina.

CURIOSITA' e NOTIZIE: Il protagonista Enzo Pulcrano era un ex pugile (pesi medi).
Nei titoli di testa si può notare che la pellicola risulta essere prodotta dalla fantomatica "Canadian International Film", che doveva essere proprio ridotta male visto che il regista Mario Bianchi dichiarò in una intervista che non aveva neanche la pellicola per girare e che si era procurato degli spezzoni rovistando nei magazzini.

giovedì, dicembre 09, 2010

Film in sala dal 10 dicembre 2010

Cyrus
(Cyrus)
GENERE: Commedia
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Jay Duplass, Mark Duplass

I due presidenti
(The special relationship)
GENERE: Drammatico, Storico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna, USA
REGIA: Richard Loncraine

In un mondo migliore
(Hævnen)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Danimarca
REGIA: Susanne Bier

My Lai Four
GENERE: Azione, Drammatico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Paolo Bertola

martedì, dicembre 07, 2010

L'ULTIMO ESORCISMO

L'ULTIMO ESORCISMO (Usa 2010)
Regia: Daniel Stamm

Il reverendo Cotton Marcus (Patrick Fabian) appartiene a una famiglia di predicatori da diverse generazioni.
In un recente passato ha avuto una crisi di fede dovuta alla malattia del figlio.
I suoi dubbi sull'esistenza di Dio, vengono tenuti ben nascosti ai suoi parrocchiani grazie ai suoi brillanti sermoni sempre ricchi di trovate.
Decide di confessare i suoi dubbi ad una troupe e rivela che in passato ha effettuato diversi esorcismi pur nutrendo forti dubbi sull'esistenza del diavolo.
Quando il reverendo viene contattato per lettera da Louis Sweetzer ( Louis Herthum) per esorcizzare la figlia Nell (Ashley Bell) a suo dire posseduta da un demone, l'uomo decide di fare quest'ultimo esorcismo ed accetta di essere filmato nel suo tentativo dalla troupe (tecnico del suono e cameraman) per dimostrare che i cosiddetti posseduti in realtà altro non sono che malati bisognosi di cure e attenzioni e che comunque il suo esorcismo può servire a far ritrovare un minimo di serenità al presunto posseduto e alla propria famiglia.
L'ultimo Esorcismo è un falso documentario (adesso va di moda scrivere Mockumentary, ma io sono all'antica) abbinato al ritrovamente della pellicola (anche qui sarebbe più figo scrivere found footage horror) mai troppo scontato e con buone trovate che procurano qualche brivido, anche se la parte più interessante è quella riguardante la "confessione" davanti alla mpd del reverendo che non nasconde che ormai i suoi sermoni ed i suoi esorcismi più che in nome di Dio, vengono fatti in nome dei dollari che servono per sostenere la famiglia.
Qualche dubbio lo lasciano alcune sequenze in cui le telecamere risultano essere palesemente due, mentre aderendo alla sceneggiatura dovrebbe essere solamente una.
Stesso discorso andrebbe fatto per il sonoro.
Da sottolineare una curiosità; tutti i personaggi del film, ad esclusione del reverendo e dell'indemoniata, hanno lo stesso nome di battesimo degli attori che li interpretano.
Presentato in anteprima italiana al 28° Torino Film Festival nella sezione "Rapporto Confidenziale". Produce Eli Roth.

lunedì, dicembre 06, 2010

Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni

Dopo una breve sosta nella città dei balocchi l’omino con gli occhiali ritorna transfugo per occuparsi nuovamente di amore e tradimenti, di sogni ed illusioni, di uomini e di donne sullo sfondo di una città diventata una specie di succursale di un nuovo modo di pensare, più vicino ad un carosello artistico che ad un laboratorio di idee. Una scelta visibile innanzitutto nella mancanza di un personaggio forte, capace di produrre e catalizzare spunti drammaturgici, qui sostituiti da una pluralità di caratteri che replicano senza variazione di sorta i meccanismi di un intreccio già visto e destinato a concludersi con un finale largamente anticipato nell’incipit dalla citazione shakesperiana “la vita è piena di rumore e di furore e alla fine non significa nulla". Caratteristica, quella dell’originalità di cui il regista aveva sempre fatto a meno, trasformando la mancanza in un alternativa (la commedia umana è prima di tutto un giardino di vizi e virtù e successivamente il racconto della loro storia) fatta di battute fulminanti e paradossi esistenziali, di collisioni sbeffeggianti ma anche dolorose, dove in ogni caso intelligenza e buon umore ne uscivano sempre vincitori.
Niente di tutto questo avviene in “Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni”, in cui partendo dalle pene d’amor perduto di una delle protagoniste, una moglie abbandonata dal marito per una donna più giovane, assistiamo ad una ronda di relazioni (sentimentali) che si innescano e si sviluppano all’insegna di un insoddisfazione esistenziale che ha i toni chiaro scuri dell’Allen da trasferta. Alla solita scorpacciata di belle donne, alle quali il regista newjorkese sembra sempre più avvezzo, afflitte come sempre da irrequietezza bovariana si oppone un campionario maschile artefice del misfatto che fa saltare il banco. Ma questa volta la contrapposizione è forte di uno spessore psicologico appena accennato, con protagonisti che altrove avrebbero avuto ruoli secondari e che invece occupano scialbamente la ribalta (su tutti la coppia rappresentata da Sally/Watts Roy/Brolin) illustrando un mondo nel quale neanche la sublimazione dell’arte (lui è uno scrittore impegnato a riconfermare il successo del primo libro, lei una talent scout di un importante galleria d’arte) e dell’amore (le rispettive infedeltà non scioglieranno i rispettivi nodi esistenziali) riesce a dare un senso. Ed anche quando la storia si sofferma su binari secondari, come ad esempio l’amor fou tra Alfie e Sally, oppure quello tra Roy e Dia, lo fa con riferimenti ingenui (Sally è una prostituta che non ha perso il vizio) e scontati (l’attrazione di Roy si esplica in un vojerismo che assomiglia alla Finestra sul cortile), oppure con cambi di direzione talmente improvvisati da rasentare l’inverosimile. Si aggiunga l’espediente della voce narrante, già utilizzato dal regista per legittimare in chiave universale i motivi delle sue storie è qui mero tentativo di dare ossigeno ad una vicenda altrimenti impantanata nell’angusto orizzonte dell’aneddotto. Il resto sono abiti griffati, locali alla moda e liturgie modaiole di una classe troppo agiata per essere serena.

sabato, dicembre 04, 2010

Nowhere boy

Nowhere boy è una biografia sui generis perchè trattandosi di John Lennon ci si aspetterebbe molta musica ed aneddoti legati a quella fama; qui invece a farla da padrone è il periodo della prima giovinezza, quello in cui il nostro doveva ancora scoprire il proprio talento ed intanto faceva i conti con un emotività costretta ad affrontare il ritorno di una madre che lo aveva abbandonato, affidandolo alle cure severe di una zia senza sorrisi (Kristin Scott Thomas). Solido prodotto inglese improntato al rispetto delle regole Nowhere boy, per le caratteristiche da storia di formazione pretenderebbe di andare oltre la dimensione musicale per abbracciare gli interessi di un pubblico più ampio. In realtà i pregi di una ricostruzione dettagliata e di una recitazione inappuntabile diventano i limiti di un film che si mantiene sulla soglia delle cose per ribadire i fatti di una cronaca già annunciata. Nella parte del Beatles più famoso si distingue Aaron Johnson, attore in ascesa (Kick Ass ma anche Chatroom), capace di rendere l’eccezionalità del suo personaggio attraverso un recitazione istintiva ed allo stesso tempo controllata: un esame superato a pieni voti.

giovedì, dicembre 02, 2010

Film in sala dal 3 dicembre 2010

Il responsabile delle risorse umane
(The Human Resources Manager)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Germania, Francia, Israele
REGIA: Eran Riklis

Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni
(You Will Meet a Tall Dark Stranger)
GENERE: Commedia, Sentimentale
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Spagna, USA
REGIA: Woody Allen

Jackass 3D
(Jackass 3-D)
GENERE: Azione, Commedia, Documentario
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Jeff Tremaine

L'ultimo esorcismo
(The Last Exorcism)
GENERE: Horror, Thriller
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Daniel Stamm

Nowhere Boy
(Nowhere Boy)
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO: 2009
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna, USA
REGIA: Sam Taylor Wood

Tornando a casa per Natale
(Hjem til jul)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Germania, Norvegia, Svezia
REGIA: Bent Hamer

Tre all'improvviso
(Life as We Know It)
GENERE: Commedia
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Greg Berlanti

We Want Sex
(Made in Dagenham)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna
REGIA: Nigel Cole

mercoledì, dicembre 01, 2010

The killer inside me

Witterbottom non è uno che si lascia intimorire e, dando seguito ad un eclettismo condizionato da una prolificità funzionante a fasi alterne, si cimenta nel più classico dei generi, traducendo per il cinema l’omonimo capolavoro noir di Jim Thompson.
Ambientato in un America ancora affetta dalla sindrome di un sogno da cui si sarebbe tristemente risvegliata, "The Killer Inside me" è una dichiarazione sull’impossibilità di essere normali ed insieme il ritratto di una personalità costretta a fare i conti con i fantasmi di un passato che non si può cancellare.

In questo senso Lou Ford, sceriffo per necessità ed assassino per vocazione, è il prototipo di un umanità assuefatta al proprio orrore fino al punto di alimentarlo nella completa accettazione di questa anomalia. L’omicidio, così come la violenza, esercitata in un crescendo di sangue e crudeltà, non entrano mai in competizione con alcuna ipotesi di bene ma sono il risultato consapevole di un percorso viziato dagli abusi di una madre bambina e dall’omertà di una società che preferisce nascondere ciò che non si può mostrare.

Ma è proprio qui, in questo spazio da riempire per evitare di essere già morti che si inserisce il vitalismo contorto di un personaggio privo di attrattive e lontano dal fascino perverso dell’antieroe criminale: un "American Psycho" con la faccia ordinaria e le abitudini scontate a cui viene negato persino l’apparenza di una virilità ("la mancanza di lavoro" è la scusa per non portare la pistola) altrimenti sacrificata alla viltà delle sue azioni.

Alle prese con una materia "incandescente" non tanto per il surplus di misoginia evidentemente ribadito nella visibilità fin troppo insistita di certe scene, ma piuttosto per il tentativo di analizzare la "malattia" con quegli stessi strumenti che l’hanno prodotta (la mente dell’assassino ritorna anche nella voce fuori campo annullando qualsiasi tentativo di oggettività), Winterbottom si limita a riassumere il romanzo non riuscendo a farci entrare nel cuore di tenebra del suo protagonista. Immerso in una fotografia che riproduce in maniera stucchevole il quieto malessere di un paesaggio di matrice Hopperiana, il regista sembra più preoccupato a ricreare un estetica che a fornire il senso logico di una storia che procede alla cieca, senza alcuna plausibilità nella costruzione di una detection che seppur depotenziata dalla'assoluta centralità del protagonista rimane pur sempre il mezzo più efficace per tirare le fila di motivazioni che in questo caso rimangono ad un livello di superficialità tale da invalidare la necessità dell’intera operazione.

Accompagnato dalla voce strascicata del suo protagonista, un Casey Affleck dall’espressione insondabile, "The Killer inside me" rischia di essere ricordato solamente per il sadismo delle sofferenze inferte alla compagine femminile che per il contributo ad un genere per alcuni registi ancora improponibile.

(recensione pubblicata su ondacinema.it)