sabato, marzo 29, 2008

My blueberry nights

E' evidente che la trasferta americana e' diventata nell'immaginario d'autore un momento imprescindibile della carriera cinematografica. Scoperta di un mondo altro ed affascinante e insieme verifica necessaria all'universalita' della propria visione, resta da verificare se tale spinta nasca da genuina ispirazione e dalla voglia di mettersi in discussione o rappresenti invece un palliativo per nascondere i segni di un disagio piu' profondo. In questo senso, My bluberry Nights, piu' che un invito al movimento rappresenta, con tutti i suoi limiti, l'occasione per riflettere sulla crisi di un regista solitamente a suo agio nella rappresentazione emozionale di mondi lontani (Happy together)e luoghi dell'anima ( In the Mood for love).
Certo non si pretendeva l'afflato e la coerenza del modello Wendersiano, autore inarrivabile di un cinema che non puo' prescindere dal viaggio, mentale e geografico, e che da' il meglio di sé quando si confronta e si nutre dell'America come contenitore del nostro immaginario, ma perlomeno era necessario un cambiamento di prospettiva, una presa di coscienza del mutamento in atto. KAR WAI guarda senza vedere, affidando alle immagini il compito di costruire una storia che non c'e'. Descrivere l'amore e la sua mancanza, seguire il gioco degli amanti nel viaggio sublime e periglioso della vita, raccontare gli sguardi ed i silenzi di chi vive ogni gesto come fosse l'ultimo, necessita' di una struttura invisibile ma presente, capace di dare forma all'ineffabile e concretezza a cio' che e' impalpabile, liberando le parole dai limiti imposti dal linguaggio. Invece il regista rimane prigioniero di quello stile che gli ha dato la fama, costruendo immagini perfette ma vuote, riflesso di un mondo autoreferenziale e mortifero. La luce calda ed avvolgente dei neon eternamente accesi, la melodia jazz dell'attrice/cantante dal volto perennemente imbronciato non bastano a giustificare un'operazione di cui si fa fatica a trovare il senso e che per lunghi tratti appare come una gentile concessione di un genio alle prese con manie di onnipotenza.

giovedì, marzo 27, 2008

Film in sala da venerdi' 28 marzo

Il cacciatore di aquiloni
The Kite Runner
regia: Marc Forster
genere: drammatico
prod.: USA

Un bacio romantico
My Blueberry Nights
regia: Wong Kar-wai
genere: sentimentale
prod.: Francia, Cina, Hong Kong

Tutta la vita davanti
Tutta la vita davanti
regia: Paolo Virzi'
genere: commedia
prod.: Italia

Nessuna qualità agli eroi
Nessuna qualità agli eroi
regia: Paolo Franchi
genere: drammatico
prod.: Italia

Walk Hard: The Dewey Cox Story
Walk Hard: The Dewey Cox Story
regia: Jake Kasdan
genere: commedia
prod.: USA

Mars - Dove nascono i sogni
Mars - Dove nascono i sogni
regia: Anna Melikian
genere: commedia
prod.: Russia

L'amore secondo Dan
Dan in Real Life)
regia: Peter Hedges
genere: commedia
prod.: USA

Misstake
Misstake
regia: Filippo Cipriano
genere: commedia nera
prod.: Italia

Ci sta un francese, un inglese e un napoletano
Ci sta un francese, un inglese e un napoletano
regia: Eduardo Tartaglia
genere: commedia
prod.: Italia

martedì, marzo 25, 2008

La banda

La banda del titolo è quella della polizia di Alessandria d' Egitto, specializzata non tanto in marce militari quanto in musica tradizionale araba.
Invitati ad esibirsi in Israele presso un centro di cultura araba, nessuno si preoccupa di riceverli all'areoporto e con il loro inglese stentato e uno scarso senso pratico finiranno in un villaggio dimenticato da tutti, forse anche dallo Stato di Israele.

L'esordiente Eran Kolirin (una sorta di Kaurismaki del medio oriente) servendosi della bravura del protagonista Sasson Gabai (fantastico) e degli altri interpreti, ci racconta di un universo a parte, tagliato fuori dal mondo, un microcosmo a cui è stata imposta la cultura occidentale e la rimozione di quella araba.
I protagonisti si raccontano, si confessano, si confrontano in questa terra di nessuno in un alternarsi di scene surreali e situazioni comiche.
LA BANDA è un piccolo capolavoro, una medicina, una speranza, per chi guarda al prossimo con spirito di fratellanza, cercando di superare le fittizie barriere culturali e ideologiche che troppo spesso non sono frutto dell'animo umano, ma imposte da chi con queste "armi" vuole continuare a godere del suo potere politico o religioso che sia.
Film di una dolcezza infinita, una carezza al cuore.

venerdì, marzo 21, 2008

Fine pena mai

Questo film è tratto da "Vista d'interni" (Manni editori) autobiografia di Antonio Perrone boss della Sacra Corona Unita condannato a 49 anni di reclusione.
Il film racconta il percorso umano e criminale di Antonio da spacciatore e piccolo trafficante indipendente fino all'ingresso nella quarta mafia, la Sacra Corona Unita, all'arresto e alla condanna.
Il film ha una buona idea di fondo, ma che non viene sviluppata in maniera soddisfacente.

Ci sono delle cose positive, come l'attenzione per la costruzione di alcune belle inquadrature e lo sforzo del bravo Claudio Santamaria nel dare al suo italiano una cadenza salentina credibilissima. Buono anche lo sforzo degli autori nel dosare la lingua italiana e le espressioni dialettali.
Ma per il resto è notte fonda, la sceneggiatura è in molte occasioni incongruente: non si capisce il perchè del suicidio di Gianfranco; il figlio di Antonio sembra avere sempre la stessa età; il profilo della moglie (V. Cervi) è confuso, a tratti sembra integrarsi benissimo nel mondo malavitoso con atteggiamenti arroganti da vera moglie del boss, salvo poi reclamare un ruolo moralista.
Film pieno di citazioni, che non reputo un male, ma che bisogna saper dosare, altrimenti diventa scimmiottamento, come purtroppo succede in diversi casi tipo il bagno subaqueo che ricorda spudoratamente L'atalante e la scena dei fiori che rimanda ad American Beauty, per non parlare della scena di affiliazione che avviene in prigione che è una scopiazzatura de Il Camorrista.
La figura del protagonista viene dipinta con tono benevolo, quasi fosse "vittima" del sistema criminale che non gli concede autonomia nel delinquere e quasi lo costringe ad affiliarsi.
Nella pellicola non c'è quasi traccia delle imprese criminali di Antonio, eppure questo signore è stato condannato a 49 anni di prigione per associazione a delinquere di stampo mafioso, spaccio di droga, concorso in omicidio e nessun giudice di tribunale ha mai sentito pronunciare la parola pentimento.
Questo film ci dà l'occasione per rimpiangere i tanto vituperati polizieschi anni '70 dove i cattivi erano cattivi e i buoni erano buoni....ma mica tanto.

mercoledì, marzo 19, 2008

Film in sala da venerdi' 21 marzo

Questa notte e' ancora nostra
Questa notte e' ancora nostra
regia: Paolo Genovese, Luca Miniero
genere: commedia
prod.: Italia

Colpo d'occhio
Colpo d'occhio
regia: Sergio Rubini
genere: giallo
prod.: Italia
(in sala da giovedi' 20 marzo)

Spiderwick - Le cronache
The Spiderwick Chronicles
regia: Mark Waters
genere: fantastico
prod.: USA

Nelle tue mani
Nelle tue mani
regia: Peter Dal Monte
genere: drammatico
prod.: Italia

27 volte in bianco
27 Dresses
regia: Anne Fletcher
genere: commedia
prod.: USA

Interview
Interview
reia: Steve Buscemi
genere: dramamtico
prod.: USA

Cover Boy - L'ultima rivoluzione
Cover Boy - L'ultima rivoluzione
regia: Carmine Amoroso
genere: drammatico
prod.: Italia

La volpe e la bambina
Le renard et l'enfant
regia: Luc Jacquet
genere: documentario
prod.: Francia

La banda
Bikur Ha-Tizmoret
regia: Eran Kolirin
genere: commedia
prod.: Israele, Francia

Mimzy - Il segreto dell'universo
The Last Mimzy
regia: Robert Shaye
genere: avventura
prod.: USA

martedì, marzo 18, 2008

Waitress

waitress Una torta può diventare l'antidoto ideale per stemperare le delusioni di un esistenza infelice. E' quello che succede in questo piccolo film, apparentemente scontato nella sua realizzazione, che ripropone la storia della sfortunata cenerentola vessata dal marito egoista e sostenuta dalla solita fratellanza femminile - qui il sodalizio nasce nel ristorante dove lavorano la protagonista (una bravissima Keri Russell) e le sue due colleghe - sullo sfondo double face (fuori buona dentro cattiva) della provincia americana e con la partecipazione di eccentrici caratteri a ravvivare la storia. Un meccanismo tanto collaudato quanto noioso se la narrazione, con il procedere degli avvenimenti non allentasse le sue certezze, concedendo allo spettatore più di uno spunto per riconsiderare le sue convinzioni.
Si scopre infatti che la cameriera -vittima di se stessa e non del proprio coniuge (quando la sua vita smetterà di dipendere dallo schema vittima/carnefice nulla le impedirà di lasciarlo)-con la sua aria da frigida fatina è capace di trasformarsi in una insaziabile amatrice, e che le amiche non le sono da meno in fatto di infedeltà coniugale (nei confronti di mariti impediti dalla malattia) e mancanza di autostima (la timida collega, interpretata dalla regista è consapevole di accettare le avance di un tipo visibilmente disturbato). Insomma un quadro in cui ognuno ha qualcosa da rimproverarsi e nessuno può dirsi al di sopra delle parti. Per fortuna in ogni Favola che si rispetti il principe azzurro è sempre dietro l'angolo ed anche in questo caso, con una soluzione questa si un pò di parte, per l'idea di famiglia tutta al femminile che suggella il finale della storia, si presenterà nelle spoglie di una deliziosa pargoletta destinata ad ereditare la passione culinaria della propria genitrice. Alternando i colori della verità e quella della finzione, e procedendo con una messa in scena che lavora sulle sfumature, la regista realizza un film garbato e non privo di significati, che eccelle sopratutto nella direzione degli attori. Brava Adrienne Shelly, ovunque tu sia

Jimmy Hollywood

Ma come si fa a non volere bene a quella faccia da schiaffi di jimmy holliwood che prigioniero di un idea di successo riservato a pochi si inventa una smargiassata che se non fosse finzione diventerebbe tragedia ed invece nel sorprendente film di levinson regista di sostanza ma non privo di slanci si trasforma in intelligente escamotage per mettere alla berlina la vacuita di un mondo che fa fatica a reinventare se stesso e preferisce surrogati di realtà sempre piu simili ai freaks di certo cinema di genere.
E come si fa ad ignorare un attore come Joe Pesci che se non fosse per una fisicità fuori dagli schemi lo troveresti appeso nelle stanze dei provinanti a mo di santo ispiratore o nelle pagine dei giornali radical chic ad intrigare le working women di tutto il mondo ed invece è praticamente scomparso da qualsiasi tipo di produzione cinematografica. Insieme a lui due compagni di ventura come Cristian Slater piu che mai stranulato e quindi perfetto nel ruolo di novello Sancio Pancia e Victoria April dimentica dei trascorsi almodovariani e qui in un interpretazione che rappresenta il contraltare ai voli picareschi dello sgangherato duo. Per chi avesse nostalgia di un cinema dove recitare conta ancora qualcosa o sentisse il bisogno di rimediare ad una svista colossale su un film che ha il pathos della vita vissuta dalla parte dei perdenti, Jimmy Holliwood si offre come cibo prelibato che non ha bisogno di palati fini per essere apprezzato ma di un cuore che abbia ancora voglia di emozionarsi.

lunedì, marzo 17, 2008

Onora il padre e la madre

Il titolo originale non lascia alcuna speranza: "Prima che il diavolo sappia che sei morto" contiene in se' la forma ed il contenuto di questo film: lo snodo principale, ovvero il tentativo di rapina conclusasi con la morte della madre, è il punto di non ritorno che separa la vita dalla morte; è il dopo che viene prima, mostrato con una serie di continui flashback attraverso i quali la dimensione temporale finisce per confluire in quella atemporale e soggettiva dei due protagonisti. In questo senso il film è di una fluidità quasi imbarazzante rispetto agli accartocciamenti di certo cinema pseudo sperimentale e l’accelerazione che ne segnala la scansione è l’unica concessione che viene fatta al didascalismo mainstream.
L’isolamento dei due fratelli è implicito nella scelta di collocarli quasi sempre all’interno di spazi chiusi e scarsamente illuminati, nella prospettiva a tre quarti (invece di quella frontale) che riprende le loro conversazioni, nella decisione di separarli singolarmente al centro dell’inquadratura quando il regista vuole far emergere la loro disperazione- (nel bar dove Hawke affoga le sue sconfitte quotidiane, oppure nella splendida scena in cui Hoffman (uno straordinario attore alle prese con il su ruolo più bello ci confessa la sua incapacità di far quadrare i conti della vita, seduto su una poltrona che diventa il trono delle sue miserie). I
l film è saturo di mestizia ed è attraversato da un dolore che diventa fisico nel corpo nudo di Marisa Tomei (per un ruolo da protagonista dobbiamo resuscitare Cassavetes?), violato e privo d’affetto, oppure quando la cinepresa si concentra sulle facce perennemente sfatte e segnate da posture che le deformano (su tutti la bocca del padre aperta in un spasmo indefinito). I corpi profanati diventano la testimonianza della condizione umana: l’esilità nervosa ed inetta di Hawke, il figlio piccolo e viziato, si oppone alla corpulenza poderosa e sgraziata di Hoffman (, il primogenito, trattato come un corpo estraneo dalla famiglia (tanto da arrivare a dubitare di farne parte in un drammatico confronto con il padre) e perciò abituato a cavarsela da solo.
Lumet ci regala forse il suo miglior film, certamente uno dei più belli degli ultimi tempi, realizzando una storia newyorkese che riesce a interrogarsi/ci sul senso delle nostre scelte e sulle conseguenze che esse comportano; un delitto e castigo costruito attraverso un "referto spirituale" che ricorda in qualche modo Bresson ed in tempi più recenti l’Eastwood di Mystic River. Non ci stupiamo che un film del genere sia rimasto assente da qualsiasi tipo di riconoscimento perchè la sua presa di coscienza è ancora troppo lontana dall’impegno di facciata che caratterizza il nostro tempo.

venerdì, marzo 14, 2008

Factory girl

Ci sono film che non hanno storia ed altri che ne hanno troppa. Prendiamo Factory girl di George Hicknlooper , biopic su Eddie Sedwick, superstar della Factory di Andy Warhol, destinata a bruciare le tappe di un successo tanto eclatante quanto effimero e confrontiamolo con I'm not there, lungometraggio che ha conquistato il favore di molti cinebloggers. L'accostamento è d'uopo non solo per il periodo storico (dalla fine degli anni 60 alla metà dei 70) ed i collegamenti biografico/culturali (la presenza di Bob Dylan, la continua oscillazione tra diversità e conformismo) ma soprattutto per l'asimmetria delle strade percorse nello sviluppo della cinebiografia.
Se il film di Haynes appartiene di diritto al cinema indipendente, non solo per i natali dell'autore ma anche per gli indicatori del suo stile (rarefazione dell'intreccio narrativo, forte presenza della macchina da presa, contaminazione di linguaggi ed espressioni artistiche) capace di risalire al personaggio dalle suggestioni del suo repertorio artistico (e nello stesso tempo a riflettere sui limiti di questo tipo di operazioni), il nuovo arrivato sembra indeciso tra il cinema mainstream, ripreso nell'eccessiva e puritana semplificazione dell'impaginazione e quello off, svuotato delle sue capacità introspettive ed utilizzato per conferire alla vicenda un etichetta di veridicità (la fotografia sgranata e piatta riproduce l'immediatezza dello stile documentaristico). L'eccezionalità del personaggio e la fascinazione che produsse sul profeta dell'estetismo di massa (Warhol) rimangono fuori dallo schermo: quello che vediamo fa pensare ad un connubio artistico nato sulla base dello schema vittima (lei) e carnefice (lui) in cui i due sfogano i traumi di un infanzia anaffettiva. Un trasfert psicanalitico che normalizza la componente trasgressiva, presente come fatto di cronaca ma latitante sul piano delle emozioni. La barbie androgina che fu capace di ammaliare il menestrello del rock, è restituita dalla presenza impalpabile di Sienna Miller con un interpretazione totalmente agiografica.

giovedì, marzo 13, 2008

Popcorn

A dire il vero non so cosa siano i film “underground". A suo modo e a suo tempo, Ombre era una specie di film underground di novelle vogue..In realta’ci sono delle persone che tentano di esprimersi e poi nascono le etichette.
Se il tuo film non ha la possibilità di venire mostrato dovunque, se non hai abbastanza soldi e lo proietti in locali sotterranei, allora diventa underground.
Io la vedo così. Non ci sono che individui. Poco importano le definizioni.
Due film di due persone diverse non si assomiglieranno mai.
Ognuno ha il suo modo di pensare. Quando fai un film non fai parte di un movimento. Vuoi fare un film, questo film, personale, individuale, e lo fai, con l’aiuto dei tuoi amici

(John Cassavetes)

Planet terror

John mi disse-“che ne diresti di lavorare nella troupe?” Risposi che “L’unico rapporto con il cinema era quello di pagare il biglietto d’ingresso e che non avevo alcuna esperienza di come si fa un film. Lui mi disse che avremmo fatto un passo dopo l’altro..tutti insieme e questo mi parve affascinante.(Al Ruban)

Planet Terror è un film che non può prescindere dagli eventi che precedono la sua visione : tutto quello che ti scorre davanti rimanda inevitabilmente a qualcosa che è gia successo ; la pellicola mutilata fisicamente di una parte del suo corpus filmico, sacrificato agli interessi commerciali dei distributori impauriti dalla sua sfrontata e provocatoria opulenza, i segni incisi sulla pellicola crepitanti ed insistiti come quelli di una fiamma ossidrica, la forma del suo linguaggio che riproduce fino all’esasperazione un idea di cinema che è già andata in scena, sono i segni inequivocabili di questa dissociazione.
Una malattia che degenera al presente con il progressivo sfaldamento dei suoi organi interni -il sottogenere exploitation che è alla base del progetto incapace di contenere il fast food cinefilo di Rodriguez, l’inteccio narrativo costretto a giochi di equilibrio per far convivere l’uccisione di Bill Laden con il cameratismo omicida del Colonnello Willis e senza dimenticare la ricerca della salsa perfetta raggiunta sul punto dai due fratelli sciroccati, al montaggio sincopato e febbricitante sempre sul punto di liquefarsi come l’immagine della pellicola bruciata che ci riporta al clima da Grindhouse e fa sembrare le nostre sale il paradiso dei fratelli Lumiere- ed esterni – con il ribollire di pustole pululente ed i tessuti disfatti che sembrano coincidere con quelli chimici delle immagini. Pennellate di bile ed Omogenizzati a buon mercato; Acidità ludiche capaci di derapare le superficie delle cose con squarci di bellezza che sono lo specchio capovolto di quel mondo (gli occhi e la bocca di un indimenticabile Rose MacGowen, una chicas che non riesce a dimenticare il marchio di sangue ricevuto da Greg Araki). Di Rodriguez ci piace il suo caos organizzato che mescola le tendenze (horror, drammatico bmovie fumetto) e resuscita attori (Michael Bien, Jeff Fahey ed in misura minore Josh Brolin) ma soprattutto la supremazia dell’essere sull’apparire. Senza fraintendimenti e con l’opzione del “prendere o lasciare” che non sposta di un millimetro la voglia di fare cinema del cowboy americano.

“Non siamo intelligenti come dicono. Certe cose sono successe e basta. I film parlano da soli, e spesso fai una cosa che ti pare giusta senza pensarci in anticipo”.(Al Ruban)

Al Ruban fu un collaboratore fondamentale di ben sette degli undici film realizzati da John Cassavetes. Incominciò come assistente di produzione poi divenne direttore della fotografia, produttore e fece due brevi apparizioni

mercoledì, marzo 12, 2008

Film in sala da venerdi' 14 marzo

Onora il padre e la madre
Before the Devil Knows You're Dead
regia: Sidney Lumet
genere: drammatico
prod.: USA

I padroni della notte
We Own the Night
regia: James Gray
genere: drammatico
prod.: USA

10.000 AC
10,000 BC
regia: Roland Emmerich
genere: avventura
prod.: USA, Nuova Zelanda

Tutti i numeri del sesso
Sex and Death 101
regia: Daniel Waters
genere: commedia
prod.: USA

Water Horse - La leggenda degli abissi
Water Horse: The Legend of the Deep
regia: Jay Russell
genere: Avventura
prod.:USA

Joe Strummer - The future is unwritten


JOE STRUMMER - the future is unwritten
di REBEL63
Bellissimo film di Julien Temple sulla vita di Joe Strummer leader dei Clash. La storia di un uomo che, con la sua musica, ha voluto "essere" e non "avere". Buona l'idea di radunare intorno ad un fuoco le persone dello spettacolo e gli amici che lo hanno conosciuto.

IL FUTURO NON E' SCRITTO
di Parsec
Vita morte e miracoli di John Graham Mellor che, figlio di un diplomatico inglese, a 12 anni aveva già girato mezzo mondo. Nato ad Ankara nel '52 e morto a Broomfield, Uk, a ridosso del natale 2002 a causa di un cuore difettoso che gli ha regalato una fine domestica sul divano di casa durante la lettura del London Observer, e che soprattutto non gli ha impedito di stravivere, di assurgere a mito, di risorgere dalle proprie ceneri e vivere una seconda avventura artistica con i Mescaleros, dopo aver segnato la storia della musica con i Clash tra il '79 e l'83.

La narrazione sobria e composta è supportata dalle bellissime animazioni di Tim Standard i cui disegni strambi e poetici ricordano il genio di Terry Gilliam dei Monty Python, e si arricchisce di umanità grazie alla parola data ai testimoni del mito, al racconto sincero e semplice degli amici degli esordi ai tempi in cui Joe si faceva chiamare Woody, e dei parenti e dei fans, tra cui Bono Vox, Steve Buscemi, Jim Jarmush, John Cusack, Johnny Depp, Matt Dillon che contribuiscono al ritratto di un uomo non privo di difetti, di un artista geniale e bizzoso, di un'epoca irripetibili.
Mai retorico o agiografico il film riesce ad essere anche commovente e rappresenta un'occasione per chi non ha vissuto negli anni del british punk e per chi non sa nulla del "white riot" di conoscere Strummer e i Clash.

Grande, grosso e... Verdone

Verdone è diventato incontenibile; dimenticati i complessi da artista non sempre in armonia con le proprie creazioni, il commediante di razza ha lasciato il posto ad una personalità che ha assunto nuove consapevolezze: il successo commerciale di opere più riflessive, in cui la risata si è arricchita di sfumature non necessariamente divertenti, così come l'avvenuto riconoscimento culturale, suggellato dalla direzione di un Festival cinematografico dedicato alla Commedia (Siena), ha permesso alla sua comicità di liberarsi dai limiti del cinema inteso come coazione a ripetere di format natalizi e televisivi (mi riferisco ai cine panettoni ed ai film di quegli attori che usano lo schermo come un palco televisivo), per dare vita ad interpretazioni attoriali e performance registiche più complesse, capaci di confrontarsi con le nuove generazioni (Il mio miglior nemico), senza i pregiudizi di chi non ha più nulla da imparare.
In questo senso "Grande grosso e...Verdone" rappresenta un inversione di tendenza non solo per la struttura episodica, la cui mancanza di "espansione" non si addice alla debordante personalità del suo autore (ed infatti l'episodio più riuscito è quello di Morena ed Enzo, la coppia di cafoni a cui il regista dedica il minutaggio più alto), ma anche per la smaccata indulgenza autocelebrativa che si nasconde dietro la riproposta di personaggi (il fatto di ritrovarli con nomi diversi non è indice di cambiamento) che lo hanno reso famoso. Certo i protagonisti delle storie ispirano una naturale simpatia- dall'ingenuo Leo, padre di famiglia e figlio devotissimo alle prese con il funerale della mamma, al mefistofelico professor Callisto, un uomo di vizi privati e pubbliche virtù che vuole organizzare la vita amorosa del figlio, per non parlare de i due coatti (la Gerini è proprio brava)alla ricerca della passione perduta ed intenta a risolvere le problematiche del figlio adolescente- ma alla lunga , quella che che dovrebbe essere la premessa del discorso rimane l'unica qualità di un film che procede senza vitalità, accumulando un catalogo di tic (la camminata con il balzelo a piedi uniti del professore, gli occhi al cielo di Leo in un misto di devozione e stupidità)ed ossessioni( quella di Moreno per i soldi enfatizzata dal gesto rumoroso e plateale che precede la distribuzione delle mance) che appartengono al repertorio del mattatore ma non hanno l'indignazione neccessaria per trasformare la risata in un arma capace di salvarti la vita dalle brutture quotidiane. Le caratterizzazioni dei personaggi appaiono troppo morbide, poco aggressive rispetto alla rapacità dei Freak che circolano per le strade; costretti a fare i conti con l'evidente assenza metafisica (le preghiere recitate come fossero un elenco telefonico, le istituzioni religiose, zelanti come la Suora dell'Istituto di accoglienza femminile decisa a disfarsi della disdicevole presenza di alcune prostitute) ed immersi in una condizione di evidente disagio esistenziale, i personaggi sbilanciano il film con un senso di rassegnazione che offusca tutto il resto. E' come sè il segno dei tempi, presente nella luce metafisica e malata che illumina la camera da letto in cui giacciono i giovani innamorati, nella patologia (i valori del tasso glicemico che superano la soglia di rischio) che impedisce la fuga nei piaceri della carne e persino nella negazione del lutto che trasforma la memoria dei defunti in un gesto di cui vergognarsi (a causa di un equivoco la defunta viene esumata nella tomba sbagliata e la famiglia è costretta a pregarvi di nascosto), finisse per annullare quelle componenti di spensieratezza e divertimento che in un film del regista romano dovrebbero essere la specialità della casa e che invece finiscono per far rimpiangere la semplicità senza ambizioni delle opere che ne hannp preceduto la comnsacrazione.

sabato, marzo 08, 2008

Lezioni di felicita'


Un po' Amelie e un po' Mery Poppins, Odette Toulemonde riesce a scaldare il cuore con un frizzante buon umore ed un tocco di fiabesco romanticismo che non fa mai male. La fantasiosa commedia di Eric-Emmanuel Schmitt abbraccia lo spettatore con una storia di ordinaria quotidianità che diventa unica se guardata da una nuova prospettiva.
Odette non e' una maga, ne' una strega, e non ha poteri sovrannaturali come wonder woman o la donna invisibile. Eppure, nonostante sia una semplice umana, Odette piu' di tutte queste superdonne riesce a portare zucchero e scintille nella vita di tutti noi: balla, canta, vola, ci fa ridere e sognare.
Odette e' animata dai suoi sogni, dal potere della fantasia, dalla forza dei sentimenti. E' una donna che ha sofferto, che e'riuscita a superare il buio senza pero' dimenticarsene. Ed il suo tacito messaggio, nascosto tra le pieghe del suo caldo e contagioso sorriso, e' che la vita e' bella e unica, se solo lo sappiamo percepire, se solo lo vogliamo cogliere in noi.
Odette e' una quarantenne madre di famiglia, vedova, con due figli a carico, maschio e femmina, che vive in Belgio ai giorni nostri e che apparentemente non ha alcun motivo per essere felice. "Lavora come commessa nel reparto maquillage di un grande magazzino e, nel poco tempo libero che riesce a ritagliarsi, ama perdersi nelle pagine dei romanzi del suo scrittore preferito, l'uomo dei suoi sogni, l'artefice del suo smisurato ottimismo" Un bel giorno riesce ad incontrare il suo scrittore preferito, il bello e tronfio Balthazar Balzan, un uomo virile e orgoglioso, che dalla vita ha avuto tutto, successo, fama, amore, e che per questo dovrebbe essere lo specchio della felicita' ma che che invece si scopre avvolto in una crescente depressione...
Il film ci accompagna in un percorso di scoperta dei sentimenti e delle reazioni umane agli eventi. I fatti non sono affatto originali, cosi' come la trama, ma quello che conta e' lo spirito di ottimismo che pervade tutto il film. Lezioni di felicita' e' una favola moderna ben scritta e diretta. Le lezioni alle quali allude il titolo sono quelle che servirebbero a tutti noi per vivere meglio, per sentire davvero con intensita' e amore ogni giorno, ogni momento, sia nella difficolta' che nella gioia.
I toni sono leggeri e freschi, tipici da commedia francese, ma il tutto e' messo in scena con delicata poesia ed un pizzico di follia. Bravi gli attori, in particolare Catherine Frot. Una maggiore velocita' nelle battute avrebbe di certo giovato a tutto il film, ma ad una commedia francese si perdonano anche queste mancanze: i francesi non son mai stati tanto forti nei tempi comici.
Musiche di Josephine Baker, che caratterizza in modo perfetto film e protagonista.
Si esce dalla sala canticchiando. Aaaah, che buona boccata d'ossigeno. Grazie Odette!

Sonetàula

"Un ragazzino tanto magro che il suo corpo emette il rumore del legno: 'sonetaula'. Siamo nella Sardegna del 1938 e quello diventera' il soprannome di un ragazzino che cresce nei pascoli con il nonno e il gregge di pecore. Suo padre e' stato mandato al confino per un delitto mai commesso."
Questo l'inizio della storia-biografia Sonetàula messo in scena dal capace e sensibile Salvatore Mereu (la cui opera prima Ballo a tre passi suscito' ampio gradimento di critica e pubblico) e tratto dall'omonimo libro di Giuseppe Fiori (Einaudi editore), romanzo di formazione che abbraccia un'epoca di trasformazione storica e personale.
Ottima ed efficace trasposizione cinematografica di un romanzo non scontato (e nemmeno tanto giovane, il testo ha 40 anni), che racconta una storia amara di passioni e dolore, di vendetta e fughe, ambientata nelle montagne della sardegna durante la seconda guerra mondiale. Si tratta di un film in lingua (interamente recitato in dialetto sardo e sottotitolato) interpretato da attori non professionisti. Una storia dura e d'impatto, che Mereu dipana con coerenza e fluidita', forte della lezione di grandi registi quali De Seta e Rosi.
Sceneggiatura ben strutturata, dialoghi efficaci, aderenza al soggetto ed alla realta' storica.
Uno dei pochi ottimi lavori italiani in un panorama cinematografico nazionale sconfortante e asettico.
Distribuisce la sempre ottima Lucky Red di Occhipinti.

venerdì, marzo 07, 2008

Film in sala dal 7 marzo

Titolo: Grande Grosso e..Verdone
Regia: Carlo Verdone
Genere: Commedia
Produzione: Italia

Titolo: Lezioni di felicità. Odette Toulemonde
Regia: Eric-Emanuel Schmidtt
Genere: Commedia
Produzione: Francia/Belgio

Titolo: Sonetàula
Regia: Salvatore Mereu
Genere: Drammatico
Produzione: Italia

Titolo: Vogliamo anche le rose
Regia: Alina Marrazzi
Genere: Doc
Produzione: Italia

Titolo: Biùtiful Cauntri
Regia: Esmeralda Calabria, Andrea D'ambrosio,Peppe Ruggiero
Genere: Doc
Produzione: Italia

Titolo: Cenerentola e gli 007 nani
Regia: Paul Bolger, Yvette Kaplan
Genere: Animazione
Produzione: Usa/ Germania

Vogliamo anche le rose

Salutata con la solita sobrieta’ da un popolo festivaliero numeroso e trepidante Alina Marrazzi torna al Torino Film Festival dopo lo strepitoso successo ottenuto da "Un ora sola ti vorrei" il documentario che l’ha imposta come una delle realta’ piu’ interessanti del nostro panorama cinematografico, non solo tra gli addetti ai lavori, a volte propensi ad inventare il caso per sfruttarne l’inevitabile ritorno di visibilita’, ma anche dal pubblico piu’ giovane che aveva apprezzato l’originalita’ dell’opera e la delicatezza nella rappresentazione di un dramma personale. E non c’e’ dubbio che anche questa volta il tema dell’emancipazione femminile e piu’ in generale quello della condizione della donna a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘70 non sia semplicemente l’oggetto dell’indagine ma appartenga al vissuto dell’autrice non solo come categoria ma anche come esperienza vissuta.
Lo dimostra la volonta’ di privilegiare la dimensione privata ed emozionale delle sue protagoniste all’elemento sociale e politico: nel corso del documentario, costruito come un patchwork di immagini e parole tratte dalle fonti piu’ disparate (materiale di repertorio, super 8, filmato d’animazione e testimonianza diaristica), al di la’ della cronaca di una battaglia che non e’ ancora finita , emerge il tormento di una presa di coscienza lunga e dolorosa, popolata da fantasmi personali e sovrastrutture opprimenti ed in cui solitudine e sensi di colpa sono le uniche certezze. La fluidita’ dello stile insieme ai simpatici siparietti d’epoca concorrono ad abbassare i toni, ma i nervi sono scoperti ed il pericolo di farsi male e’ inevitabile. Nel corso della presentazione del film, rispondendo ad una domanda di Nanni Moretti su un suo eventuale passaggio al cinema di finzione, l’autrice dapprima titubante poi decisa, ha detto di considerare come tale il suo documentario per la capacita’ di far vivere le protagoniste al di sopra del vissuto che raccontano.

martedì, marzo 04, 2008

Rambo

Ho l’onore ed il piacere di pubblicare la recensione di Guido,un amico a cui mi lega una stima che supera la comune passione cinematografica.

Rambo è tornato! Appesantito in volto, segnato , un po’ gonfio Stallone non è sicuramente uno di quegli attori a cui daresti l’Oscar, am Rambo è un bel film. Un modo tutto suo di affrontare il sociale e l’attualità in maniera cruda, non da documentario o scoop giornalistico, Rambo è Rambo dopotutto, ma riesce comunque a far emergere il degrado in cui la Birmania sta vivendo ormai da anni. Le esagerazioni sono addirittura contenute, ci sono e soni in linea con lo standar gore di questi ultimi anni, ma sono sufficienti le immagini di vissuto reale e di cronaca che scorrono prima del film, nel film, come antefatto, per dare un’idea del fatto che certe atrocità non possono essere eguagliabili nemmeno nella finzione cinematografica. La morte reale nella sua semplice crudezza è più orribile di qualunque messa in scena, splatter, gore, horror che si possano immaginare. Stallone mi dà l’impressione di essere un uomo in cammino, con una fede o una voglia di fede molto forti; il suo personaggio è perso, abbandonato in un luogo sperduto, lontano da tutti e forse, spera anche da se stesso. Ritrova se stesso, solo quando comprende e accetta ciò che lui è, grazie ad una bella introspezione della co-protagonista che porta l’apatico Rambo a reagire ed in seguito ad acquisire la consapevolezza che quello che è non è bello, non è una cosa giusta, ma lui ha il potere di utilizzarlo a “fin di bene”. Interessante anche il risvolto dei mercenari coinvolti, in netto contrasto con quello che farà lui, e con quello che fanno i missionari ad inizio film. Il mercenario quando arriva il pericolo fugge; l’atteggiamento alla prima difficoltà è quello: fuggire i problemi per non correre rischi, incuranti del fatto di essere stati pagati. Essi non hanno un etica, una morale che li psinga a proseguire, mentre Rambo è diverso: non accetta soldi, perché sono i principi che lo mandano avanti; crede in quello che fa ed è quello che lo spinge oltre. Gli anni passano e mi stupisco a ripensare alla denuncia sociale che Stallone ha fatto nella serie di Rambo; una denucia a volte oscurata dalle belligeranze cinematografiche, però presente. Giochi di sguardi che ad un analisi non vizizta da pregiudizi trasmettono anche il dramma di un uomo. La trama è in sintonia con i film del genere: antefatto, missione per liberare delle persone e bagno di sangue per finire con un piccolo risvolto al termine del fil. Non mi dilungo oltre, concludo con un giudizio buono del film.

Sogni e delitti

Forse influenzato dalle storie di Jack lo squartatore oppure perché avvicinandosi alla fine il pessimismo è più che mai insopprimibile, sta di fatto che il nostro omino realizza e cosi conclude la sua avventura londinese lasciandoci l’amaro in bocca (per la cupezza della vicenda e non per la qualità sempre alta del suo cinema) con questa storia che sancisce la definitiva dicotomia tra materia e spirito, tra sogno e realtà, tra darwinismo sociale ed etica religiosa attraverso una storia che manco a farlo apposta sembra riecheggiare l’amletico dubbio "Essere o non essere" presente nell’ essenza dei due protagonisti (il cui ineluttabile destino suona come i "passi di un uomo morto" del protagonista de "La fiamma del peccato"), quello dalla faccia pulita quanto letale, interpretato da Mac Gregor, deciso ad essere ed ad andare fino in fondo per possedere le cose che desidera (anche la presunta Dark lady, trattata alla stregua delle costosissime macchine con cui le si presenta, si rivelerà migliore, innamorandosi di lui), e l’altro, fragilmente ruvido in un modo che riporta alla memoria le vertigini esistenziali del mitico James Dean, che sceglie di non essere, e si tormenta con rimorsi di coscienza e consapevolezze fuori dal tempo, in un ruolo che Farrel sembra costruire sulle proprie vicissitudini private.
Allen, forse ricordandosi del suo capodopera Ombre e Nebbia,, sembra ribadire che la cosa più pericolosa, quella che ci manda letteralmente in tilt ed in definitiva produce il caos in cui siamo immersi non stà nel disconoscere la differenza tra bene e male, ma piuttosto nel continuare ad agire senza una posizione chiara rispetto a questi due parametri. In tal senso la fine è ormai nota ed è per questo che l’interesse del regista si concentra nella caretterizzazione dei personaggi e degli ambienti, ancora una volta eccellenti, grazie ad una direzione di impareggiabile carisma ed una sceneggiatura che come al solito non perde mai il filo del discorso ed è capace di definire, anche con poche battute (alla faccia del famoso discorso logorroico) tutti i personaggi che vi partecipano. W Zigmond (Black Dhalia) da spessore alle atmosfere colorando gli ambienti con toni chiaro scuri ed arricchendole sequenze con movimenti di macchina appena necessari (su tutti quello che ci impediscedi guardare nella sua interezza il conciliabolo in cui viene premeditato l’assassinio) ma capaci di sottolineare l’importanza del momento. Allen costruisce un noir anomalo (mancano gli intrecci della trama, l’interiorizzazione della vicenda da parte dei personaggi così come la pesenza di una donna traditrice) perché nella sua visione delle cose le costruzioni programmatiche non aiutano ed è solo il caso, qui rappresentato da un auto in panne ai margini della strada o dall’ennesima puntata sul tavolo da gioco, a stabilire il banco di prova per quella che chiamiamo la nostra coscienza.

Prospettive di un delitto

Siamo in Spagna e più precisamente a Salamanca, un luogo che nel cinema, per quanto mi concerne è paragonabile alle Isole vergini, in termini di sfruttamento visivo. Dicevo siamo a Salamanca per assistere al discorso del Presidente degli Stati uniti, intervenuto al Congresso Mondiale sulla guerra al terrorismo. La piazza ricavata all’interno del cortile di un maestoso quadrilatero murario adibito a spazio abitativo, è gremita di gente eccitata dall’evento ed i servizi segreti la sorvegliano come se fosse l’ultimo tesoro del mondo.
E’ in questi attimi, poco prima che il presidente prenda la parola che il film ci fa conoscere tutti i protagonisti della vicenda: una serie di facce tutte convincenti a partire da quella del redivivo Dennis Quaid nei panni di un agente appena tornato in servizio dopo una convalescenza causata dalle pallottole indirizzate al Presidente (William Hurt un ex grande attore che si guadagna da vivere prestando la sua faccia sempre uguale al miglior offerente) per continuare con il Matthew Fox di Lost, collega ed amico, Sigourney Weaver responsabile del network che filma l’avvenimento fino a Forrest Withaker, tornato a lavorare dopo la gloria dell’oscar nel ruolo di un turista in cerca di emozioni. Sono tutti lì quando in rapida successione 2 colpi di arma da fuoco colpiscono a morte il presidente ed una bomba esplode saturando l’aria e lo schermo con una nuvola di fumo che ricorda quelle seguite al crollo delle torri Newyorkesi. Il film in pratica si ferma qui perché quello che segue non è altro che un backward/forthward di quei minuti (tanti quanti sono i punti di vista dei personaggi) per ricostruire le dinamiche e catturare i responsabili. Sorvolando sui discorsi del cinema che riflette su se stesso (Il De Palma di Occhi di serpente, riferimento più o meno dichiarato dal regista, è un'altra cosa) e senza soffermarsi più di tanto sulla forma dello sguardo che è organico/meccanico, fatto di tessuti cellulari e meccanismi in fibra ottica (esaltato dal trionfo di schermi, telecamere e videofonini sempre in primo piano e che nel caso di Withaker sembrano un tutt’uno con il resto della sua fisiologia) possiamo dire che Prospettive di un delitto spreca l’eccellenza del cast nella riproposizione all’infinito di un meccanismo fin troppo prevedibile che non riesce ad integrarsi con i tempi dell’azione che risulta frenata dai continui andirivieni ed un intreccio che concepisce la suspence come sfinimento visivo e sonoro. A posteriori risulta più interessante constatare il paradosso di un film che si professa democratico, con il summit pacifista ed il Presidente deciso a non rispondere alle provocazioni dei terroristi per poi organizzare un carosello di violenza che, seppur esagerata e quindi in qualche modo anestetizzata, è aggravata dall’assoluta mancanza di ironia. Una presa di posizione che riproduce perfettamente lo stato d’animo di una Nazione che ha prodotto la propria nemesi.

lunedì, marzo 03, 2008

L'innocenza del peccato


Il prolifico regista, autore di una filmografia sconfinata e di livello si ripresenta ai nastri di partenza con un'altra storia di ordinaria follia in cui le conseguenze dell’ossessione amorosa e della lotta di classe sono i temi dominanti. Intenta a conquistarsi un posto al sole nel mondo giornalistico televisivo, Gabrielle, ragazza bella e disinvolta si imbatte dapprima con lo scrittore di successo Charles di cui diventa impudica ed insaziabile amante, e successivamente in Paul, fragile e viziato erede di una impero commerciale, abituato ad ottenere ciò che vuole e deciso a conquistarla. L’incrocio di caratteri tanto diversi ma in fondo accomunati da un comune senso di insoddisfazione, darà il via ad una serie di reazioni a catena, frutto di personalità sempre in bilico tra cedimento patologico e premeditatà meschinità, le cui drammatiche conseguenze ribalteranno le premesse psicologiche dei suoi protagonisti.
Il film conferma la predilezione del regista per l’analisi dei comportamenti e dei condizionamenti sociali rispetto all’intreccio della trama che alla maniera dell’amato Simenon nasconde sotto l’apparente semplicità degli eventi una tensione drammaturgia derivanti dall’ambivalenza della psiche umana. Un inferno di ipocrisie che Chabrol disvela con un processo rigoroso ed inesorabile, costruito su analogie e dissonanze (commenti musicali e dialoghi in apparente contraddizione con il corrispettivo filmico), e che si compone di una serie di dettagli visibili ma non invadenti, che assumono senso con il procedere della storia: si pensi al libro dello scrittore ripetutamente disprezzato all’inizio del film con un gesto che sembra quasi una presa di posizione nei confronti dei premi letterari oppure alla valenza degli ambienti, in questo caso le case dei 3 protagonisti, quella natale di lei, divisa con la madre, a rivelare un bisogno d’affetto mai sopito opposta a quello del suo amante, una villa asettica e piena di confort simbolo della doppiezza del suo amante che in pubblico si proclama uomo dai costumi monacali, per finire con quella vittoriana del miliardario, immobile e perfetto campanello di allarme di una famiglia che nasconde la sua spietata freddezza davanti al decoro delle maniere. Per non dimenticare il sapiente uso dei colori, con il rosso che doppia quello dei guanti del giudice inflessibile interpretata dalla Huppert ne “La commedia del potere” e che qui compare saturando le sequenze iniziali e negli abiti più spregiudicati della protagonista, feticcio che riceve e produce sangue, a quelli finti e definiti della televisione, surrogato della vita reale di cui riproduce gli stessi meccanismi di potere, a quelli in penombra dell’ambiguo club dove lo scrittore regala alla giovane un regalo di compleanno indimenticabile, a quelli neutri e prosaici della vita quotidiana. Un determinismo costruito sulle differenze economiche e di ceto che non può essere messo in discussione neanche dalla verità delle pulsioni che al di la del godimento momentaneo finiscono per condannare i trasgressori del sistema con una punizione pari alla grandezza del loro sogno. Il sorriso di Gabrielle, in abiti circensi ed appena resuscitata da una "morte per scherzo" (il trucco del prestigiatore che taglia in due la ragazza rimanda simbolicamente al titolo originale "Una ragazza tagliata in due") che fa il verso a quella vera,(accaduta poco prima sullo schermo), sembra il presagio, per quella risposta d'amore appena ricevuta dall'applauso generoso del pubblico pagante, di una fine ancora lungi dall'essere decisa.

Il mattino ha l'oro in bocca

La febbre del gioco secondo Marco Baldini è qualcosa che dipende dal destino: lo dimostra nel suo libro Il giocatore trasformato in un film da Franco Paternò ed interpretato da Elio Germano nel ruolo del DJ fiorentino, lavoro che gli permette di sfuggire alle pressioni familari ed allo stesso tempo lo inizia alle scommesse nell’agenzia dove il capo lo manda a riscuotere il suo primo stipendio. Trasferitosi a Milano perché assunto da Radio DJ, dove sfonda con una trasmissione mattutina (la parte migliore della sua giornata , da cui il titolo del film) si imbatte nuovamente in una casa da gioco che lo vedrà protagonista di un escalation di scommesse e debiti non pagati che lo porteranno ad un passo dalla morte per mano degli strozzini che non riesce a rimborsare.
Se il fattore della casualità risponde necessariamente all’esperienza autobiografica, tutt’altra questione è la sua messinscena che sembra dettata da esigenze di carinerie produttive più che da una coerente cifra stilistica. Accade infatti che la regia, decisa a rinunciare al talento visivo ed all’audacia di Paterfamilias, si appiattisce su una messinscena che si sforza di far convivere all’interno di una storia di per sé dolorosa ma di fatto impostata con toni tragicomici film virziniano, un cote da autore drammatico che dovrebbe far emergere la deriva della dipendenza. Anche l’impianto narrativo non gli è da meno in termini di dualismi irrisoltì, fallendo il sincretismo tra la vita radiofonica e quella delle scommesse, entrambe attraversate da un protagonista che sembra non rendersi conto delle inevitabili differenze e lasciando spazio ad una serie di personaggi minori che si affacciano nel film per dare a scene macchiettistiche che incidono negativamente sull’economia del film. Il risultato è un film senza lacrime ne riso che scorre via anonimo se non fosse per la bella interpretazione di Elio Germano che inizia a distinguersi anche per il talento con cui getta a mare la sua bravura

Jumper


Doug Liman ha smarrito la strada. È la cosa non è bella per chi si era entusiasmato con, Swingers, (1996), esordio da indipendente targato Sundance, proseguito con il puzzle modello Pulp Fiction di Go- Una notte da dimenticare fino al primo e miglior film della serie delle avventure di Jason Bourne. Da li una vertiginosa discesa con Mr and Mrs Smith, una specie di corso prematrimoniale per la coppia Pitt/ Jolie fino al tonfo di questo film. Lanciato come un mix tra Bourne e Matrix, per le analoghe mobilità spazio temporali e le fughe globe trotters del protagonista Jumpers in realtà è ben altra cosa. E' uno spettacolino per adolescenti che il film blandisce mescolando estetiche giovanilistico televisive con il testosterone superoistico modello Marvel ( l’alleanza formata dei due saltatori si rifà agli albi cosiddetti Team Up dove gli eroi di 2 differenti testate davano vita ad estemporanee collaborazioni) che sono inserite all’interno di un impianto narrativo discontinuo ( gli inserti esistenziali che dovrebbero spiegare le motivazioni del protagonista sono didascalici e rallentano l’azione) e privo di meraviglia ( i tuffi dentro e fuori dal tempo, unico motivo del film perdono presto la loro efficacia). Il mondo in cui si muovono i personaggi, uno degli elementi di forza in film di questo genere per la capacità di dare senso e verosimiglianza alle incredibili vita dei personaggi è del tutto assente. Quando invece il film prova a spiegarsi lo fa in maniera confusa e stereotipata (gli accenni alla politica da grande fratello messo in atto all’indomani dell’11 settembre così come quelli all’america teocom, omofobica e puritana sono uno sfruttatissima via di uscita per la totale mancanza di idee). La crociata dei Paladini sodalizio di origine medievale impegnati a tenere alto i valori di Dio eliminando tutte le manifestazioni che potrebbero metterne in discussione il primato (la presenza dei Jumpers, con i loro poteri sovraumani lo potrebbero fare) incrocia le strade di David Rice (il poco simpatico Hayden Christensen), mutante capace di teletrasportarsi con la sola forza del pensiero e costretto ad affrontare le persecuzioni di Samuel Lee jackson a capo della squadra incaricata di eliminarlo. Quando il cerchio si stringe ed arriva a minacciare la fidanzata appena ritrovata, il nostro troverà il coraggio di prendersi le proprie responsabilità, affrontando la sua nemesi in una sfida da ultima spiaggia. La banalità della trama basterebbe da sola ad annichilire qualsiasi curiosità ma l'insulsaggine con cui il film la traduce sullo schermo castra qualsiasi tipo di slancio immaginifico e questo un film del genere non se lo può permettere. Uomo avvisato è mezzo salvato.

Lo scafandro e la farfalla (2)

Lo Scafandro e la Farfalla , il bel titolo del nuovo film di Julian Schnabel è di quelli destinati a rimanere nella testa non soltanto per l’accostamento audace dei sostantivi ma piuttosto per il mondo fiabesco evocato dalla sua lettura. Tratto dall’omonimo libro di JD Bauby, uomo di successo relegato su una sedia a rotelle dall’ ictus che lo ha reso catatonico ed incapace di parlare, il film ripercorre sotto forma di diario intimo e resoconto esperienziale quei terribili momenti, dalla scoperta della malattia alla difficile quanto insoddisfacente rieducazione, in cui anche il gesto più istintivo è il risultato di un lavoro lungo e faticoso fino alla decisione di iniziare la stesura del libro scritto per interposta persona attraverso i battiti dell’occhio sinistro rimasto miracolosamente illeso.
Ed in effetti se lasciamo perdere le pretese di realismo legate alle vicissitudini del genere presenti ma non preponderanti ed i pregiudizi morali per i film che fanno “vedere” la malattia non sarà difficile trovare analogie tra lo sfortunato protagonista ed il fanciullo viaggiatore creato da Euxepery nel “Il piccolo principe”; ad accomunare i due naufraghi esistenziali non è solamente la consapevolezza di un destino già segnato ma piuttosto il loro approccio alla vita, la forza interiore con cui affrontano quest’ultimo viaggio, il senso panteistico con il quale gli si offrono, lo sguardo stupito ed una curiosità insaziabile per il sublime del mondo, le cui infinite meraviglie sembrano un giardino d’infanzia per bambini mai cresciuti ed il posto ideale per reinventare la propria esistenza. Esente dai soliti clichè pietistici e ricattatori, valga per tutti l’atteggiamento del protagonista deciso ad affermare se stesso e le sue scelte di uomo libero anche di fronte all’evidente impotenza fisica (il sentimento amoroso per l’amante confermato in maniera impietosa di fronte alla moglie che lo sta accudendo e l’irrefrenabile desiderio verso l’angelica infermiera) il film è girato per la maggior parte in soggettiva, con lo schermo che riproduce il mondo visto ed immaginato da Bauby, e si avvale di una struttura che mischia continuamente elementi onirici (la natura psichedelica e surreale ricorda quella immortalata da Godfrey Reggio in Koyaanisqatsi così come le apparizioni della dama ottocentesca desunte dal busto femmineo presente nell’ospedale) e naturalistici (le lettere dell’alfabeto scandite dalla logopedista ed i dettagli fisioterapici) che deve molto alla fantasia del pittore Schnabel capace di svincolare l’idea di bellezza dalla fisicità in cui l’abbiamo relegata e maestro nell’amalgamare sequenze che riproducono su pellicola una sensibilità aperta alle commistioni degli stili cinematografici (dalle sequenze in super 8 al video al video clip anni 80 dal flusso spezzato e rapsodico della novelle vague a quello lineare e televisivo, non dimenticando il primo piano dell’occhio cucito che rimanda a quello tagliato dell’indimenticaile capolavoro di Bunuel) e pittorici (esp/imp-ressionismo, surrealismo e pop art si mischiano e si confondono in un gioco di rimandi e suggestioni che rompono gli schemi e gridano libertà) ma anche alla tecnica insuperabile del suo direttore della fotografia Janusz Kaminski, uno dei migliori in circolazione impareggiabile nel ricreare i colori della memoria e quelli del sogno (la Farfalla), nel riprodurre i limiti fisici e le costrizioni della tomba di carne (lo Scafandro) così come le posture di un corpo che si ribella alla natura (le riprese a tre quarti a replicare il capo reclinato). Qualità che sono di per sé straordinarie ma che in fin dei conti risultano troppo controllate, frutto di uno studio a tavolino che conferisce al film originalità ma toglie respiro alle emozioni che finiscono per vivere di natura propria , nascono dall’evidenza dei fatti e non dalla drammaturgia della vicenda. Pur non essendo un capolavoro siamo di fronte ad un film di regia che si mantiene abbondantemente sopra la media e segna un deciso passo in avanti nella carriera dell’intraprendente autore.