venerdì, gennaio 25, 2008

Cous Cous


Vincitore morale dell’ultimo festival di Venezia, Cous Cous, di Abdel Kechiche, ha conquistato il cuore degli spettatori per la carica emotiva dei personaggi, così ben scritti e così abilmente diretti sul set, ed una storia di sicura presa, apparentemente semplice e scontata. Fa ripensare al cinema italiano degli anni ’40, quel neo realismo targato De Sica e Rossellini che ha saputo mettere in luce il lato amaro della vita senza perdere la speranza nell’uomo e nelle sue possiblità.

Il titolo originale e’ La graine et le mulet scelto con cura dal regista e purtroppo così mal tradotto in italiano: in Cous Cous infatti si perde il senso profondo del soggetto.
Girato a Se'te, tra il Mediterraneo e lo stagno di Thau, La graine et le mulet ha nel titolo originale gli ingredienti del cous-cous: i grani e il muggine, cibo d'elezione delle famiglie arabe, quelle stesse che ruotano intorno al protagonista Slimane (Habib Boufares) e che si ritrovano intorno alla tavola da pranzo per condividere cibo, sentimenti e problemi. I personaggi vivono un senso di appartenenza e di protezione che si rinnovano nel gesto amorevole della madre del preparare il cous cous domenicale. La famiglia nutre e accoglie, è un riferimento imperituro, di sangue e cultura, ma è anche il primo e più doloroso luogo di perdita e sofferenza. E come nel cous cous unisce soggetti così tanto diversi tra loro, per creare una composizione unica nel proprio genere.
Abdel Kechiche, autore de La schivata, in questo suo terzo film torna a parlare degli arabo-francesi di Marsiglia, da decenni integrati nell’area marsigliese ma comunque, in qualche modo, visti sempre come 'diversi'.
Ma non e’ il problema dell’integrazione razziale a condurre il film, o almeno non solo, bensì le problematiche famigliari, il tentativo di dare un senso, uno scopo, alla propria esistenza, senza sentirsi arrivati, e l’incessante lotta tra ciò ch si crede di essere e ciò che si è davvero, quel mistero tremendo che sottende al destino di tutti.
Ho conferito - prosegue il regista - a questa famiglia il diritto a una dimensione romanzesca e contemplativa, mostrando quello che piu' mi tocca: la vita al di sopra dell'artificio cinematografico: al di la' del piacere di filmare, credo sia questa la mia cifra cinematografica. Il cous cous e' come la pizza o la pasta per voi italiani: qualcosa che i personaggi possono condividere, una dimensione identitaria di solidarieta' e unione". Per quanto riguarda la realizzazione del film, Kechiche dice: "Ho avuto bisogno di provare a lungo - la mia formazione e' teatrale - affinche' gli attori si sentissero davvero una famiglia. Per creare la giusta atmosfera fondamentale e' stata la musica: la vita era li', e ho cercato di coglierla. Ma mi imbarazza parlare di improvvisazione, preferisco piuttosto definirla liberta', quella che permette agli attori di appropriarsi del testo e del personaggio, sentendosi parte di una grande famiglia e perdendo le inibizioni". (Rai News)

La narrazione cresce gradualmente, come un germoglio verde, e prende forza durante le due ore e mezza del film. Lo script era stato scritto da Kechiche sulla figura del padre e doveva essere interpretato dal padre stesso, ma la sua prematura scomparsa blocco’ la produzione, ripresa in mano dal regista solo dopo qualche anno e solo dopo aver trovato, in un amico non attore, il volto ed i tratti espressivi del protagonista.
In Cous Cous ritroviamo segni di Rossellini e De Sica, per quel dolce-amaro che sottende agli eventi e per la malinconia profonda ed il senso di smarrimento che pervadono il protagonista; riroviamo tratti di John Cassavetes, per la forza degli attori, la naturalezza dei loro movimenti e soprattutto per i tanti primi piani che si appoggiano sui volti come finestre, come puntano come frecce, proprio come in Faces, come se volessero fare di quei volti piccoli arieti che bucano lo schermo e scendono in mezzo alla platea, per raccontare dal vivo le loro emozioni e svelarci che siamo noi stessi parte della loro storia; ritroviamo tratti di Kieslowski, per l’ineluttabilità degli eventi e per come ognuno di noi sia così inconsapevolmente responsabile delle proprie scelte da risultare goffo e compassionevole; ritroviamo un cinema intimo e di introspezione, sorretto da ottimi dialoghi e da una messa in scena perfetta.
Ma questo è soprattutto, a mio modesto parere, un tributo alle donne , perche' sono proprio le donne, con la loro passione, la fantasia, l’enegia straripante, la voglia di vivere e l’inimitabile sensualità, ad animare la quotidianità e, in questo contesto, a risolvere i problemi che paiono inestricabili.
Questa pellicola è bellezza, è sorpresa, è incanto, per come riesce a coinvolgere lo spettatore, risucchiandone sguardi e attenzione, lungo le curve del suo racconto.
Distribuiscde Lucky Red, di Andrea Occhipinti, ancora un a volta attenta promotrice di buon cinema.

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