martedì, gennaio 29, 2008

The buchet list

the bucket list La lista del Capolinea è l’elenco dei desideri da soddisfare prima di morire. Un modo come un altro per non pensare ad una morte che ha la faccia di un malattia ad orologeria ed il dolore subdolo del palliativo chemioterapico affrontato dai due protagonisti a seguito della terribile diagnosi.
La sciagura è un fulmine a ciel sereno per due uomini che fino a quel momento erano profondamente calati nel loro ruolo quotidiano (Freeman saggio patriarca col il pallino della cultura in pillole che dispensa rispondendo ai quiz televisivi, Nicholson, capitalista misogeno e caustico, che ha sostituito gli affetti famigliari con il culto di mammona) e che improvvisamente si ritrovano a condividere una stanza d’ospedale ed un destino che li costringe a confrontarsi, attraverso una serie di schermaglie che preannunciano l’inevitabile amicizia, concedendosi una pausa dai problemi contingenti (ancora una volta attraverso il viaggio simbolo di quel movimento reale e metaforico che da sempre è il marchio della cultura americana) e riconciliandosi con quella parte di sé che la vita aveva soffocato.
The Bucket list, realizzato da Rob Reiner (The Sure thing e When Harry meets Sally) con una professionalità che non lascia spazio alla fantasia, è una commedia agrodolce che esorcizza la morte e ci mostra la paura come conseguenza di una serie di azioni mancate, che il film concentra soprattutto nel personaggio di Nickolson, incapace di confessare prima di tutto a se stesso l’amore verso una figlia allontanata dalle incomprensioni famigliari, ma anche in quello di Freeman nel ritrovato rapporto coniugale affievolito dalla routine di una fedeltà mai messa in discussione e favorito da un invenzione del compagno di avventure tanto semplice quanto efficace nel dimostrare che nessuno è perfetto, ma tutto è migliorabile.
Il sodalizio divistico, oltre ad essere il punto di forza del film, deve la sua efficacia alla complementarità della recitazione: esibita e cialtrona quella del vecchio Nick, che nella seconda parte dai toni maliconici e decisamente commovente, rinuncia - se Dio vuole - al mefistofelico sorriso e torna a recitare; cool e leggiadra quella di Freeman, appena visto aitante e baldanzoso in Ten items or less, e qui in un ruolo completamente opposto, semplicemente perfetto per tempi e misura.
Il film perde colpi soprattutto nella parte centrale e al dunque con una serie di cartoline che scandiscono per tappe successive i momenti dello spensierato viaggio e risultano un espediente poco riuscito per allungare un'opera che non ha il respiro di un lungometraggio.

Into the wild


Una parabola umana ed esistenziale sulla necessità di liberarsi dai condizionamenti che ci allontanano dalla nostra essenza, Into the wild è un film importante per vari motivi: innanzitutto segna la definitiva maturazione di una personalità che rischiava di rimanere imbrigliatà in un maledettismo fine a se stesso ed invece è riuscita, grazie ad un percorso cinematografico fortemente individuale e ricco di spunti psicanalitici, a metabolizzare i propri fantasmi e farne il punto di partenza per una consapevolezza pronta a mettersi in gioco con i grandi temi della contemporaneità americana e non (la nota trilogia Dio , patria e famiglia ma anche ambiente e palingenesi sociale), senza perdere di vista le esigenze di un privato che non è più disgiunto dalla realtà ma riesce ad interrogarla con la necessaria lucidità.
L’uomo in rivolta lascia all’arte il compito di trovare il senso delle sue azioni attraverso la rappresentazione di un mondo che sembra ricalcarne le inquietudini e soprattutto le scelte: l’inadeguatezza da Mac Endless rispetto al proprio nucleo familiare ed in senso più vasto ad una società che rinnega il senso dell’umano, la voglia di fuga che si mischia ad uno spirito d’avventura tipicamente americano, il concetto di esperienza come strumento indispensabile di conoscenza e comprensione sono le tappe di un ascetismo senza sangue e di una liberazione che appartiene al ciclo naturale delle cose e si presenta, con l’immagine del protagonista riflesso nel cielo in perfetta sintonia con il respiro dell’anima mundi, sintesi magistrale di un opera che riesce ad unire il linguaggio delle immagini con quello della parola, come un eterno ritorno a cui non c’è mai fine. Il paesaggio geografico di una bellezza struggente ed insieme crudele rimanda continuamente alle tappe emotive di questa ri-nascita, scandita nel film dai capitoli di un libro immaginario ed insieme reale (il film ci ricorda la bellezza di autori dimenticati od oggetto di facili semplificazioni come Jack London, Walden, Tolstoj) le cui frasi trovano rispondenza nella forza delle immagini che Penn costruisce con l’ispirazione di un poeta e la concretezza della vità, riuscendo ad eliminare dal suo cinema certi tic autoriali (uso esasperato del rallentì, spleen screen e distorsioni temporali al limite del sopportabile) e di scrittura (con storie che avevano la tendenza ad avvolgersi su se stesse) che lo emenacipano dal clichè elitario a cui si era relegato. Al contrario Into the wild è un film che rompe il muro di silenzio di un regista che ha ha imparato la lezione della vita e la vuole condividere in maniera costruttiva, lasciando ad altri il culto della morte (anche se il finale potrebbe sconfessare quest’affermazione inducendo i giovanissimi ad una pericolosa rilettura) e preferendo la voglia di fare all’apatia dei discorsi che rimangono sulla carta. Allo Sturm und Drung del super uomo herzoghiano, capostipite di quell’umanesimo panteista che pervade il film, Penn affianca un tipo umano (a cui Emile Hirsh, in un interpretazione totale, regala la sua faccia da ragazzo della porta accanto) che sente con altrettanta intensità ma reagisce con una saggezza antica come il mondo che sta scoprendo. Penn ci invita a fare le cose in grande rifiutando i modelli di un autoemarginazione minimale e compiaciuta così come lo spontaneismo di chi vive alla giornata, proponendo una scelta radicale da non seguire in maniera letterale ma cogliendone attraverso il paradosso finale, l’urgenza dell’attuazione, prima che il velo dipinto distolga i nostri occhi dal vero senso della vita.

lunedì, gennaio 28, 2008

Film in sala da venerdi' 1 febbraio

SOGNI E DELITTI
Cassandra's Dream
regia: Woody Allen
genere: dramamtico
prod: USA/Gran Bretagna

CLOVERFIELD
Cloverfield
regia: Matt Reeves
genere: azione
prod: USA

P. S. I LOVE YOU - NON E' MAI TROPPO TARDI PER DIRLO
P. S. I love you
regia: Richard LaGravenese
genere: commedia
prod: USA

IL FALSARIO - Operazione Bernhard

Die Fälscher
regia: Stefan Ruzowitzky
genere: drammatico
prod: Austria, Germania

PAROLE SANTE
Parole sante
regia: Ascanio Celestini
genere: documentario
prod: Italia

Mr. Magorium e la bottega delle meraviglie
Mr. Magorium's Wonder Emporium
regia: Zach Helm
genere: commedia
prod.: USA

venerdì, gennaio 25, 2008

Cous Cous


Vincitore morale dell’ultimo festival di Venezia, Cous Cous, di Abdel Kechiche, ha conquistato il cuore degli spettatori per la carica emotiva dei personaggi, così ben scritti e così abilmente diretti sul set, ed una storia di sicura presa, apparentemente semplice e scontata. Fa ripensare al cinema italiano degli anni ’40, quel neo realismo targato De Sica e Rossellini che ha saputo mettere in luce il lato amaro della vita senza perdere la speranza nell’uomo e nelle sue possiblità.

Il titolo originale e’ La graine et le mulet scelto con cura dal regista e purtroppo così mal tradotto in italiano: in Cous Cous infatti si perde il senso profondo del soggetto.
Girato a Se'te, tra il Mediterraneo e lo stagno di Thau, La graine et le mulet ha nel titolo originale gli ingredienti del cous-cous: i grani e il muggine, cibo d'elezione delle famiglie arabe, quelle stesse che ruotano intorno al protagonista Slimane (Habib Boufares) e che si ritrovano intorno alla tavola da pranzo per condividere cibo, sentimenti e problemi. I personaggi vivono un senso di appartenenza e di protezione che si rinnovano nel gesto amorevole della madre del preparare il cous cous domenicale. La famiglia nutre e accoglie, è un riferimento imperituro, di sangue e cultura, ma è anche il primo e più doloroso luogo di perdita e sofferenza. E come nel cous cous unisce soggetti così tanto diversi tra loro, per creare una composizione unica nel proprio genere.
Abdel Kechiche, autore de La schivata, in questo suo terzo film torna a parlare degli arabo-francesi di Marsiglia, da decenni integrati nell’area marsigliese ma comunque, in qualche modo, visti sempre come 'diversi'.
Ma non e’ il problema dell’integrazione razziale a condurre il film, o almeno non solo, bensì le problematiche famigliari, il tentativo di dare un senso, uno scopo, alla propria esistenza, senza sentirsi arrivati, e l’incessante lotta tra ciò ch si crede di essere e ciò che si è davvero, quel mistero tremendo che sottende al destino di tutti.
Ho conferito - prosegue il regista - a questa famiglia il diritto a una dimensione romanzesca e contemplativa, mostrando quello che piu' mi tocca: la vita al di sopra dell'artificio cinematografico: al di la' del piacere di filmare, credo sia questa la mia cifra cinematografica. Il cous cous e' come la pizza o la pasta per voi italiani: qualcosa che i personaggi possono condividere, una dimensione identitaria di solidarieta' e unione". Per quanto riguarda la realizzazione del film, Kechiche dice: "Ho avuto bisogno di provare a lungo - la mia formazione e' teatrale - affinche' gli attori si sentissero davvero una famiglia. Per creare la giusta atmosfera fondamentale e' stata la musica: la vita era li', e ho cercato di coglierla. Ma mi imbarazza parlare di improvvisazione, preferisco piuttosto definirla liberta', quella che permette agli attori di appropriarsi del testo e del personaggio, sentendosi parte di una grande famiglia e perdendo le inibizioni". (Rai News)

La narrazione cresce gradualmente, come un germoglio verde, e prende forza durante le due ore e mezza del film. Lo script era stato scritto da Kechiche sulla figura del padre e doveva essere interpretato dal padre stesso, ma la sua prematura scomparsa blocco’ la produzione, ripresa in mano dal regista solo dopo qualche anno e solo dopo aver trovato, in un amico non attore, il volto ed i tratti espressivi del protagonista.
In Cous Cous ritroviamo segni di Rossellini e De Sica, per quel dolce-amaro che sottende agli eventi e per la malinconia profonda ed il senso di smarrimento che pervadono il protagonista; riroviamo tratti di John Cassavetes, per la forza degli attori, la naturalezza dei loro movimenti e soprattutto per i tanti primi piani che si appoggiano sui volti come finestre, come puntano come frecce, proprio come in Faces, come se volessero fare di quei volti piccoli arieti che bucano lo schermo e scendono in mezzo alla platea, per raccontare dal vivo le loro emozioni e svelarci che siamo noi stessi parte della loro storia; ritroviamo tratti di Kieslowski, per l’ineluttabilità degli eventi e per come ognuno di noi sia così inconsapevolmente responsabile delle proprie scelte da risultare goffo e compassionevole; ritroviamo un cinema intimo e di introspezione, sorretto da ottimi dialoghi e da una messa in scena perfetta.
Ma questo è soprattutto, a mio modesto parere, un tributo alle donne , perche' sono proprio le donne, con la loro passione, la fantasia, l’enegia straripante, la voglia di vivere e l’inimitabile sensualità, ad animare la quotidianità e, in questo contesto, a risolvere i problemi che paiono inestricabili.
Questa pellicola è bellezza, è sorpresa, è incanto, per come riesce a coinvolgere lo spettatore, risucchiandone sguardi e attenzione, lungo le curve del suo racconto.
Distribuiscde Lucky Red, di Andrea Occhipinti, ancora un a volta attenta promotrice di buon cinema.

giovedì, gennaio 24, 2008

American Gangster

Harlem 1968. Frank Lucas: nero, affascinante, è la guardia del corpo di un anziano boss che gestisce il quartiere con metodi vecchio stampo, ascolta le preghiere della gente di Harlem e regala tacchini il giorno del ringraziamento.
Richie Roberts: bianco, ebreo, laureato, sbirro, vita coniugale incasinata e da la caccia ai malavitosi.
Alla morte (naturale) del vecchio padrino, Frank Lucas rompe gli indugi, elimina i vecchi modi di fare e in pochi anni diventa l'indiscusso Re dell'eroina, andandosi a rifornire, a prezzi stracciati, direttamente in Vietnam con la complicità di soldati usa impegnati nel conflitto.

Anche questa volta Ridley Scott ci racconta la storia di 2 antagonisti come ha già fatto ne I DUELLANTI e ne IL GLADIATORE.
Oltre ai capi ci sono anche gli eserciti; lo spacciatore Lucas a capo della sua banda e supportato da un buon numero di poliziotti corrotti (sublime Josh Brolin), Roberts a capo dei giusti, duri e puri.
Tentativo di cinema d'intrattenimento colto, sullo sfondo la guerra del Vietnam con tutti gli interessi che ruotano intorno al conflitto, interessi politici e criminali che muovono fiumi di dollari.
Peccato che la vita del ghetto, la vita squallida dei tossici "duri", la povertà, al pari della guerra del Vietnam, rimangano sullo sfondo e vengano solo sfiorati da R. Scott.
Ad eccezione dei protagonisti, tutto è abbozzato e il film si riduce a semplice cronaca che non emoziona, seppur meravigliosamente rappresentata.
Bella fotografia con cambio di colore a seconda del periodo storico, tempi scanditi da una efficace colonna sonora.
Ridley Scott da il meglio di se nel finale evidenziando quanto ci viene raccontato parallelamente al plot principale. Il rincorrersi e superarsi delle generazioni, il nuovo e il vecchio, Frank Lucas che sostituisce il suo vecchio boss aspettandone la morte naturale, mentre dopo "soli" 15 anni di galera (siamo all'inizio dei '90) una volta fuori è un uomo "criminalmente vecchio" che viene subito "aggredito" dalla nuova generazione criminale che si presenta allo spettatore nelle vesti della colonna sonora hip hop.
Frank Lucas è di nuovo nell'arena, come Maximus ne IL GLADIATORE, ma tutto ci fa pensare che questa volta sarà sbranato.
Fotogramma finale di eccezionale bellezza.
(Fabrizio Luperto)

martedì, gennaio 22, 2008

Caludia Gerini nel futuro

Claudia ha le idee chiare sul futuro: "Quando mia figlia Rosa avrà 25 anni andrò in Africa a insegnare a leggere e scrivere ai bambini". (Fonte TgCom)

FIlm nelle sale da venerdi' 25 gennaio

SCUSA MA TI CHIAMO AMORE
SCUSA MA TI CHIAMO AMORE
Regia: Federico Moccia
Genere: drammatico

UN UOMO QUALUNQUE
HE WAS A QUIET MAN
Regia: Frank Cappello
Genere: commedia

ALIEN VS. PREDATOR 2
ALIEN VS. PREDATOR: REQUIEM
Regia: Colin Strause, Greg Strause
Genere: azione

HOTEL MEINA
HOTEL MEINA
Regia: Carlo Lizzani
Genere: drammatico

INTO THE WILD
INTO THE WILD
Regia: Sean Penn
Genere: drammatico

LA FAMIGLIA SAVAGE
THE SAVAGES
Regia: Tamara Jenkins
Genere: commedia

NON E’ MAI TROPPO TARDI

THE BUCKET LIST
Regia: Rob Reiner
Genere: commedia

Il club di Jane Austen

Il Club di Jane Austen ripropone un cinema al femminile che negli anni 80 aveva trovato nuovo vigore attraverso produzioni più che altro indipendenti, nelle quali la struttura narrativa mutuata dal seminale The Big Chill (Il grande freddo di Lawrence Kasdan,1983) incontrava il flusso di coscienza e l’impressionismo Cassavetiano. Ricchi di quell’esuberanza artistica tipicamente Sundance ed esenti dalle esigenze di botteghino, questi film riportavano l’attore al centro della scena e rappresentavano un punto di incontro e di confronto, privato ed insieme artistico per diverse generazioni di attrici; una sfida umana e professionale per ritrovare l’entusiasmo degli inizi ed affinare il proprio repertorio. A suo agio con il testo scritto e l’universo femminile (sua la sceneggiatura di Memorie di una geisha) Swicord contestualizza le tematiche della Austen riproducendone il microcosmo affettivo e sentimentale all’interno del Club a lei dedicato, nel quale le protagoniste con cadenza mensile si ritrovano a discutere dei suoi libri, da cui traggono lo spunto per cercare di risolvere una vita amorosa sempre in bilico.
Il consesso letterario diventa quasi subito una terapia di gruppo nella quale i libri prendono vita attraverso il vissuto delle protagoniste, il cui cotè è perfettamente calato in quel mondo di frizzanti schermaglie e improvvise ritrosie, dove l’incapacità di lasciarsi andare fino in fondo è compensata da un crogiuolo di incontenibili contraddizioni che costituiscono quell’ onda di calda umanità negata ad oltranza da tanto cinema contemporaneo. In questo contesto non bisogna stupirsi se gioie e dolori vengono accomunati da una visione conciliante ed in fin dei conti consolatoria perché lo scopo dell’opera non è quella di fornire un prontuario sulla vita ma concedere allo spettatore uno sguardo svincolato da qualsiasi determinismo o presunta ideologia e riportarlo in quella sospensione emotiva dove il male non esiste e la felicità è una chimera a portata di mano. Interpretato da un gruppo di attrici tutte in parte tra le quali si distinguono l’emergente Emily Blunt, deliziosamente irriconoscibile rispetto al ruolo della nevrotica segretaria de il Diavolo veste Prada, Maria Bello, materna e sensuale nel ruolo di single impenitente, Kathy Baker, ironica e scansonata nell’interpretare una sorte di madre putativa per l’eccentrico gruppo, il Club di Jane Austen, nonostante la densità dei dialoghi che, specialmente nella seconda parte, quando il film tira le fila degli intrecci narrativi, rischiano di rallentarne il ritmo, è un film da consigliare a tutti coloro che amano le donne ma anche a chi, tra il genere maschile si lamenta di non conoscerne i segreti e continua a non capire che l’altra metà del cielo è più vicina di quanto si possa credere: basterebbe rimanere in silenzio per un momento e provare ad ascoltarla.

venerdì, gennaio 18, 2008

La signorina effe

Valeria Solarino
"La mia generazione"(1996)di Wilma Labate ce l'aveva fatta conoscere con una storia che era insieme la fine di un'epoca (quella del terrorismo) ed il resoconto di un'utopia irrealizzabile. La Signorina Effe costituisce il seguito ideale di quel film, non solo dal punto di vista cronologico (il 1980 e la sconfitta del movimento operaio andarono di pari passo con la recrudescenza dell'eversione), ma anche per la voglia di raccontare con malinconica nostalgia un mondo in via di estinzione, nel quale aveva ancora senso parlare di partito comunista e sciopero ad oltranza.
Il titolo del film derivato dal documentario "Signorina Fiat", di Giovanna Boursier, da cui il film prende spunto, fa riferimento, giocando con la poesia del torinese Gozzano (Signorina felicita, agli scenari del capoluogo piemontese, da sempre punto di riferimento e snodo focale per le sorti del proletariato italiano, descrivendo, attraverso l'amore contrastato dei due protagonisti, il clima e le vicende dei 37 giorni di sciopero organizzato dai lavoratori della FIAT per annullare i provvedimenti di cassa integrazione a zero ore di 25000 lavoratori, decisa dalla dirigenza per mettere fine alla crisi economica che l'attanagliava.
Il film ripercorre quei momenti attraverso spezzoni di repertorio che ci mostrano l'ondata di attenzione ed insieme di accorata partecipazione che portarono la questione operaia al vertice dei problemi nazionali. Dopo la solidarieta' iniziale, (in uno dei comizi torinesi Berlinguer dichiara il totale supporto del suo partito alle iniziative poste in essere) in cui la speranza prevale sulle difficolta' del reale, subentrano le differenze di vedute ed il movimento si divide: da una parte le vecchie generazioni schierate a favore di quel padrone che li ha salvati dall'indigenza delle origini, disposti a seguirlo nelle sue decisioni, dall'altra quelle nuove che rifiutano questa rassegnazione senza futuro e sono disposti a rischiare lo stipendio per invertire la tendenza. Sergio ed Emma scandiscono quei momenti attraverso le diverse fasi del loro amore e rappresentano insieme le due anime di quel movimento, quella nuda e pura (lui) che ci crede fino in fondo, l'altra decisa a tirarsi fuori (lei), ad abbandonare le utopie ed i sacrifici a favore di scelte pragmatiche e di carriera (laurearsi e sposare l'ingegnere che favorirebbe la sua ascesa). Le loro divergenze reali e immaginarie finiranno spazzate via dalla storia che portera' i protagonisti di quegli eventi e del nostro film ad un eguale risultato di sconfitta. La Signorina Effe ha il pregio di ricordarci un pezzo della nostra storia, attraverso un plot che deludera' chi ha vissuto quei momenti, per le semplificazioni che non rendono giustizia alla complessità del momento ma potra' interessare, per l'appeal dei protagonisti - un mix di corpi e facce che respingongono ed insieme attraggono (Valeria Solarino che recita con gli occhi e con lo sguardo e Filippo Timi, un corpo da Fronte del Porto ed una faccia da Serpico all'italiana) - il pubblico piu' giovane, che entra per la prima volta nella storia che fu dei propri genitori.
Wilma Labate confeziona un prodotto che ha i difetti di molta produzione italiana, con un linguaggio pressoche' televisivo e la mancanza di coraggio che gli impedisce di dire fino in fondo come stanno le cose (ma perche' non viene mai pronunciato il nome di Gianni Agnelli?), ma al contrario la capacita' di dirigere gli attori in una performance che alla alla fine costituisce il punto di forza del film.

mercoledì, gennaio 16, 2008

Film in sala da venerdi' 18 gennaio

AMERICAN GANGSTER
AMERICAN GANGSTER
Regia: Ridley Scott
Genere: drammatico

IL CLUB DI JANE AUSTEN
THE JANE AUSTEN BOOK CLUB
Regia: Robin Swicord
Genere: drammatico

GLI ARCANGELI
GLI ARCANGELI
Regia: Simone Scafidi
Genere: drammatico

IL FALSARIO - OPERAZIONE BERNHARD
DIE FÄLSCHER
Regia: Stefan Ruzowitzky
Genere: drammatico

L’INCUBO DI JOANNA MILLS
THE RETURN
Regia: Asif Kapadia
Genere: thriller

RIPARO - ANIS TRA DI NOI
RIPARO - ANIS TRA DI NOI
Regia: Marco Simon Puccioni
Genere: drammatico

ALVIN SUPERSTAR
ALVIN AND THE CHIPMUNKS
Regia: Tim Hill
Genere: commedia

SIGNORINA EFFE

SIGNORINA EFFE
Regia: Wilma Labate
Genere: drammatico


grazie ad Anemicinema per gli elenchi :-)

Bianco e Nero

Essere figlio d’arte non deve essere cosa facile: il lasciapassare ereditato dal famoso genitore diventa alla lunga un condizionamento che sul piano artistico si traduce in una produzione senza spessore, eternamente indecisa sugli obiettivi (alti o bassi) da raggiungere e indecifrabile negli esiti finali: insomma un'opera spuria che nel caso della Comencini e del suo “Bianco e Nero” delude tutti: in primo luogo lo spettatore di cassetta, che si diverte a riconoscere se stesso sullo schermo, e poi quello, sparuto ma di tendenza, sopravvissuto all’ondata del cinepanettone. Una carriera freudiana (al contrario della sorella che ha trovato nel contesto contemporaneo l’ambiente ideale per un cinema dapprima intimista ed ora dichiaratamente civile) fatta di drammi a forti tinte(“Bestia nel cuore”) e Commedia leggera (“Liberate i pesci”) che la Comencini tenta di ricomporre all’insegna di quella Commedia all’italiana che a partire dai 50 voleva uscire dal ricordo della guerra senza tradire la realtà con uno sguardo accondiscendente e melenso. Modelli di un cinema diverso e da dimenticare se si vuole pensare a qualcosa di nuovo e imparare a camminare da soli, incominciando a lasciarsi coinvolgere, nella maniera disordinata e scomposta di chi il disagio lo vive veramente; puntando ad un prodotto che arriva al cuore del problema infischiandosene del gusto dominante e dei modelli precotti e di successo; provando a tirare fuori senza mediazioni ne ideologie (cosa che Bianco e Nero non fà) il mostro che c’è in noi, così da capire quello che c’è negli altri (d’altronde i grandi della commedia non interpretavano ma erano); in grado di leggere quella realtà che la Comencini vuole disvelare ed invece continua a disconoscere girandogli intorno con storielle infiocchettate di buoni propositi (in questo caso dimostrare che la differenza tra le persone la fa il cuore e non la pelle), ma risolte con le solite scorciatoie che evitano accuratamente il fosforo del pubblico e lo relegano nella solita apatia televisiva; senza “Parenti Serpenti” (quello si era un film che faceva male) che sembrano dei mostri ma in realtà non lo sono, e dialoghi che strizzano l’occhio ad un immaginario indeciso tra il boccaccesco (si fa per dire) Pieraccioniano (tutte le scene ambientate nella casa/lavoro della sorella della splendida protagonista) ed il decor borghese Ozpetekiano su cui il film sembra sparare e da cui non si emancipa neanche un momento. Bianco e nero è un film scaturito dai sensi di colpa di chi non sa rinunciare ai propri privilegi ma d’altro canto non ha neanche il coraggio di viverli liberamente; si contornia di volti (Fabio volo, un non attore che davanti alla telecamera fa la sua figura perché almeno per il momento ci si pone ancora come un principiante) e corpi rassicuranti (quello neutro e pieno di responsabilità dell’Angioini si contappone alla materna carnalità dell’attrice Africana) che non riescono mai a trasfigurare nella maschera delle nostre ipocrisie (nel film un integrazione razziale espressa a parole ma evitata nel privato) ed a incarnare i vizi privati e le pubbliche virtù enunciate dall’assunto del titolo (fuori belli dentro marci). Costretto a districarsi tra l’amor fou dei due protagonisti, impegnati a realizzare l’incontro delle razze dando vita all’ennesimo Love Story (con la differenza che lì era la malattia qui le diversità culturali a contrastare il lieto fine), e le ripercussioni dei rispettivi ambienti familiari, costruite con siparietti insufficienti a soddisfare le esigenze di genere, il film perde ritmo, e scialacqua la dose di simpatia guadagnata nei minuti iniziali con uno schema piatto e telefonato che sfocia in un happy end a cui si finisce per non credere.

martedì, gennaio 15, 2008

Io sono leggenda - I am legend

That’s Entertainment. Questo è quello che si deve chiedere al film che riporta in vita per la terza volta (tante sono state le trasposizioni) le vicende dell’unico uomo sopravvissuto all’estinzione del genere umano provocata dal virus che essa stessa ha prodotto. Tratto da un romanzo di Richard Matheson diventato di culto per la carica visionaria della storia e le implicazioni ambientali e sociologiche che lo rendono più che mai attuale, I am legend si avvale della presenza dell’attore del momento, quel Will Smith, grazie al quale copioni come questo, ambientato in una New York cupa e terminale, priva del consueto cotè umano e di successo (per questo struggentemente bella), e con un solo personaggio sulla scena, ove si eccettui il cane (autore di una delle scene più struggenti di tutta la filmografia degli ultimi dieci anni) che lo accompagna restituendo al film una parvenza di umanità, possono andare in porto senza essere stravolti nella loro essenza. E’ inutile farsi domande sull’ indispensabilità artistica della star holliwoodiana, perché la sua presenza è il lasciapassare necessario ad un opera non facile da digerire per un pubblico che va a cento all’ora e crede ciecamente all’immortalità degli eroi di celluloide. Piuttosto vale la pena soffermarsi sull’efficacia del meccanismo che riesce a coinvolgere senza rinnegarsi, attraverso un uso appropriato degli effetti speciali, funzionali al realismo della storia e sapientemente dosati, e con una struttura che riesce a coinvolgere perché destabilizza lo stato emotivo dello spettatore sottraendogli quello che normalmente è abituato a vedere, privandolo di quell’overdose di immagini e situazioni che finiscono per azzerare ogni capacità di reazione. Detto questo il film conserva il suo apparato di crudeltà grazie alla presenza di un nemico formidabile ed angosciante, una sorta di Erinni che si manifesta (Il buio si avvicina) in un modo ancestrale eppure concreto, un contraltare di noi stessi che ci fa pensare a come siamo diventati in un oggi che è già domani. Infarcito di citazioni cinefile (Il Silenzio degli innocenti, Castaway, Leon, Alien, The Village, tra gli altri), e supportato da una fotografia che enfatizza con luci soffuse e nostalgiche penombre, la nostalgica solitudine di una vita arrivata all’ultima fermata ed insieme la speranza di una nuova palingenesi, I am a legend dice che c’è ancora spazio per un cinema blockbuster che non offende la nostra intelligenza.

giovedì, gennaio 10, 2008

Lussuria - Lust, Caution

Mai come in questo caso le definizioni risultano riduttive per esprimere cosa sia un film come Lust, caution: e questo non perché è difficile definire un opera siffatta e neanche per l’uso del termine melò, appropriato ad inquadrare la trama all’interno di quel codice, ma perché ci troviamo di fronte al miracolo del cinema alla massima potenza, quello che riesce a forzare la corazza del nostro cuore, quello capace di rapirci all’interno della storia e di rendere possibile l’esistenza di un'altra dimensione, fittizia ma reale come il personaggio che scende dallo schermo nella purpurea rosa del cairo di alleniana memoria. Di fronte a questo, ogni termine appare inappropriato, e non rende merito ad un regista che riesce a riproporsi al di là dei generi e delle produzioni, con una poetica di ambiguità e decoro, buone maniere ed impulsi primordiali, senza venir meno ad una forma che si mantiene sempre alta, grazie ad un apparato scenografico e di costumi che si inserisce nel quadro complessivo senza alterarne il significato ma anzi arricchendolo, ad una fotografia che sa di vero ma è capace di ricreare un mondo che non esiste più, quello di un Europa in guerra con se stessa e delle favole , anche nere, dei nostri genitori. Ang Lee non bada a spese e mette a dura prova la scorza emotiva armonizzando Bene e Male, riducendo le distanze, annullando differenze, demolendo certezze come se la realtà non fosse mai esistita e ci trovassimo davanti ad un mondo nuovo, una foresta di simboli e parole dove tutto è il contrario di tutto: eros, amore, attenzione, indifferenza, impegno e distrazione, tutto è inscatolato nel prisma del regista che orchestra un supremo balletto con il genio di una mente sopraffina, capace di leggere nell’animo degli uomini come un demiurgo onniscente, che nulla risparmia e tutto ci mostra, anche quando sembra nasconderlo dietro la bellezza dei suoi protagonisti, capaci di parlare attraverso le reticenze dei gesti, la volutta degli occhi e gli amplessi della carne. Visconti ma anche Cronemberg per quel senso di pericolo imminente, per il caos freddo che si lascia intravedere dietro le stanze eternamente chiuse come i corpi nelle molteplici identità. Siamo grati al cinema ed al suo ambasciatore.

La nuova Hollywood messicana: Guillermo del Toro

Il 2007 è stato per Del Toro l’anno della svolta. Dopo un apprendistato d’autore nella terra natia (Cronos 1993) il “Peones” sbarcato ad Hollywood per realizzare il sogno americano c’è la fatta. “Il labirinto del fauno” al di là dei trionfi accademici ed il clamore del botteghino ci dice di un autore che sa cosa vuole e lo realizza con la stupefatta incoscienza delle origini. L’inizio era sembrato uguale a tanti altri: “Mimic”(1997) era il classico prodotto di uno spirito Cormaniano, citazionista quanto basta (Alien) e su misura per una passatempo televisivo. Poi di colpo, anche se niente accade per caso, l’incontro con i fratelli Almodovar (in veste di produttori) ed un film (L’espinoza del diablo 2001)che sembrava condurlo altrove, certamente lontano dal professionismo americano e che invece definisce un immaginario d’autore che rivisita la Storia (la Spagna del Caudillo) con la fantasia di una mente bambina che mischia sacro (politica e religione) e profano (credenze popolari e fiabe per bambini) e gli fa fare sul piano della produzione quella messa a punto artistica ( di una troupe di fedelissimi capitanata dal cinematographer Guillermo Navarro e di attori feticcio come Federico Luppi ed in seguito da quel ragazzo infernale di Ron Perlman) e di esperienza (organizzativa e di budget) per un futuro che sarà nuovamente americano (nel 2002 Blade 2 il capolavoro della trilogia sul Vampiro nero e Hellboy 2004,) ma caratterizzato, soprattutto nella vertiginosa (e necessaria perché in un cinema di immersioni/emersioni) avventura del “Fauno”(2006) da uno stile assolutamente personale che ha assorbito le istanze commerciali (che riconoscono la validità mercantile del “Racconto di formazione” e della “Ghost story”) all’interno di una poetica che ripropone in maniera più asciutta ma non meno anarchica il Thanatos del grande Jodorowsky. Più dei risultati artistici quello che colpisce è il percorso di emancipazione che ha portato il regista messicano diventare in breve tempo un autore a tutto tondo, che sul modello della New Hollywood anni 70 riesce a far convivere visione personale e necessità da mainstream. L’avventura continua.

Cinema mediterraneo

Leggendo un intervista rilasciata dal regista di “Cous Cous” (ultrasponsorizzato dai “Pantaloni”che ancora ne piangono la mancata vittoria nella “Palude Veneziana”) in occasione della sua presentazione alla stampa italiana mi ha colpito la frase in cui, risponendo alla domanda sul tipo di cinematografia che lo ha ispirato Kechiche parla di “Ladri di biciclette” come esempio di quel “Cinema Mediterraneo” di cui vorrebbe riproporre lo spirito. Pare di capire che Mediterraneo non è solo un luogo geografico e cinematografico ma anche uno stato dell’anima, che si ha ogni qualvolta il cinema riproduce il sentimento di appartenenza ad una cultura nata sulle sponde di quel mare che ha impregnato “Leuropalatina” delle contraddizioni necessarie ad assaporare il gusto della vita ed è stato il vettore di una cultura di sangue e passione, carnale e rarefatta, indolente ma innamorata, dove l’arte di arrangiarsi non è solo uno slogan ma la conseguenza di una condizione che viene da lontano. Un cinema meticcio che getta acqua sul fuoco del razzismo e delle differenze culturali evidenziando quegli elementi di contatto (i colori della natura ed il piacere della tavola, i legami tribali ed il vitalismo irrefrenabile) che si tramandano di generazione in generazione a dimostrare una comune dignità di cui qualche volta ci accorgiamo (mi riferisco a “Lamerica” capolavoro assoluto di Gianni Amelio dove seppur con una rotta diversa il regista calabrese arriva alle stesse conclusioni). “Cous Cous” titolo italiano che fa folklore e sgrezza ingiustamente la fantastica semplicità di quello originale (Le greine e le Mullet) al di là delle frasi retoriche e dei soliti schemi potrebbe essere il punto di partenza per un Dogma Levantino impossibile da definire eppure reale, senza regole e proclami, di anima e di carne, mistico e sensuale come i sogni concreti di un mondo che lotta per la vita.

Film in sala da venerdi' 11 gennaio

BIANCO E NERO
BIANCO E NERO
Regia: Cristina Comencini
Genere: drammatico

COUS COUS
LA GRAINE ET LE MULET
Regia: Abdel Kechiche
Genere: drammatico
IO SONO LEGGENDA
I AM LEGEND
Regia: Francis Lawrence
Genere: azione

L’ALLENATORE NEL PALLONE 2
L’ALLENATORE NEL PALLONE 2
Regia: Sergio Martino
Genere: commedia

martedì, gennaio 08, 2008

Lars and the real girl

Fuori concorso al Torino Film Festival 2007, "Lars and the real girl" e' il classico film che solo parlarne ti viene voglia di rivederlo per l'originalita' della sua storia, il menage amoroso di un ragazzo disadattato con una bambola simil donna sullo sfondo della provincia americana, e per la freschezza della messa in scena, un surplus emotivo tentuto a bada da una scrittura ad orologeria e dalla bravura degli attori, su cui spicca Ryan Gosling, finalmente alle prese con un ruolo degno della sua bravura. Prodotto targato Sundance, il film riesce a coniugare le istanze che hanno reso famoso questo modello cinematografico (scelta di temi estranei al mainstream hollywoodiano, risorse produttive inversamente proporzionali alla liberta' espressiva) con la forza persuasiva del cinema americano degli anni d'oro. Favola per adulti con possibilita' di affascinare anche il pubblico dei giovanissimi, l'opera ha il potere di trasportare lo spettatore in un mondo senza tempo, in cui puo' succedere che le scelte di una comunita' (in questo caso la decisione di assecondare le scelte del protagonista) rispettino le ragioni del cuore piuttosto che gli interessi di bottega, e che la difficolta' del singolo diventi l'occasione per riscoprire un'umanita' dimenticata. Il regista racconta
il male di vivere con un empatia ed una comprensione che non diventa mai pietismo . E' geniale nell'oggettivare la malattia attraverso un espediente che unisce immaginario popolare e scienza psicanalitica in un tripudio di situazioni drammaticamente divertenti . Ryan Gosling e' perfetto nel restituire la goffaggine del protagonista, fatta di movimenti trattenuti e vestiti troppo stretti, nel farci sentire il suo senso di alienazione ma anche la spiazzante simpatia di una personalita' che agisce senza mediazioni e con angelica ingenuita' . Di diritto fra le cose migliori del 2007.

Halloween: the Beginning

Halloween e’ un film del 1978 diretto da John Carpenter, Halloween: the Beginning e’ un film del 2007 diretto da Rob Zombie. Basterebbe questa constatazione per capire la differenza tra il film originale, quello di Carpenter, ed il remake, quello di Zombie: e non parliamo solamente delle qualita’ artistiche, che per quanto riguarda Zombie sono tutte da dimostrare (La casa dei mille corpi, La casa del diavolinon ci convincono ), ma anche della dialettica sociale che ogni film si porta con se’, e che nel primo caso sembra rispondere ad un urgenza reale, spontanea (la fine degli anni ‘70 con le sue delusioni epocali) mentre il secondo nasce dall’esigenza, di far conoscere alle generazioni piu’ giovani le origini di un personaggio (dichiara il regista) e rilanciare le fortune (economiche) di un filone sopravvissuto all’usura del tempo.
Del prototipo la nuova versione mantiene la location, una anonima cittadina della provincia americana, e la tecnica in soggettiva usata da Carpenter per farci entrare nella testa del Mostro. La principale differenza sta nel fatto che il film di Zombie traduce in immagini i fatti che erano rimasti fuori dallo spazio filmico, e che costituivano l’antefatto ed insieme lo spunto drammaturgico della saga. Conosciamo cosi’ il nucleo familiare dell’efferato protagonista, un concentrato di menefreghismo e sensi di colpa avvilito dall’assenza della figura paterna e monopolizzato dalla madre ballerina di lap dance, nel quale e’ possibile rintracciare il germe di quel malessere che di li’ a poco diventera’ irrefrenabile voglia di morte, i tentativi di recupero psicologico operati dal Dottor Loomis, una sorta di padre putativo ed insieme la coscienza interna del film, efficace nel tirare le fila dell’interminabile escalation cosi’ come nel definire le inspiegabili manifestazioni del maligno, fino agli anni del carcere, dove si completa quella metamorfosi che trasformera’ lo spaurito bambinetto in una perfetta macchina di morte. Zombie gira secondo le regole del genere, confezionando un opera che rispetto agli standard appare piu’ sobria, meno gore ma lascia intendere che la suspence non risieda nella preparazione della scena ma nei convulsi movimenti di macchina e nelle urla assordanti delle vittime.Il sangue continua a scorrere, ma rispetto ad altri prodotti, il livello si mantiene sopportabile. Certo il film replica a memoria un mondo popolato da ninfette ninfomani e giovani sistematicamente arrapati, ma d’altronde e’ questo lo scenario preferito dal genere, quello che, secondo gli adepti, esorcizza al meglio i lati oscuri della nostra coscienza. Zombie dimentica la grottesca ironia e la vena surreale
che l’aveva fin qui contraddistinto, ed ai suoi proseliti, che ci dicono numerosi ed agguerriti, regala almeno un sorriso quando nelle file dei buoni fa recitare attori solitamente impiegati in ruoli totalmente opposti come Brad Dourif, Udo Kier e lo stesso Mc Dowell qui nella parte dello psichiatra dell’assassino. Chi si aspettava qualcosa di piu’ sul personaggio Meyers restera’ deluso, per i neofiti puo’ essere l’inizio di una nuova passione.

Bee Movie

A giudicare dagli sguardi dei bambini che lasciavano la sala, il personaggio dell’Ape anticonformista non entrera’ nel loro immaginario.
Sono loro infatti la cartina di tornasole per giudicare opere di questo tipo, quando come adulti ci si trova spiazzati da uno spettacolo di superlativa maestria tecnica ma francamente ripetitivo e troppo scontato per destare un minimo di interesse. In questo caso quindi quegli sguardi sono la conferma di un flop inatteso, specialmente in Italia (ma anche in America) dove le feste natalizie e la mancanza di un analoga concorrenza (nel 2006 ben tre cartoni animati si contendevano il botteghino) lasciavano prevedere ben altri risultati. Ispirato ad una altro prodotto Dreamworks, quel “Z la formica” di cui riprende l’incipit con il solito protagonista, ora come allora alle prese con una crisi di identita’ che mette a repentaglio la sua esistenza all’interno del mondo chiuso e perfettamente calibrato sugli interessi della comunita’, piuttosto che del singolo (qui la societa’ apesca e’ rappresenta come un falansterio che sacrifica la componente umana all’efficienza del risultato, ovvero la produzione del miele), Bee Moovie ne ricalca anche gli sviluppi, attraverso una storia che e’ insieme un viaggio avventuroso alla scoperta del mondo ed un percorso di crescita personale.

Se l’apparato scenico (la rappresentazione della societa’ delle Api e’ divertente e fantasiosa) e figurativo (la rotondita’ delle linee associata ad una luce diretta e colorata conferiscono alle immagini un sapore dolcemente infantile) confermano gli standar di settore cio’ non si puo’ dire della storia (scritta da Jerry Seinfield, comicocatodico di massima popolarita’ negli States e Deus ex machina dell’intera operazione) che si avvale di uno spunto brillante ma viene meno sul piu’ bello, quando, messo in moto il meccanismo narrativo lo sviluppo dell’azione non deriva dall’incontro delle specie, dal fatto che Barry, questo il nome del protagonista, possa interagire con gli uomini alla pari, come se le differenze biologiche non esistessero ma, dalle diverse prospettive con cui ognuno vive gli avvenimenti che si innescano nel corso della vicenda - e definiti i temi liberal-ecologici (un mix di salvaguardia dell’ambientale ed ecumenismo radical chic) perde tempo a descrivere gli “svolazzi”platonico amorosi del nostro campione ed affida lo snodo fondamentale ad una serie di sequenze ambientate in Tribunale, con Barry impegnato a fronteggiare le arringhe partigiane di un Orco travestito da Perry Mason. Insomma mancano la scivolate sulla buccia di banana, le battuttaccie fulminanti ed un po’ irriverenti (e la Dreamworks dovrebbe conoscerne l’efficacia), le invenzioni mirabolanti e surreali che da sempre fanno la felicita’ di quel pubblico giovane a cui spetta l’ultima parola sulla qualita’ dell’opera.

L'assassinio di Jesse James


A dispetto della sua fluvialita’ questo film si puo’ riassumere in un istante: Jesse James scende da cavallo e si piega sull’acqua resa ghiacciata dalla stagione invernale, quasi a riprendere la situazione del famoso dipinto del Caravaggio: sembra che stia cercando le prove di un recente passaggio, in realta’ il bandito si sofferma su altro, forse sta guardando la vita che verra’ oppure cerca di capire qual e’ stato il senso della sua esistenza. Chi lo sa? Poi, improvvisamente, quasi risvegliandosi da un sogno ad occhi aperti e senza un apparente motivazione, infrange quella visione con un colpo di pistola e riprende a cavalcare verso un destino ormai segnato.
La telecamera indugia un momento per osservare il passaggio di un pesce sotto lo strato di ghiaccio, quasi una morte anticipata, una metempsicosi senza dolore che ricorda il “Big Fish”Burtoniano o forse una soluzione salvifica sul modello del Bodisawtha, una vittoria dell’armonia sul caos del creato, un desiderio di espiazione senza dolore che rimane sospesa nel flusso della vicenda che si va costruendo. E’ questo il bello del film e forse anche il suo limite, quello di rimanere sempre sospeso sulla prossima scena, spiazzando solo gli impreparati per la mancanza di quell’apparato immaginario e narrativo che caratterizza il western in celluloide. Rivestito dall’etichetta del genere, “Jesse James” e’ in realta’ un film sull’impossibilita’ di riproporre un filone cinematografico che ha perduto per sempre la sua epica, spazzata via da un etica contemporanea che non lo capirebbe e da una percezione del mondo in cui le potenza dell’immaginazione ha lasciato il posto alla certezza della tecnica. Un cammino verso la fine che ricorda quella del “Dead Man” Jarmusciano, se non fosse per la diversita’ dei toni, surreali e stravaganti, qui dolenti e postmoderni, e per il diverso stile di recitazione, con un Brad Pitt piu’ che mai serioso e meditabondo che prende il posto del “Dead Deep” imbambolato e bambinesco, oltre alle evidenti differenze cromatiche (quelle di “Jarmush/Muller” rigorosamente in bianco e nero, quelle di “Molik/Deakins” che alternano i colori freddi e lividi del paesaggio naturale con quelli degli interni illuminati alla maniera di Wermer, quasi una “roulette russa” tra vivere e morire). La leggenda del bandito E’ messa a nudo dallo sguardo impietoso del suo assassino (Casey Afflek tanto antipatico quanto meritevole del massimo premio veneziano) ma seppure filtrata da un sentimento di odio amore non riesce a diminuire il suo fascino nero, il magnetismo sciamano degli sguardi persi nel vuoto della sua anima e di quelli che gli stanno attorno. Nel Novello Narciso interpretato da un divo che deve fare i conti con un privato da uomo adulto e cerca di rinnovare la sua arte con un cinema di sostanza, c’e’ anche l’essenza di un film capace di andare oltre la storia, di entrare dentro al mito senza lasciarsi scoraggiare dall’impresa, di inoltrarsi in una dimensione senza tempo dove solo l’alternarsi delle stagioni e la natura leopardianamente matrigna ci ricordano che esistiamo, che non siamo gia’ morti. Riesce a disegnare traiettorie esistenziali che sfuggono il parolaio quotidiano e si allineano con quelle dei grandi visionari (Malik e Mann per parlare del cinema recente) da cui li separa soltanto il compiacimento di chi sa di aver centrato il bersaglio.

Una nuova giovinezza

Leoni per Agnelli di Robert Redford (che si ricollega idealmente e quasi chiude il cerchio con il Clint Eastwood di Million Dollar Baby ovvero il rammarico di un passaggio di consegne impossibile, di una incomunicabilita’ generazionale definitiva nonostante le indubbie affinita’) delinea una tendenza nel cinema americano che prendendo spunto dagli avvenimenti bellici di fine secolo, ripropone sulle basi di un realismo nudo e crudo, spesso traumantico per un paese che piu’ di tutti sta pagando in termini di vite umane lo sforzo bellico messo in atto, un modello di giovinezza intesa non solo come eta’ anagrafica e di iniziazione alla vita ma come contenitore di quegli ideali di verita’ e giustizia che sono stati alla base della nascita della giovane democrazia d’oltreoceano e che hanno fatto sognare a colpi di peace and love and rock and roll (Across the universe) buona parte di quei registi che ora la raccontano sullo schermo.

Che sia invocata come un sogno riparatore ad un vita sacrificata alla conoscenza (A youth without a youth) o presa a modello come ritorno ad uno stato dell’eden dove non c’e’ spazio per l’ipocrisia dei valori famigliari (Into the wild) o di quelli istituzionali (leoni per agnelli) questo stato della vita viene sempre definito in analogia (The flag of our father) o in contrapposizione a quella dei Padri, stastica, chiusa su se stessa, incapace di capire, corrotta e corrutrice perche’ non riesce a salvare i propri figli ma anzi li spinge per troppo zelo sull’orlo del precipizio (Nella valle di Elah). E’ un processo di identificazione transgenerazionale che accomuna indipendentemente dall’eta’ (ancora una volta Coppola che torna a filmare con la voglia di un ragazzino) o dalla cultura (il bambino afghano dell’ultimo film di Foster), nella consapevolezza che solo questo stato dell’anima ci puo autorizzare a pensare ad un mondo migliore.

Leoni per agnelli

Ci voleva Redford, icona di un cinema liberal che pur non rinunciando all’intrattenimento si concede spesso all’analisi sociale ed alla denuncia del potere sotto tutte le sue forme, per organizzare una sorta di dialogo a quattro voci sui massimi sistemi americani, la politica e l’informazione, che diventa anche lo spunto per una riflessione sui miti fondanti della nazione e su cosa vuol dire essere americano, alla luce delle scelte dell’attuale governo statunitense. Insomma un sacco di carne al fuoco, e non solo anche il rischio di diventare retorico o ancora peggio pesante dal, per quel modo di mettere in scena i protagonisti (il film si svolge all’interno di uno spazio circoscritto e ci mostra le due coppie di interlocutori seduti uno di fronte all’altro, separati da una scrivania che diventa una sorta di spartiacque culturale e generazionale ed anche, quando Tom Cruise la oltrepassa, il simulacro di una diversita’ che non e’ mai esistita), come fossero in una specie di confessionale, in cui, lontano dall’immagine pubblica o istituzionale, senza la divisione tra alunno e professore si affrontano alla pari, senza i vantaggi dei rispettivi ruoli e con a disposizione un corrispettivo che diventa anche un contraltare sulla propria situazione personale. Ed invece avvalendosi di un cast di prime donne assolutamente votate alla causa Redford riesce a tracciare un punto di situazione sullo “Stato dell’Unione” da far rabbrividire: attraverso la figura del senatore repubblicano, che ha la risata contaggiosa ed i modi convincenti del redivivo Cruise, qui alle prese con un ruolo che lo mette in discussione non solo sul piano artistico ma anche personale (molti lo hanno accusato di essere l’ottimo venditore del progetto Scientology), ci dice come sia caduta in basso la politica americana, eternamente aggrappata al prossimo conflitto di civiltA’ per rimediare a scelte operate sulla base del tornaconto personale o per emotivita’ culturale (“mi sono stancato di prenderle” dice il politico in un momento di sincerita’ , per spiegare le ragioni della nuova strategia militare), con quello della giornalista (Meryl Streep) che l’intervista, una donna senza qualita’ e dalla morale assai incerta, il simbolo di una stampa assoldata al servizio del miglior offerente (in questo caso i Repubblicani), e promulgatrice di una verita’ al quale per prima non crede. A riequilibrare le sorti di una situazione senza uscita ci pensa l’accorato appello del vecchio professore, con il regista per la prima volta in una parte che sembra quasi una laurea honoris causa, impegnato a risvegliare, sull’esempio dei due studenti che hanno scelto il rischio della guerra ( ed il film ci tiene a precisare che non appartengono alla classe dominante ma a quelle minoranze che di fatto pagano il prezzo piA’¹ pesante, anche in termini di vite umane dell’insensatezza dominante) al disimpegno qualunquista, arruolandosi nell’esercito impegnato in una guerra (afghana) che sembra la rivisitazione piu’ crudele del deserto dei Tartari, con un nemico che non si vede quasi mai e che ad un certo punto sembra non esistere (e forse e’ cosi’),e che il film ci mostra in un’eroica quanto comovente scena finale, gli ideali dello svogliato studente reso apatico dalla constatazione della banalita’ del male ed avviato, come la maggior parte dell’umanita’ ad una esistenza di pura, (anche se nel caso del personaggio in questione si presuppone ricca di soddisfazioni materiali) di pura sopravvivenza . Certo non siamo di fronte ad un capolavoro ed in fondo il film non ci dice nulla di cio’ che non sapevamo (ma d’altronde la storia continua a dirci le stesse cose), ma il punto non e’ questo: a Redford non interessa spettacolarizzare la forma ne tantomeno confezionare il contenuto con artifici che non gli appartengono: per far questo avrebbe potuto assoldare un regista all’ultima moda od uno dei tanti venditori di fumo che tanto successo riscuotono tra la critica oltranzista. Ed invece quello che gli preme e’ mettere la sua firma ed ancor piu’ la sua faccia sul manifesto di un dissenso che deve diventare una volta per tutte il monito per non perdere piu’ tempo ( i personaggi devono esporre le loro teorie in fretta, perche’ il termpo che li riportera’ ai rispettivi impegni sta per scadere) ed iniziare a fare qualcosa per cambiare il corso della storia, per evitare le conseguenze di un Armageddeon senza ritorno, evitando di aspettare che lo faccia qualcun altro ma prendendosi fino in fondo le proprie responsabilita’ di uomo e di cittadino americano.

mercoledì, gennaio 02, 2008

Film in sala da venerdi' 4 gennaio

BASTARDI
BASTARDI
regia: Federico Del Zoppo, Andrés Arce Maldonado
genere: commedia

HALLOWEEN - THE BEGINNING
HALLOWEEN
regia: Rob Zombie
genere: horror

LARS E UNA RAGAZZA TUTTA SUA
LARS AND THE REAL GIRL
regia: Craig Gillespie
genere: commedia

LUSSURIA - SEDUZIONE E TRADIMENTO
SE JIE - LUST, CAUTION
regia: Ang Lee
genere: drammatico

UIBU’ - FANTASMINO FIFONE
HUI BUH
regia: Sebastian Niemann
genere: animazione