martedì, settembre 25, 2007

L'ora di punta

Parlare male di questo film e' come sparare sulla croce rossa ciononostante quest'esercizio puo risultare utile per fare il punto di situazione sul cinema italiano che mai come quest'anno apre la stagione con esisti cosi' poco incoraggianti. Quello che stupisce e' che anche registi navigati e capaci inciampino sulle forche caudine del conformismo cinematografico quando invece ci si aspetterebbe la definitiva consacrazione. Purtroppo e' quello che succede a Marra dopo le belle prove di "Tornando a casa" e "Vento di Terra" quando si lascia tentare dalle sirene della grande produzione e probabilmente da una voglia di visibilita'che finisce per spuntare le sue doti migliori. Cosi' il rigore della scrittura e la forza delle idee si trasformano in un riassunto piatto e senza vita di un Bel ami come ce ne sono tanti la cui ricerca del piacere finisce per influenzare la materia del racconto, che diventa simile ad uno slogan qualunquista senza forza ne' coragggio. I mali della societa' vengono bignamizzati in un contenuto che usa il linguaggio cinematografico dei Grandi senza sfruttarne le potenzialita': i lunghi silenzi e gli sguardi senza fine, i tormenti dell'anima e le repentine decisioni vengono serviti con ellissi e panoramiche che sembrano un modo elegante per sfuggire ad un approfondimento doveroso e necessario. Il salvatore della patria si rivela scaltro ed opportunista nell'approfittare del degrado generale ma il film non ne spiega le ragioni del successo e da' per scontato quei presupposti psicologici che servirebbero a convincerci sulla forza seduttiva di Michele Lastella la cui presenza scenica e' mortificata da un espressivita' del tutto inesistente. La voglia di prima pagina e' confermata dall'inutile presenza di Fanny Ardant in un ruolo pierrottesco che non rende onore alla sua vitalita' e si spiega solamente alla luce di un appeal mediatico che in italia appare indebolito da scelte artistiche a dir poco discutibili.

Premonition

Alla ricerca di ruoli che le consentano di mantenere viva l'attenzione del pubblico dopo vari tentativi nel cinema piu impegnato Sandra Bullock si ritaglia un ruolo del tipo "one woman show" impersonando la storia di un travaglio prima fisico e poi spirituale con la solita professionalita' ma anche con una partecipazione che va oltre gli standard del film di produzione. Peccato per lei che il film non la segua con la stessa decisione rimanendo indeciso tra il thriller metafisico ed il dramma a forti tinte scontentando soprattutto quelli che si aspettavano una riproposizione in chiave adulta e femminile del "sesto senso". Ed invece con un procedimento di ricostruzione a ritroso che ricorda solamente nel meccanismo l'inarrivabile "Memento" il film scorre via con facilita' e sufficiente tensione ma consuma con il passare dei minuti il suo bonus adrenalinico e soprattutto la capacita' di tenerti incollato alla poltrona. I tentativi della donna di sfuggire al destino gia' segnato assumono rilevanza solamente alla luce di una sofferenza che rimane confinata in quadro di assoluto pragmatismo e non riesce neanche per un momento ad assurgere al trascendente. Grazie ad una regia convenzionale ma di indubbio mestiere ed al cast calibrato al millimetro Premonition riesce a reggere il contraccolpo per l'occasione mancata e le aspettative deluse.

domenica, settembre 23, 2007

Il dolce e l'amaro

A differenza dei colleghi veneziani affetti da un overdose autoriale ed artefici per contro di opere che non ripagano la fiducia e soprattutto le spese del pubblico pagante Porporati vola basso e si ripropone dopo lunga pausa con una storia di formazione mafiosa che si aggiunge a quel corpus filmico che in Italia e' diventato genere cinematografico che difficilmente tradisce le aspettative. Il controaltare a queste sicurezze e' rappresentato da una certa scontatezza nella ripetizione di una sociologia che non ha piu' nulla da svelare ed uno stile recitativo mai lontano dai soliti stilemi; eppure Porporati pur non dicendo nulla di nuovo riesce a riscaldare la minestra lavorando sulle atmosfere del racconto che modella con uno stile fluido ed al tempo stesso meditativo in cui la rappresentazione della violenza e' la logica conseguenza di un percorso psicologico che non perde mai le fila del discorso e si sposa alla perfezione con le cadenze degli eventi. Un meccanismo ad orologeria infiammato dalla presenza di Luigi lo Cascio attore imprescindibile che attraversa il film senza un momento di pausa e si impone con una recitazione nervosamente ferina e con un protagonismo che rimane sempre la servizio dell'opera. Ed in un prodotto in cui non fa difetto la qualita' della confezione merita una nota di merito la fotografia espressionista di Alessandro Pesci che nella contrapposizione tra i colori accesi del paesaggio e le atmosfere notturne degli interni ripropone sul piano formale il dualismo del titolo e fornisce il paradigma emotivo in cui si muovono i personaggi della storia.

La ragazza del lago

Costruito su un impianto di genere che affonda le sue radici nella tradizione del noir europeo con venature esistenziali La ragazza del lago e' il film delle promesse mancate per la sua incapacita' di realizzare le nobili premesse. Le colpe di questo fallimento, l' ennesimo di una cinematografia senza memoria e fortemente condizionata da un apparato distributivo e mediatico che spinge verso il basso, non riguardano solo lo stile improntato a modelli televisivi e percio' a disagio con i toni chiaro scuri e le mezze verita' che caratterizzano l'apparente normalita' della comunita' sconvolta dall'orribile delitto, ma sono da individuare nella ricerca di un autorialita'a tutti i costi che vampirizza il film con una filosofia dell'ovvio ed una serie di nulla di fatto che dilatano all'infinito i tempi del racconto. Il film si appiattisce sulla figura del commissario con il cervello fino e l'animo travagliato che trasforma l'indagine in una terapia di gruppo che vorrebbe avere le atmosfere di certo cinema bergmaniano ed invece rimane schiacciata da un determinismo forzato e senza logica soprattutto nell'epilogo finale in cui tutto si risolve in maniera semplicista e fasulla. Nella parte del protagonista fa cilecca Servillo che ripropone stancamente e con una recitazione al limite del manierismo laconicita' e cadenze di quel Titta di Girolamo che lo aveva consacrato. Il resto del cast lo segue a ruota con una serie di interpretazioni senza sostanza che nulla aggiungono ad un opera che vive sull'anonimato di una regia inesistente.

I'm not There

Premiato ex equo con il premio speciale della giuria all'ultimo festival di Venezia I'm not there e' il tipico prodotto destinato a compiacere gli addetti ai lavori per quelle caratteristiche di incomprensibilita' ed arroganza che fanno tendenza negli ambienti dove la cultura e' diventata strumento di potere. Solo cosi' si possono spiegare le lodi sperticate nei confronti di un film che fa del titolo una dichiarazione di intenti e non riesce neanche per un momento ad andare oltre il mito e parlarci dell'uomo che si cela dietro la leggenda di Bob Dylan. Il paradosso diventa' piu evidente quando nel tentativo di circoscrivere l'argomento il regista con uno stile involuto e criptico imbratta la tela alternando frammenti di vita reale con personaggi e suggestioni ispirate dall'opera omnia del musicista il cui unico risultato e' quello di allontanare e confondere quelle risposte che invece dovrebbero essere i tema centrale dell'indagine . Il tentativo di sfuggire a facili categorizzazioni e l'ossessione dellìartista di preservare la propria utopia dalla normalizzazione operata dal sistema da una vita ad una serie di sentenze che suonano come una campana a morto per l'intelligenza dello spettatore e specialmente nella caratterizzazione irrisolta e neutra di Cate Blanchett risultano noiosamente ripetitive ed al limite della sopportazione fisica. Il camaleontismo psicologico del protagonista rappresentato dallo stuolo di star pronte a sacrificare il portafoglio ma non la vanita' soddisfa le esigenze del cartellone ma lascia l'impressione di una celebrazione alla carriera piuttosto che la ricostruzione di una personalita' spigolosa e sfuggente. E di fronte ad un simile resoconto alla fine e' lecito chiedersi se fu vera gloria od invece ci troviamo di fronte ad uno delle piu grandi mistificazioni della recente storia musicale: a giudicare dal film ogni dubbio e' lecito.

mercoledì, settembre 12, 2007

Reign Over Me

Se ce ne fosse ancora bisogno Reign over me conferma come i fatti dell'11 settembre siano ancora una ferita aperta non solo per il pubblico americano ma in generale per l'intero emisfero cinematografico. Solo cosi' si puo spiegare la scarsa considerazione nei confronti di un film che ha le qualita' estetiche e morali per affiancare e talvolta superare illustri predecessori. Sarebbe pero' riduttivo relegare l'opera nell'angusto recinto dei film a tema, frutto di una ecessita' contingente e modaiola. Qui la tragedia assume un respiro piu' ampio, diventando quasi laterale alla struttura del racconto che costruisce le atmosfere attraverso un sottile equilibrio di parole e silenzi ed affonda le sue radici in un esistenzialismo laico e vitale che ai voli pindalici preferisce una fenomenologia dell'anima capace di accostarsi al dolore senza cadere in ammiccamenti voyeristici o nelle soluzioni ad effetto. Diretto con mano sicura da Mike Binder (The upside unger) che firma anche la sceneggiatura e si ritaglia un piccolo ruolo (e' l'avvocato occhialuto e pragmatico che amministra le ricchezze del protagonista), corredato da una fotografia (Russ Alsobrook) crepuscolare ma calda, capace di regalarci una New York inedita e altrettanto affascinante, il film si avvale di un cast superbo su cui spiccano un attore di classe come Don Cheadle e soprattutto un Adam Sandler in versione Bob Dylan capace di valorizzare il suo ruolo con efficace sobrieta. Quando poi un film si puo permettere un cameo come quello di Donald Sutherland, giudice risoluto e vagamente luciferino non ci sono piu dubbi sul valore assoluto della visione

giovedì, settembre 06, 2007

Sicko

Il simpatico ciccione sembra aver perso la sua proverbiale irriverenza ed anche quello spirito di anarchia che aveva caratterizzato i precedenti lavori. Sara'per le accuse che gli sono piovute all'indomani della sconfitta elettorale alle ultime elezioni quando il suo stile arrembante fu giudicato controproducente alla causa liberal oppure la difficolta'a rinnovare un modello ormai usurato sta di fatto che Sicko appare come frenato nella sua azione disvelatrice rimanendo sulla superficie dei fatti e ribadendo all'infinito l'assunto inziale (esemplare la conclusione senza spiegazioni della vicenda Hilary Clinton) mentre sul lato squisitamente filmico la narrazzione appare depauperata di quei gioielli del buon umore che ti facevano comunque ricordare di essere al cinema ed insieme aiutavano a riflettere mantenendo desta l'attenzione. Tutto appare intercambiabile in una struttura che ha perso la propria identita' e potrebbe essere utilizzata per parlare indistintamente della fame del mondo o dell'ultimo disco di Eros Ramazzotti. E persino certi paradossi come il fatto che il sistema sanitario italiano non sia cosi male o che gli eroi dell'11 settembre vengano curati dall'acerrimo nemico sono serviti con le polveri da sparo ormai bagnate ed al massimo vanno bene per una discussione al Bar dello sport.

Licenza di matrimonio

La faccia di Robin Williams peraltro priva della solita espressivita' non basta ad assicurare il successo del prodotto. Questa e' la prima considerazione che emerge al termine della proiezione quando in uno sforzo gia annichilito dall'infausto evento si tenta di dare un volto agli altri protagonisti finiti nel dimenticatoio con insospettabile celerita'. E cercando di attribuirte le colpe del misfatto ci si accorge per esclusione che non c'e' nulla da salvare a cominciare dagli attori che certo sono limitati da un copione scontato e dimentico dei meccanismi del genere ma non ci mettono un briciolo di voglia e con loro l'inesistente regista forse distratto dalle pudiche grazie della cantante attrice. Una volta si diceva che il cinema americano era insuperabile nella produzione di medio livello ma dopo aver visto "Licenza di matrimonio" e' impossibile non pensare il contrario.

Il bacio che aspettavo

Convinto che il mondo non possa fare a meno di lui e consapevole di non avere piu le forze e soprattutto l'ispirazione per esercitare la professione Lawrence Kasdan ha deciso di continuare ad esserci per interposta persona imponendo ai frequentatori della settima arte l'intera progenie senza preoccuparsi di supportare il progetto con un impalcatura capace di sostenere i passi ancora incerti dei giovani apprendisti. L'agognata raccomandazione si trasforma allora in una trappola per topi in cui il giovane regista rimane incastrato e con lui l'attore bamboccio di belle speranze e la diva sfiorita intenta a risalire la china. Il distributore italiano che ha mangiato la foglia tenta di rimediare facendo leva sulle nostalgie mucciniane ma il titolo nostrano enfatizza le lacune di un film senza identita'e soffocato da una serie di personaggi che sembrano capitati per caso all'interno della storia. La ricognizione del mondo femminile rimane fortemente condizionata da una visione unilaterale e priva dell'ironia necessaria per stemperare l'atmosfera tristemente monocorde che pervade l'intera operazione.

mercoledì, settembre 05, 2007

Marie Antoinette

Sofia Coppola sembra destinata a condividere il destino di tanti figli d’arte chiamati a confermare ogni volta la propria credibilità artistica. Così dopo tanti consensi di nuovo le forche caudine del Festival di Cannes, dove la poveretta, si fa per dire, viene subissata di critiche per lesa maestà nei confronti della gloria nazionale; presuntuosa e sovrastimata sono gli aggettivi che la Croisette le regala tra la distante quanto sardonica indifferenza della giovane vittima. Finalmente sugli schermi anche noi siamo chiamati ad esprimere il giudizio su Marie Antoinette, film storico sui generis che rievoca un passaggio fondamentale della storia moderna con la sensibilità dei nostri tempi. I giorni e le ore sono scandite da una compilation musicale che spazia tra il punk e la new wave ed i protagonisti sono figli della tribù globale piuttosto che dell’antico regime. Bizzarria di un artista Newyorkese, impegnata a confermare la sua appartenenza ad un entourage artistico sempre in anticipo sui tempi o affermazione di un universo personale svincolato da regole e clichè ?. E’ probabile che entrambe le componenti abbiano stimolato la vena creativa della regista: quando prevale la matrice culturale, il film sembra guardarsi allo specchio in un estasi di compiaciuta autostima, mentre colpisce nel segno quando lascia il campo ad uno sguardo delicato ed insieme capace di evocare dall’interno la complessità di un mondo femminile in continua trasformazione, tra solarità adolescenziali ed improvvise zone d’ombra. La fotografia di Lance Acord( Adaptation,The Dangerous Live of the Altar Boys, Lost in translation) riesce a far percepire lo scorrere del tempo in un mondo altrimenti immobile e contribuisce a destabilizzare la classicità della ricostruzione storica. Marie Antoinette nonostante qualche passo a vuoto porta a casa il risultato, confermando le qualità di un talento capace di camminare sulle proprie e sufficientemente presuntuoso per continuare a perseguire un percorso artistico tanto periglioso quanto originale. PS Perchè Kirsten Durst nei film della Coppola perde quell’aria insulsa ed ordinaria, trasformandosi in una sirena voluttuosa ed irraggiungibile?

martedì, settembre 04, 2007

Paradiso + Inferno

A partire dai 70, le tematiche legate alla tossicodipendenza hanno offerto al cinema nuove possibilità di interpretazione del reale. La sistematicità della loro riproposizione hanno creato un genere cinematografico molto amato dagli addetti ai lavori che in esso hanno trovato la possibilità di esprimere l’intera gamma creativa e di esorcizzare i propri fantasmi personali. Su questa scia si inserisce il lavoro del regista australiano Neil Armfield che al suo esordio sfoggia tutti i clichè del genere, adattando per lo schermo il best-seller (nel suo paese) “Candy” dal nome della giovane protagonista qui replicato dall’insulso binomio “Paradiso + Inferno”. Segnati da un esperienza famigliare che è alla base della loro inadeguatezza, i due protagonisti trovano nella tossicodipendenza il collante della loro relazione.; il film li presenta come angeli caduti intenti a confermare la propria condizione in squallide stanze di periferia e nei santuari del senso a pagamento, alimentando un ghetto esistenziale che assomiglia ad un tunnel senza uscita. Nostalgie da paradiso perduto lasciano il posto a tormenti senza estasi tra crisi di astinenza ed i letti sfatti dagli afflati amorosi. Il regista mette a frutto i trascorsi teatrali, puntando tutto sulla presenza degli attori, vero punto di forza dell’intera operazione. Perfettamente calati nel ruolo, riescono a far vivere sullo schermo l’intimità del loro sentimento e l’incapacità di dare una svolta alla loro vita.; e se Heath Ledger continua un percorso attoriale coerente e mai scontato, Abbie Cornish si impone con una recitazione insieme fisica ed emotiva, per un personaggio che lotta con tutte le sue forze per tenere in vita il suo sogno d’amore. Rivolto al pubblico dei più giovani, il regista evita di soffermarsi sugli aspetti più crudi della vicenda, preferendo un taglio poetico che fa assomigliare il film ad una versione acida di Romeo e Giulietta, ma allo stesso tempo, quasi avesse paura di seguire il suo scopo fino in fondo, ne appesantisce la visione con una fenomenologia della dipendenza che anestetizza l’impatto emotivo della storia. La confezione non riesce da sola a riscattare un insipienza di fondo che relega il film ad un giusto anonimato.