giovedì, novembre 30, 2006

TFF 2006: retrospettiva Claude Chabrol

(dall'ed 2006 del Torino Film Festival)
La retrospettiva riguardante il maestro francese era dedicata alla seconda parte della sua monumentale opera e comprendeva 22 film e 18 tra film tv e sceneggiati.

Personalmente ho seguito molto la retrospettiva dedicata a Chabrol e vorrei spendere qualche riga in merito al film che personalmente ritengo essere un capolavoro e che risale al 1995.

LA CEREMONIE
L’ingombrante microcosmo dell’alta borghesia visto e modificato da uno strano sodalizio composto da Sophie, una timida cameriera e Jeanne, la postina del paese, interpretata dalle superbe Sandrine Bonnaire e Isabelle Huppert.
Referenze ottime, riservata, collaboratrice domestica a 360°, così si presenta Sophie, il vero e proprio identikit di quella di cui va in cerca la signora Lelièvre, gallerista radical chic, con un passato da modella e marito magistrato, che con la famiglia (pateticamente splendida in tutta la sua ipocrisia), si è ritirata in campagna, per una vita tutta cultura e natura.
Ma la riservatezza di questa zelante cameriera si fa sospetta a causa di alcune “distrazioni”. Le perplessità aumentano quando Sophie stringe amicizia con la postina del paese, Jeanne, il suo esatto contrario, un mix di invadenza e parole in libertà.
Ma tra emarginati ci si comprende, e tutto sfocia in un sodalizio frutto anche di un oscuro passato comune (entrambe sono fortissimamente sospettate di essere delle assassine che sono riuscite a farla franca).
Inganni ed esistenze misteriose, anche in questo caso Chabrol non scherza andandoci giù pesantissimo, pur mantenendo tutti i protagonisti in una ambiguità che non fa capire allo spettatore dove vada a parare.
Per Chabrol si tratta sempre di un affare di donne, la sua cinematografia è zeppa di donne inquiete, ansimanti, alla deriva.
La donna come cuore di ogni vicenda umana, il punto di partenza per qualsiasi “viaggio” nella vita terrena.
Un film durissimo, La Cérémonie, che si serve di una trama esile per fare macelleria di uno dei cardini della società, la famiglia.
Assolutamente da rivedere. Capolavoro assoluto. <
(di Fabrizio Luperto)

TFF 2006: retrospettiva Robert Aldrich

(dall'ed. 2006 del Torino Film Festival)

Oltre ai titoli in concorso e fuori concorso la 24° edizione 2006 del Torino Film Festival ha proposto al pubblico due retrospettive molto interessanti dedicate a Claude Chabrol e Robert Aldrich, due autori del cinema internazionale contemporaneo molto diversi tra loro per stili e temi affrontati, ma che con la loro opera hanno testimoniato con simile intensità le complesse geometrie della vita, il rapporto tra uomo e società di riferimento, e la precarietà degli equilibri nelle relazioni umane.

Mentre per Chabrol si trattava della seconda parte di una corposa retrospettiva iniziata nella 23° edizione del festival dello scorso anno, di Robert Aldrich sono stati proiettati tutti i titoli, compreso The greatest mother of all, un raro cortometraggio realizzato sul finire degli anni ‘60 in vista di un lungometraggio che il regista americano non realizzò mai, e World for ransom, secondo film dell’autore che segnò la via dei B-movies.

La ricchezza del calendario proposto dal festival e la non sempre comoda collocazione per sala e orario dei film non hanno purtroppo consentito di vedere la retrospettiva in modo completo. Tuttavia i titoli di cui parlerò possono essere di certo rappresentativi dell’opera di Aldrich. Il pubblico di Robert Aldrich è un selezionato popolo di appassionati di genere incuriositi dall’imprevedibilita' dei comportamenti umani, dal grottesco che è in noi, ed affascinati dagli artisti che non temono di esprimere la propria opinione sulla societa' ed i sistemi economici, spesso causa delle frustrazioni individuali. Perche' Aldrich e' tutto questo e molto di piu'.

Aldrich ha spaziato in quasi tutti i generi, dal dramma alla commedia, dalla guerra al noir, passando dal western, riuscendo ogni volta a raggiungere il cuore dei personaggi, sondandone gli stati d’animo, accompagnandoli lungo le vie della rabbia, della gloria e della miseria umana. Ci ha raccontato storie ora estreme, ora comuni che non risparmiano mai un tagliente commento sulla societa' .

Autore di grande fermento intellettuale, Aldrich e' stato un precursore, anticipando tendenze e soluzioni registiche; senza mai perdere i suoi tratti caratteristici, ed anzi trasformando tutto ciò che lo stimolava sul piano creativo in eloquenti immagini, che hanno di certo segnato un’epoca, e' riuscito ogni volta a leggere la realtà con occhio critico e disincantato, elaborandone quadri narrativi accessibili e di autentica profondità emotiva.

Amareggiato eppure sedotto dal veleno degli uomini ha spesso prediletto personaggi ai limiti della societa' , che sono costretti a lottare senza soste per emergere dalla massa, per restare vivi, per ritrovare e difendere una propria identita'.

I profili psicologici sono precisi e netti, aperti alle evoluzioni degli avvicendamenti: i protagonisti sono chiamati in un viaggio periglioso per maturare consapevolezza, cosi' come accade nella vita, dove ogni giorno e' per tutti scenario di crescita personale.

Quasi tutti gli autori contemporanei hanno attinto dall’opera di Aldrich, sia nelle storie raccontate che nei simboli, qualunque sia il genere scelto. Famosi e di ineguagliabile rapimento sono tutti i suoi finali: scrosci fragorosi che assorbono in un momento lo spettatore in conclusioni a volte inesorabili ed altre di maggiore apertura alla speranza. Aldrich mette in scena un’America divisa tra sete di gloria, eroismo e pusillanimita', un Paese corrotto che piange la perduta purezza, in corsa verso un benessere che stenta a raggiungere e che mal accetta i compromessi.

L’America di Aldrich e' un gigante dagli infiniti orizzonti, che crede nei valori e negli ideali della vita ma che cade in un peccato morale dal quale fatica a liberarsi. E’ miserabile, goffa, splendida, si maschera, si spoglia, commuove per la forza di animi accesi dal fuoco delle passioni. Sgomenta per le gesta di terribile violenza e cattiveria. Lascia interdetti per la sua incapacità ad amare.

Le sue sono storie di uomini e donne assetati di amore, potere e giustizia, di personaggi dimenticati e soli, di gente semplice capace di gesti eroici. Coraggioso nelle sue esplicite dichiarazioni anti belliche e per le sue aspre critiche al mondo dello star sistem hollywoodiano, Aldrich ci ha lasciato opere intramontabili, classici dal respiro internazionale che coinvolgono senza dubbio per dinamicita', estro ed arguzia.

Lo sguardo del regista di Rhode Island e' un occhio lucido sull’uomo e i suoi peggiori istinti, sulla fragilita' dei meccanismi della giustizia e sul bisogno di felicita' che c’e' in ognuno di noi.

Come ogni film festival che si rispetti anche a Torino sono stati proiettati i film nella loro lingua originale, con il supporto dei sottotitoli in italiano: si e' potuto così apprezzare a tutto tondo la bellezza ed il fascino di queste intramontabili pellicole.


The big leaguer (Il grande alleato - 1953)

Opera prima di Aldrich dedicata al mondo dello sport. Si raccontano le storie di un gruppo di giovani durante un anno trascorso nella squadra di baseball New York Giants in Florida. E’ una sorta di documentario romanzato, dai toni freschi e leggeri. I giovani di cui si parla sono tutti atleti che sperano di essere ingaggiati dalla grande squadra per coronare i loro sogni di gloria. Solo pochissimi riescono a farcela, iniziando una brillante carriera sportiva, ma tutti quanti vivono un’sperienza irripetibile e comprendono meglio loro stessi. Il film fu girato in due settimane e permise al regista di tracciare con mano ferma ombre e luci sulla morale dello sport e le sue logiche: i talenti non sempre trovano persone pronte a comprenderli e spesso si sacrifica l’umanità per un immediato bisogno di investire tempo e denaro con certezza di successo. Ma lo sport e' fatto di uomini e soprattutto dai loro gesti guidati dalla passione e dai sogni, dai loro diversi modi di esprimere il gioco e la vita.

World for ransom (Singapore intrigo internazionale - 1954)

Seconda opera del regista girata in 11 giorni con 180.000 dollari. Il film, uno dei primi B-movies americani di grande successo, rappresenta la tipica tendenza di Hollywood degli anni ‘50 di realizzare lungometraggi ambientati in Oriente senza far muovere la troupe dalla California.

World for ransom fu girato tutto negli Studios utilizzando mezzi a basso budget. Furono impiegati astuti accorgimenti per rendere tutto piu' realistico e ovviare ai limiti strumentali e strutturali: abbondano le scene invase dalla nebbia, i notturni, le inquadrature strette a ridosso dei personaggi, i primi piani, le inquadrature dal basso per mettere in evidenza i ventilatori pendenti dal soffitto, primo e piu' esplicito indizio del luogo. La storia e' ambientata a Singapore ed e' un noir dai toni divertiti: l’investigatore Mike aiuta una sua ex fidanzata a ritrovare il marito coinvolto in una sporca faccenda di malavita, dove un boss cerca di ricattare uno scienziato nucleare. Il film anticipa temi che saranno trattati ne Un bacio ed una pistola e coinvolge fin dalle prime scene, in un crescendo di tensione e divertimento. Uscito nelle sale venne programmato in seconda serata come B-movie di accompagnamento ai film di maggiore successo, ma spesso si rivelo' migliore degli stessi. Apri' l’era dei B-movies di genere ed e' un buon esempio di come fare un buon film spendendo veramente poco.

Kiss me deadly (Un bacio e una pistola - 1955)

Uno dei capolavori di Aldrich, il noir piu' visionario della storia del cinema, l’opera piu' innovativa e agile dell’autore. Corruzione, violenza, colpi di scena, interrogativi che stentano a trovare risposte, una lunghissima notte in cui il protagonista insegue ombre e un terribile segreto: questi gli ingredienti di un noir di indiscutibile riuscita. La storia è tratta da un romanzo di Mickey Spillane: l’investigatore Mike Hammer, coinvolto in un omicidio, insegue la soluzione di un enigma che lo portera' ad un passo dalla fine, in una spirale che lo risucchia progressivamente. Il film fu girato in 21 giorni con una spesa di circa 410.000 dollari. Molto apprezzabile la fotografia, di un bianco e nero perfetti, e di sorprendente modernita' la struttura narrativa.

Montaggio dinamico, ritmato, con indispensabili momenti di tesa lentezza in cui si alimenta il brivido. Al festival di Torino il film è stato presentato da Adele Aldrich, figlia del regista, e Claude Chabrol, da sempre grande estimatore di Aldrich ed uno dei suoi primi recensori. Chabrol ha ricordato la ricchezza di idee che caratterizza questo film ed il suo potere ispiratore per qualunque cineasta. Alla fine degli anni ‘50 Kiss me deadly stupì per la sua innovazione registica e scosse il mondo della cinematografia europea, in particolare quella francese, piuttosto fermo su di un vuoto di idee preoccupante. “Aldrich -ha esordito Chabrol- rappresenta la vivacità di fare cinema; aveva gusto per l’immagine, un fervore creativo. E’ stato uno dei cineasti con il merito di averci dato un vera spinta a fare cinema, nessuno allora faceva cose del genere. Questo film è straripante di idee, così innovativo e sorprendente, così energico. Ai quei tempi in Francia il cinema era una cosa triste con poche idee e poche strade: Aldrich ha dato una spinta a tutti noi.

Di lui conoscevo Apache e Vera Cruz, che avevo molto amato, ma con Kiss me deadly mi stupì”. Chabrol ha introdotto il film visivamente emozionato, guidato dal suo amore per l’arte di Aldrich. “Aldrich ha fatto ciò che voleva con fantasia, estro, iniziativa. Si percepisce un’intelligenza della narrazione molto sottile”. Il regista americano in pochi giorni riuscì a condensare molte idee in una struttura ben fatta, che non abbandona mai lo spettatore e che anzi lo attira con sempre maggiore forza verso un finale visionario ed inquietante.

Mio padre -ha precisato Adele Aldrich- come in ogni sua opera, anche in questo film esprime le sue idee politiche. L’immagine finale è molto forte e ci ricorda quanto in realtà il fine non possa giustificare i mezzi.”

Il film è stato per me una vetrina in cui mostrare le mie idee sul cinema. In tal senso è stato una vera e propria “prima volta”. Non l’ho mai negato. Credo che ciò che irritò alcuni, e su questo sono stato più volte travisato, fu ritenere che ne avessi rinnegato l’importanza. Non l’ho mai fatto. Ho detto solo che l’importanza del film andava valutata in relazione a un particolare contesto politico”. Aveva un significato di fondo per il nostro contesto politico, che ritenevamo piuttosto importante nell’era McCarthy: e cioè che il fine non giustifica i mezzi”. (R. Aldrich)

Ogni sequenza è frutto di talento e gusto. Ed uscendo dalla sala allo spettatore resta intatto il piacere di un’esperienza unica ed emozionante.

The big knife (Il grande coltello - 1955)

Sull’onda di una forza creativa nel pieno della sua crescita, Aldrich confeziona un altro capolavoro del cinema di introspezione psicologica e di denuncia sociale. The big knife ha i ritmi di una piece teatrale, il morso feroce di un documentario, la disperazione di una corsa controcorrente. Il film critica aspramente il declino morale di Hollywood, fa esplodere una acerba critica al mondo dello star system. Un attore di successo in crisi creativa non riesce a riprendere le fila del proprio matrimonio in declino da tempo e del proprio lavoro, soffocato dall’arrivismo e dalla sete di potere di un produttore strozzino. L’affamato mondo dello spettacolo non ha tempo per i sentimenti, per le debolezze. I personaggi si affrontano uno contro l’altro in un corpo a corpo ora verbale ora fisico, in un crescendo di odio e rancore tesi all’esasperazione.

Il regista lascia comunque una speranza. Il protagonista principale, l’attore in crisi esistenziale, è interpretato da Jack Palance, da poco scomparso ed uno dei volti più intensi del cinema di Aldrich, dalle espressioni e movenze indurite per le difficoltà della vita, dallo sguardo tagliente.

Sui suoi occhi passano forza e fragilità ed il suo ripiegarsi su se stesso evoca l’immagine di una sistema economico ipertrofico ed in crisi, divorato dall’interno, che tende ad implodere, incapace di gestire un certo smarrimento ideologico.

La perdita del sogno, la progressiva sterilizzazione degli ideali hanno reso Hollywood una spietata macchina da soldi, a discapito dei più fragili. Aldrich non abbassa lo sguardo e non teme di esprimere il suo dissenso. In questa opera si coglie ancora una volta un amore per il dramma e la capacità innata e spontanea di affrontare con lucida disinvoltura i temi fondamentali della vita in nome della verità oggettiva. Il realismo di Aldrich lascia trasparire un chiaro desiderio di riscatto da una situazione al limite della sopportazione, la rabbia e la richiesta di aiuto. Il clima in cui i personaggi si muovono è piuttosto greve, tutto si svolge in poche stanze: la fissità degli scenari aiuta a sviluppare un’atmosfera asfittica e ossessiva, che preme contro il petto dello spettatore. Cameo di Shelley Winters. Vivida ed emozionante Ida Lupino, che interpreta la moglie del protagonista. Odioso e cinico il divertito agente dell’attore, Rod Steiger: è’ lui infatti a rappresentare la nota di colore del film, il cattivo che diverte, che lascia sbigottiti per brillantezza e ferocia; egli rappresenta il modo preferito di Aldrich per interpretare l’inclinazione umana al peggio.

Autumn leaves (Foglie d’autunno - 1956)

Joan Crawford è la protagonista principale di Autumn leaves, pellicola drammatica che porta a riflettere sui sentimenti e sulla forza della passione. Con questo film Aldrich traccia il suo primo ritratto femminile, affidandosi ad una delle più brave attrici di tutti i tempi.

Milly (Joan Crawford) è una donna che vive sola dopo la perdita del padre, per il quale aveva sacrificato la propria giovinezza, accudendolo fino alla fine di una lunga malattia.

Chiusa in se stessa sembra aver perso la speranza di poter essere felice accanto ad un uomo che possa amarla. Nel suo laconico sguardo, nelle sue labbra indurite si coglie una rinuncia a vivere, l’incredulità di poter essere felice quando per caso conosce Burt Hanson (uno struggente Cliff Robertson) che poco a poco riesce a penetrare il suo cuore.

Dopo le nozze, ed animati da una sincera passione, i due entrano progressivamente in una profonda crisi alimentata dai fantasmi del passato che ossessionano Burt. La pellicola porta a riflettere non solo sulla crisi individuale ma soprattutto sul rapporto tra individuo e famiglia di origine, culla di amore e nevrosi spesso pagate postume a caro prezzo. Nonostante la cupezza il film è permeato da un positivismo forse inaspettato eppure proprio di Aldrich: si lascia aperto un abbraccio al sereno, alla continuazione della vita, sotto una luce consolante.

Credo sia la mancanza di maturità psicologica a causare l’instabilità di molti americani. Non sono capaci di accettare il fallimento, la sconfitta, la povertà. Vogliono avere successo a ogni costo, negli affari o in amore, nella politica o in qualsiasi altra sfera della loro vita. E la pressione economica causa un sistema di reazioni a catena che determinano, alla fine, una serie di traumi. Da lì in poi il singolo individuo attraverserà vari livelli di instabilità.

E’ necessario trattare questo problema con più profondità e completezza in futuro sullo schermo. E io spero di poter contribuire ulteriormente”. (R. Aldrich)

Joan Crawford si muove disinvolta sulla scena, incarna senza indugi il dolore maturo di una donna consapevole di se stessa e delle proprie paure eppure così sorpresa dal riconoscersi forte e temprata dalla durezza del proprio passato. Splendida la sua interpretazione e molto intensa tutta la seconda parte del film. Aldrich adorava la Crawford, che volle a tutti i costi nel successivo What ever happened to baby Jane?.

Attack (Prima linea - 1956)

Primo film di Aldrich ambientato nella seconda guerra mondiale e prima sua limpida dichiarazione anti bellica. Il regista mette in scena le paure ed il coraggio di un manipolo di uomini chiamati a combattere una guerra che mette tutti sullo stesso piano, che fa emergere le angosce più terribili ed i valori umani più rispettabili, fino al compimento di gesti eroici. Nel cast ancora Jack Palance che irrompe sullo schermo con tutta la sua prorompente energia e che resta aggrappato al dramma corale con le unghie e la determinazione di uno spirito leale. Nel corso di un attacco a una postazione nazista il capitano dell’esercito americano Cooney (Eddie Albert) manca ai propri doveri per codardia e lascia senza copertura il suo intero plotone, che viene falcidiato dal nemico.

La cosa viene messa a tacere nell’esercito e Cooney resta impunito. Il tenente Costa (Jack Palance), dopo aver assistito con sgomento all’accaduto ed aver chiesto aiuto invano, inizia a covare un rancore feroce verso l’ipocrisia delle gerarchie militari.

Il film denuncia non solo la meschinità di certi personaggi forti solo del loro potere acquisito, ma soprattutto le gerarchie militari che oscurano il rispetto per la vita umana e dimenticano che la storia è fatta dal coraggio di pochi rispettabili uomini d’onore. Aldrich mette in scena valori quali la lealtà , il rispetto, dando vita a personaggi carichi di vita e disperazione, poveri diavoli buttati a ridosso di un conflitto che più affrontano da dentro e meno lo possono comprendere, giustificare.

La guerra è un’inutile perdita di vite umane in nome di un potere goduto da pochi, guidata spesso da incompetenti. “In Attack l’Eroe si scontrava fino in fondo contro un’autorità incompetente

cercando di uccidere un capitano vigliacco, responsabile della morte dei suoi uomini. Ho voluto rappresentare il mio disprezzo e la mia ripugnanza per questo individuo facendogli compiere atti sadici che probabilmente sapevano di grand guignol. [...] Per me era un film contro la guerra, che ne metteva in luce gli orrori e mostrava l’effetto che essa può avere sugli uomini” (R. Aldrich).

Lo scopo è raggiunto senza sbavature: i personaggi si svelano progressivamente, mostrando le loro debolezze ed appassionando lo spettatore alla loro vicenda. Il film lascia l’amaro in bocca, suscita indignazione e commuove. Un manifesto coraggioso e coerente contro la meschinità e le ingiustizie mascherate da giustizieri.

The angry hills (Le colline dell’odio - 1959)

Ancora uno scenario di guerra, ancora il secondo conflitto mondiale, ma questa volta siamo in Grecia e si mette in scena la tragedia della lotta antinazista di un Paese fiero dei propri valori e della propria Storia, messo in ginocchio all’arroganza degli invasori. L’amore per gli ideali porteranno gli uomini ad affrontare le cose più terribili in nome della libertà.

Aldrich parla di lutto, eroismo, sacrificio, mostra senza veli l’orrore del nazismo e elle sue pratiche e, in contrasto, la dignità di un popolo che ha perso tutto e che per questo è stanco di avere paura. Aldrich sceglie personaggi complessi e tormentati, uomini che con pochi gesti decidono le sorti di molti, che lasciano un segno indelebile nella Storia. Il protagonista è Robert Mitchum, un corrispondente di guerra americano inviato ad Atene, che si ritrova coinvolto nella lotta di liberazione condotta dai partigiani greci.

L’attore in quel periodo affrontava le prime prove meritevoli di memoria, pur godendo giù di una certa notorietà . Antidivo, un pò dannato e ritroso alla mondanità , Mitchum in questo film si esprime con nodosa indolenza. La narrazione è un crescendo di colpi di scena, ricamata qua e là da momenti di poetico sentimento. Mitchum riesce a mantenere un equilibrio tra paura e determinazione, senza cadere nel cliché.

L’eroe si sacrifica volontariamente, la guerra miete ancora una volta le proprie vittime.

Aldrich non fu molto soddisfatto dell’opera per motivi di disorganizzazione iniziale che lo portarono a girare le scene con una sceneggiatura ancora incompiuta.

The last sunset (L’occhio caldo del cielo - 1959)

Dopo Apache e Vera Cruz, Aldrich ricalca di nuovo le vie del western raccontando una storia di vendetta e rimpianto. La scenografia non è ancora quella spettacolare di Ulzana’s raid ma avvolge lo spettatore con una luce calda e le stelle delle sequenze notturne. Brendan (Kirk Douglas) rivuole a tutti i costi la sua ex fidanzata Belle (Dorothy Malone), ora sposata con un ricco mandriano.

Sulle tracce di Brendan, dal passato oscuro e torbido, Ca Dana (un fascinoso ed integerrimo Rock Hudson), uno sceriffo assetato di vendetta e deciso a saldare i conti del passato. I due uomini si incontrano al ranch di Belle e finiscono con l’accettare una proposta di lavoro del mandriano. Oltre a chiarire gli errori del passato i due dovranno contendersi Belle, di cui entrambi si scoprono nnamorati. Kirk Douglas interpreta un personaggio di imprevedibile ironia, diviso tra i tormenti e le fughe di una vita da bandito e il sogno di una vita romantica. Il suo animo respira e canta una poesia delicata e positivista, estranea ai film western e che lo rende per questo unico nel suo genere. Aldrich dirige con mano sicura.

I dialoghi cadono spesso in un romanticismo da sceneggiato senza tuttavia sfaldare la tensione di fondo. La regia mantiene la giusta coesione tra i personaggi. Molto ispirato Douglas che produsse il film.

Sodom and Gomorrah (Sodomia e Gomorra - 1962)

Sodom and Gomorrah è un film storico in costume, forse tra i meno riusciti del regista. Dal punto di vista produttivo fu un fallimento, ma anche sul piano narrativo il film lascia a desiderare.

La parabola raccontata cade spesso in toni di parodia, probabilmente per la corposità dei temi trattati e la difficoltà della gestione di un film in costume.

Imponenti le scenografie e numerosissime le comparse. Un film massiccio, di grandi numeri, molto lungo, che offre sulla scena uno Stewart Granger di scarsa forza emotiva. La sequenza cult è quando la regina di Sodoma regala al capo degli ebrei (Stewart Granger) la sua serva prediletta, quale gesto di amicizia.

L’uomo porta a casa la serva e cerca di insegnarle a vivere come il suo popolo, invitandola al lavoro e al sacrificio. La donna, che fino a quel momento aveva vissuto nella opulenta Sodoma, dove nemmeno gli schiavi patiscono la fame, rifiuta categoricamente di piegarsi alla fatica e a rinunciare agli agi.

Convinta dell’importanza per ogni persona di curare la propria bellezza in vista di un benessere personale decide di accudire le figlie del capo degli ebrei, di cui diventerà la moglie.

La prima cosa che farà sarà insegnare loro la pedicure.

What ever happened to baby Jane? (Che fine ha fatto Baby Jane? - 1962)

Capolavoro assoluto di Aldrich che si avvale di due mostri sacri del cinema internazionale: Joan Crawford e Bette Davis. Le due attrici, fortemente volute dal regista, che le corteggiò per tempo e per le quali aveva espressamente pensato questo lungometraggio, rendono questo film un classico senza tempo. Aldrich mette in scena due personaggi femminili abietti e folli, che nascondono molte verità.

In scena lascia alle due attrici piena libertà, senza freni, riuscendo a portarle al’estremo.

L’idea della Star è qui sgretolata senza pentimenti nè esitazioni e, come in Autumn leaves, la famiglia è all’origine delle frustrazioni e dei successi di ogni individuo. Le due icone del cinema scivolano progressivamente verso l’odio reciproco dando vita a due donne in conflitto eterno tra loro e con loro stesse.

Dramma violento e terribile, che fa germinare nello spettatore il seme dell’angoscia e del disincanto.

Non è una storia sul cinema, ma sulle persone. Racconta la fine di una bambina prodigio mai maturata emotivamente e intellettualmente. Non è un film contro l’industria cinematografica, ma contro la famiglia. Nessuno voleva finanziarlo.

Ormai sono troppo cinico e vecchio per sorprendermene, ma mi stupì che nessuno si accorgesse del potenziale esplosivo che queste due donne così diverse avrebbero innescato. Nel film agiscono e

pensano in modo così differente, e i loro atteggiamenti sono così opposti che, mettendole in una stanza, non potranno far altro, teatralmente parlando, che esplodere” (R. Aldrich).

Il film visto in lingua originale ha una potenza incredibile, i personaggi sembrano emergere dallo schermo. Aldrich riesce a caricare di tensione tutta la vicenda, in un crescendo di suspance.

Joan Crawford è toccante, appassionata, scavata da un tormento sotterraneo.

Bette Davis impressiona per realismo: per questo ruolo ricevette una nomination all’Oscar.

The legend of Lylah Clare (Quando muore una stella - 1968)

Secondo appuntamento per Aldrich per mettere in luce, con impietosa lucidità, i fasti e le colpe dello Star system di Hollywood. Un film sul cinema che riflette sui motivi per cui si fa cinema, sul valore e l’utilità o meno dei miti, sul perchè li si rincorre.

Si narra la storia di una attrice che interpreta la vita di una diva scomparsa in modo misterioso: la sua immedesimazione è totale, tanto da scivolare quasi nella follia. Esempio di meta-cinema.

Nel cast una splendida Kim Novak, uno spumeggiante Ernest Borgnine e molti attori italiani tra cui Valentina Cortese. Molte le battute recitate volutamente in italiano e di certo così scritte in sceneggiatura. La pellicola presentata al festival era molto rovinata ma ha retto egregiamente alla doppia proiezione. Presenta un virato al rosso che rende tutto più artefatto ed inquietante. Memorabile la metafora canina del finale, che lascia puro sgomento nell’animo.

Too late the hero (Non è più tempo di eroi - 1970)

Splendido affresco anti bellico, forse il film di guerra di Aldrich più crudo, irriverente e ribelle.

I protagonisti sono anti eroi per eccellenza che si ritrovano, loro malgrado, a calcare la via degli eroi: ma a differenza del passato sanno scegliere se votarsi al sacrificio e come.

Seconda guerra mondiale: il tenente americano Saw Lawson (Cliff Robertson) viene spedito, a due giorni dalla licenza, in un’isola del Pacifico in aiuto ad un comando inglese. Lo scopo è attaccare e sconfiggere un gruppo di temibili soldati giapponesi che si nasconde nella foresta tropicale.

Aldrich scardina le logiche della guerra e delle gerarchie militari, mettendo in luce tutta l’umanità e la disperazione di cui gli individui sono capaci. La guerra è fatta di vittime ed è messa pesantemente in discussione dagli stessi soldati che, in una missione estenuante e senza certezze, comprendono quanto sia inutile immolarsi per un paese che nemmeno li ricorderà.

Tutti sono nemici di tutti ma ognuno si sente dalla parte del giusto. Chi è il nemico? E per quali motivi vale la pena sacrificare la propria vita? Sono molte le domande che porta in seno questo film, le stesse che rendono il personaggio interpretato da Michael Caine, un soldato inglese in forte disappunto col sistema, un antieroe con cui sentirsi solidali. Caine dà voce ad un soldato inglese rancoroso verso il proprio Paese che l’ha spedito a morire in un posto assurdo combattendo estranei verso cui non prova alcun sentimento, nè di odio nè di amore.

I personaggi eseguono ordini imposti dall’alto consapevoli dell’inutilità delle loro azioni e della vacuità della guerra, non solo per la collettività ma soprattutto per loro stessi, costretti a rinunciare alla loro individualità.

Ma Aldrich si ribella e dimostra che è possibile sottrarsi, almeno in parte, a questo abbietto meccanismo, salvando il senso di lealtà e l’amore per l’essere umano.

Geniali i titoli di testa con le bandiere dei tre stati coinvolti nella storia.

Non si può restare indifferenti davanti ad un tema ancora così attuale e controverso.

Ulzana’s raid (Nessuna pietà per Ulzana - 1972)

In pieno anni settanta Ulzana’s raid è uno dei film western di Aldrich più violenti, uno dei suoi film più cupi e arrabbiati. L’esercito americano è sulle tracce dell’indiano Ulzana, fuggito dalle riserve. Ulzana è un rabbioso ribelle che semina terrore e morte dove passa, che incoraggia i suoi compagni Indiani Apache alla sete di vendetta verso gli americani.

Il film è un susseguirsi di violenti scontri, di omicidi efferati e disperazione. Apparentemente sembra un film tributo ai conquistatori del West che fecero giustizia addomesticando i terribili

Apache, ma in realtà l’opera porta a riflettere come l’ignoranza induca a commettere errori sempre più gravi.

Il non comprendere l’altro, la diversità, i diversi codici di comportamento e comunicazione porta inevitabilmente ad un conflitto cieco e disperato.

Burt Lancaster interpreta una guida americana in aiuto dell’esercito, che ha sposato una donna Apache e che cammina sul filo di due civiltà opposte e sorde l’una all’altra. “Alan Sharp (lo sceneggiatore), Lancaster e io credevamo assolutamente che il film avesse una corrispondenza con la situazione in Vietnam. [...] Il film mostrava a più livelli come, attraverso l’ignoranza della cultura altrui, dei comportamenti, delle divinità e delle usanze di altre popolazioni, si facciano più danni di quanti non se ne facciano intenzionalmente”. (R. Aldrich) .

Emperor of the North pole (L’imperatore del Nord - 1973)

Il film più amato dal pubblico e, a detta dei critici, il film perfetto.

Aldrich racconta la storia di uomini ai margini della società, di anime dimenticate da tutti, che cercano di rendere la propria vita memorabile nonostante la miseria terribile in cui versano.

Anno 1933. Durante la depressione economica americana si moltiplica il numero dei barboni, dei poveri che dalle campagne emigrano nelle grandi città senza trovare lavoro e che per questo sono emarginati.

Si tratta di un popolo che ha proprie leggi e che vive lungo i binari del treno cercando di sopravvivere senza perdere la speranza e la propria umanità. Senza svelare nulla della storia, che deve essere scoperta in sala e gustata come un eccitante giro sulle montagne russe, la narrazione decolla dopo pochi minuti dall’inizio del film e non molla mai la presa.

Azione pura senza un attimo di tregua. Aldrich, qui al suo meglio, fa parlare uomini semplici che sovvertono tutte le regole, che sorprendono, fa battere il loro cuore, la loro intelligenza.

Tra gli attori sopra tutti spiccano Ernest Borgnine e Lee Marvin.

The choirboys (I ragazzi del coro - 1977)

The choirboys è un’emblematica rappresentazione della vita quotidiana della polizia di Los Angeles degli anni ‘70. Si narrano le vicende di 10 poliziotti, durante e dopo il lavoro, con un montaggio che anticipa gran parte dei telefilm polizieschi americani degli anni ‘70 e ‘80.

I poliziotti sono visti con occhio critico, svelati nelle loro bassezze, nelle miserie di uomini impauriti di fronte alle proprie responsabilità. Si è persa l’aurea di eroismo, di buonismo, di giustizia. I rappresentanti della legge sono uomini con problematiche, fragili, incapaci.

A tratti grottesco in altre estremamente drammatico, questo film di Aldrich mette in scena tutta la rabbia, la paura, la perversione e la disillusione di una generazione che ha vissuto le bugie della guerra nel Vietnam e che ne è rimasta scottata e dalla quale stenta a riscattarsi.

Il Vietnam ha restituito uomini turbati, che difficilmente riescono a reintegrarsi nella società d’origine. La storia è tratta dall’omonimo romanzo di Joseph Wamburgh, dal quanle Aldrich dissentiva fortemente: secondo il regista i poliziotti non possono essere giustificati nelle loro paure, o almeno non indiscutibilmente. Nessuno li obbliga a diventare tali, per cui la loro incapacità nel gestire stress e responsabilità deve essere riferita alla loro personalità, ai loro limiti.

Ed è su quei limiti che si deve ragionare. Non manca una riflessione sul sistema che mantiene queste persone senza aiutarle davvero.

Nel cast anche James Woods, Burt Young e Louis Gossett Jr.

(di Valentina Tampellini)